Giobbe.Romanzo di un uomo semplice (5).

22 Luglio 2017Lorenzo Cuffini

Riscrittura a puntate per l’estate.

Scritto da MARIA NISII.

La seconda parte del romanzo segna un nuovo passaggio temporale: dopo alcuni mesi Mendel è ormai di casa a New York, per quell’adattabilità tipica della sua gente – Mendel assume talvolta i tratti dell’Ebreo errante (specie nelle parole del vetturino: “cosa viaggiate sempre per il mondo! è il diavolo che vi spinge da un posto all’altro. Noialtri si resta dove si è nati”, 86). Gli affari di Sam vanno bene, Mirjam ne frequenta l’amico Mac, Deborah ha un bel vestito e va al cinema – anche se non ha perso il vizio di lamentarsi. L’America è God’s own country come la Palestina e New York, la città dei miracoli, come un tempo Gerusalemme (114): sono tutti affascinati (e presto ne saranno anche vittime) dal sogno americano.

Mirjam non sta in casa  più di quanto ci stesse prima, ma almeno lavora nel negozio del fratello, e lei e la madre ora pare si capiscano. Deborah “è una donna, qualche volta ha il diavolo addosso” (115) e la nuora “sia pure stupida! Le donne non hanno bisogno di cervello, che Dio l’aiuti, amen!” (114): Mendel esprime così il suo maschilismo – affine probabilmente alla sensibilità di Roth.

Mendel si compiace dei figli, ma aspetta sempre una lettera che gli dia buone notizie degli altri due lasciati in patria. Marito e moglie pensano sempre a Menuchim e sperano di poter tornare a casa a trovarlo.

È a partire da questo momento che il richiamo alla parabola di Giobbe si fa più evidente, per cui possiamo scandire i tempi del romanzo secondo lo schema del libro biblico.

Il tempo della prosperità. Arriva la notizia di un grande guadagno di Sam e del socio Mac, a cui segue la buona notizia che Menuchim ha iniziato a parlare e che corre persino. Insieme arriva anche una lettera di Jonas, in cui si dichiara felice della sua vita da soldato che intende proseguire dopo la leva. Le buone nuove riavvicinano per quella sera marito e moglie, che festeggiano bevendo idromele. Mendel ringrazia il Signore da cui si sente graziato: “Anche su di lui s’inarcava la grande, ampia, benigna mano di Dio” (124).

Nonostante il benessere conquistato dal figlio, Mendel non vuole cambiare casa e quartiere (rigorosamente ebraico) sebbene nelle notti estive non possa dormire per gli insetti, il rumore e la puzza che arrivano dall’esterno; di giorno per contro si appisola continuamente, sognando di Menuchim, mentre i suoi figli gli cantano le lodi e i “comandamenti” del Nuovo Mondo (“gli americani erano sani, le americane belle, lo sport importante, il tempo prezioso, la povertà un vizio, la ricchezza un merito, la virtù un successo a metà, la fiducia in se stessi un successo completo, il ballo igienico, lo schettinare un dovere, la beneficenza un investimento di capitale…, 127). I figli desiderano per sé quel sogno americano, Mendel invece ci dorme su sognando Menuchim e la Russia.

Una notte guarda sua moglie che dorme e si chiede il perché di quella convivenza, visto che il loro piacere è finito da così tanto tempo; la risposta è naturalmente biblica: sta scritto che non è bene che l’uomo sia solo, e perciò viviamo insieme” (129).

Apice di questa fase di benessere è l’offerta di Mac di andare in Russia a prendere Menuchim, ma purtroppo quando arriva il momento l’Europa entra in guerra e il progetto non può andare in porto. Mendel prega, ma la sua fiducia vacilla e dice a se stesso che cantare i salmi è troppo poco per salvare i suoi figli.

Le prime disgrazie. Anche l’America entra in guerra e Sam, che dalla Russia è partito disertore, ora s’arruola perché l’America è una patria (135). Solo quando è ormai partito, Mendel si rammarica di non aver detto nulla per convincerlo a restare – non è l’uomo delle decisioni, lui. E adesso vive aspettando la domenica, il giorno in cui arrivano Mirjam, la nuora e il bambino. Un giorno le due donne portano con loro un uomo, il signor Glück, che a Mendel dà l’impressione di intendersela con entrambe – “un altro cosacco”(137), commenta tra sé. Di Jonas si viene a sapere che è disperso.

