Racconti di resurrezione.

27 Maggio 2017Lorenzo Cuffini

Scritto da MARIA NISII.

 

“Mi pare che si possa parlare, in una prospettiva anche solo terrena, del ricordo, di ogni ricordo come di una resurrezione: l’esistente scomparso risorge in noi. Risorge ogni giorno, ogni domenica del cuore, ogni minuto, dunque è vivo, vive in noi” (Paolo di Paolo, Perché non sono ancora, Effatà, 2014, pag. 55)

La memoria è qui oggetto, mezzo e luogo del risorgere, un tornare alla vita grazie al richiamo del ricordo. È un tentativo, anche questo tra i tanti possibili, di dire la resurrezione in termini comprensibili, esperienziali, umani.

Sebbene coinvolto nel progetto Scrittori di Scrittura, Di Paolo non ha riscritto i racconti evangelici in una nuova narrazione, ma ha scelto la modalità della meditazione selezionando alcune parole (“noli me tangere”, “non sono ancora”, “Maria!”), gesti (lo spezzare il pane, il lasciarsi toccare da Tommaso e il non consentirlo a Maddalena) e immagini (l’interpretazione iconografica di quattro artisti).

Ci si potrebbe allora chiedere come si possano riscrivere i racconti di apparizione (salvo poi valutare quanto riusciti siano gli esiti), ricordando che il primo tentativo è stato l’apocrifo Vangelo di Pietro,uno scritto della prima metà del II secolo, giunto fino a noi in un solo frammento, contenente la narrazione della passione e della resurrezione. Secondo questo antichissimo testo, davanti alla tomba vengono poste alcune guardie che assistono, testimoni privilegiati, all’evento:

“Ma durante la notte, in cui cominciò la domenica, mentre i soldati facevano la guardia, a due a due per ogni turno, una gran voce venne dal cielo. Ed essi videro i cieli spalancarsi e due uomini scendere di là, avvolti in una grande luce, e avvicinarsi al sepolcro. E quella pietra che era stata spinta contro l’apertura rotolando da sola, si ritirò da un lato e il sepolcro fu aperto e ambedue i giovinetti entrarono dentro. Allora quei soldati, vedendo ciò, svegliarono il centurione e gli anziani: infatti erano anche loro presenti, per fare la guardia. E mentre stanno raccontando ciò che hanno visto, di nuovo vedono uscire dal sepolcro tre uomini: due sostenevano l’altro, e una croce li seguiva. La testa dei due giungeva fino al cielo, mentre quella di colui che era condotto per mano da loro oltrepassava i cieli. E udirono una voce dai cieli che diceva: “L’hai annunziato ai dormienti?”. E si udì rispondere dalla croce: “Sì!”. Essi pertanto si consigliavano tra di loro se andare a riferire queste cose a Pilato. E mentre stavano ancora discutendo, si vedono di nuovo i cieli spalancarsi e un uomo discendere ed entrare nel sepolcro. Vedendo ciò, coloro che erano presso il centurione accorsero, la notte stessa, da Pilato, abbandonando il sepolcro a cui stavano facendo la guardia, e raccontarono tutte le cose che avevano visto, grandemente agitati, e dicendo: “Veramente era il figlio di Dio!”(35-45)

Una voce, i cieli che si squarciano e alcuni uomini in grande splendore che scendono dal cielo per penetrare nella tomba. E questi angeli sono tanto alti che la loro testa tocca il cielo– segno sì di appartenenza a quel mondo, ma pure frutto di un gusto retorico che amplifica per segnare la distanza tra gli uomini della terra e gli uomini del cielo.

I racconti evangelici sono invece molto sobri quanto a “effetti speciali” e la resurrezione resta fuori campo. Quando le donne si recano al sepolcro, l’evento si è già consumato e quello che vedono è una tomba vuota. Negli incontri con il Risorto però alcuni dettagli si sono maggiormente prestati all’immaginazione, specie la sua non riconoscibilità o la fisicità nella richiesta di mangiare. È così il momento del riconoscimento quello che più di altri apre lo spazio della riscrittura – su tutti il gesto dello spezzare il pane e il pronunciare le parole di benedizione nella locanda, in cui i due di Emmaus siedono a tavola con il pellegrino incontrato lungo la strada.