Altre disgrazie. Improvvisamente arriva Mirjam. È un giorno e orario insolito, così si capisce subito che deve essere successo qualcosa; Mendel sente di sapere già tutto: l’ha sognato. E la notizia è che Sam è morto – Mac ne ha riportato l’orologio (non era più Schemarjah e di lui torna indietro un simbolo di successo di quel che è stato Sam): Deborah inizia a strapparsi i capelli e muore cantando una ninna nanna per bambini morti. Se ne va con una delle sue tante scene madri: il dolore è vissuto in una rappresentazione di rinuncia-sconfitta definitiva di se stessa (della bellezza che è stata, di cui i capelli sono segno) e del suo essere madre (ninna-nanna).

William Blake, Satana punisce Giobbe con piaghe infuocate.
William Blake, Satana punisce Giobbe con piaghe infuocate.

Mendel trascorre i giorni del lutto, quasi immemore degli amici che passano a fargli visita, discorrendo con la defunta: “…piena di travaglio e senza senso è stata la tua vita. Nella giovinezza ho goduto della tua carne, più tardi l’ho sdegnata. Forse è stato questo il nostro peccato” (141). Sempre in cerca della colpa da cui deriverebbero le disgrazie di famiglia, Mendel pensa che da una parte la fine del desiderio tra marito e moglie e dall’altra il desiderio quasi ossessivo di Mirjam per gli uomini – ragione per cui sono partiti (152) – siano i peccati di famiglia. La colpa, secondo Mendel, è una questione di desiderio.

Ma di Deborah almeno il Signore ha avuto pietà, “di me non ha compassione. Perché io sono un morto e vivo ancora” (141) – eco di Gb 3,21: “a quelli che aspettano la morte non viene, che la cercano più di un tesoro”; 6,9: “volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Ciò sarebbe per me un grande conforto”; 10,1a.2: “stanco io sono della mia vita!… Dirò a Dio: Non condannarmi! Fammi sapere perché mi sei avversario”.

Improvvisamente un’altra infausta notizia: Mirjam è impazzita e nel suo vaneggiamento ammette di aver tradito Mac con Glück e ora che Mac è tornato, la tresca è venuta a galla. I medici dell’ospedale dicono che si tratta di un caso che non sanno curare: “psicosi degenerativa” o “dementia”, ma neppure dei nomi sono tanto sicuri. Dicono a Mendel di pregare, già che lui è un uomo pio.

A differenza di Giobbe, che reagisce contro Dio solo quando viene colpito nella sua carne, Mendel è stato toccato negli affetti – nemmeno nei beni – e dunque il suo sarebbe il livello delle prime disgrazie bibliche.

Improvvisamente Mendel sembra trasformarsi: prende in mano la situazione, dice alla nuora di sposare Mac (non l’altro uomo) per dare un padre al bambino e sistemarsi. Vuole restare solo e sciolto da ogni legame, ma gliene resta ancora uno. Per questo accende un fuoco e prende il sacchetto con i filatteri, il talèd e i libri di preghiera: “non ha figlio, non ha figlia, non ha moglie, non ha patria, non ha denaro. Dio dice: ho punito Mendel Singer; di che cosa lui, Dio, punisce?” (148) – eco, tra gli altri, di “se ho peccato, che cosa ti ho fatto?”(7,20). È come impazzito, ma non riesce a buttare il sacchetto nel fuoco: “il suo cuore era in collera con Dio, ma nei suoi muscoli albergava ancora il timore di Dio” (148). Le mani si rifiutavano di obbedire per un “sacro riflesso condizionato” (PB 323), ma non bocca e piedi. Per cui inizia a gridare e pestare rumorosamente il pavimento.

(continua)

 

  • In copertina:  Marc Chagall, L’ebreo errante
  • Testo di riferimento : Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 (ed. or. 1930)

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