“I due chiedono allo straniero di restare a mangiare con loro: è tardi, si è fatta sera, resta con noi. L’uomo accetta, si siede a tavola, pronuncia una benedizione e fa un gesto. Un gesto semplice, un gesto da niente, se fatto da un uomo qualunque. Spezza il pane. Scrive Luca: ’Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero’. Qui non è la voce, ma un gesto umile e quotidiano a innescare il riconoscimento. Ricordano. Pensano: non può che essere lui. Non fanno in tempo a dire una sola parola che lui si dissolve. Scompare. Di nuovo: devono fidarsi, fidarsi di un ricordo.” (Paolo di Paolo, Perché non sono ancora, pag. 53-54)

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1599-1601
Caravaggio, Cena in Emmaus, 1599-1601

Quel gesto riattiva il ricordo e dopo di quel ricordo dovranno continuare a fidarsi. Non il volto, non le parole, ma un gesto particolare e a suo modo unico, sebbene tipico della tradizione ebraica. L’unicità nella ripetizione.

“I viandanti ascoltano l’uomo che si è aggiunto a loro e che non riconoscono. Cosa glielo impedisce? Il diverso aspetto. Quando a qualcuno viene il pensiero randagio di una propria resurrezione, immagina di ritornare identico a riabbracciare i rimasti in vita. Si figura di rientrare nel mondo tale e quale a prima, reintegrato in se stesso. Gesù riappare in altro corpo e in altra voce da non poterlo riconoscere, abbracciare al volo. I due di Emmaus si accorgeranno di lui solo nel dettaglio di un gesto, l’atto di spezzare il pane e farne parti. Doveva essere speciale quel suo modo di trattare il cibo. Del resto fu il solo a dire che quel pane era carne sua, da dare in pasto ai suoi. Ma fino a quel punto di rivelazione Gesù resta sconosciuto ai due viandanti. Eppure ha fatto con loro la cosa consueta e preferita: andare a piedi e spiegare la scrittura sacra” (Erri De Luca, La faccia delle nuvole, Feltrinelli, p. 73)

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Rembrandt, La cena in Emmaus ,1628

Va molto più in là, quanto a immaginazione, il racconto di Emmanuel Carrèrein cui il narratore identifica il discepolo senza nome che accompagna Cleopa in Filippo e amplia il tempo del riconoscimento affinché non si risolva nella brusca scomparsa di Gesù, per soffermarsiinfine sullostato di stupore dei due:

“Filippo non ricorda più se tutti e tre sono rimasti lì, così, un minuto o un’ora. Non ricorda neanche se hanno mangiato. Ricorda che nessuno ha detto una parola, che Cleopa e lui non hanno fatto altro che guardare lo straniero alla luce della candela che era stata accesa perché non si vedeva quasi più niente. Alla fine lo straniero si è alzato, li ha ringraziati e se n’è andato, e Filippo e Cleopa sono rimasti immobili ancora per un pezzo. Si sentivano bene, non si erano mai sentiti così bene. Soltanto dopo hanno parlato, per tutta la notte.” (Il Regno, Adelphi, pag. 235-6)

È dal ricordo di Filippo che sgorga il racconto. E il ricordo ha in sé il potere di far risorgere a vita nuova. Si racconta e riracconta per non perdere la memoria, per mantenere vivo in noi l’assente.

Smarrire la propria storia è, secondo T.S. Eliot essere condannati a una situazione irredenta: “Un popolo senza storia / Non è redento dal tempo, poiché la storia è una trama / Di momenti senza tempo” (T.S. Eliot, Quattro quartetti, Little Gidding). La resurrezione tesse una trama nuova nella storia. A noi la ricerca, seppur ai limiti del dicibile, di una via per rinarrarla.

MatthiasGrunewald, Altare di Isenheim, Resurrezione (1512-16)
MatthiasGrunewald, Altare di Isenheim, Resurrezione (1512-16)

 

  • In copertina: Piero della Francesca, Resurrezione (1450-63)

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