Il giorno della fine del mondo
Scritto da MARIA NISII.
“Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
giovani passeri si appoggiano alle grondaie
e il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.”
Czeslaw Milosz (1911-2004, Nobel per la letteratura nel 1980) ha testimoniato il Novecento con la sua arte poetica, dalla prospettiva di un polacco emigrato prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Essere poeta, sostiene durante le lezioni che è chiamato a tenere ad Harvard dopo il conferimento del Nobel, significa “allenarsi a ogni sorta di pessimismo, sarcasmo, amarezza, dubbio”. Ma in Polonia, dopo la seconda guerra, la poesia doveva saper essere anche ironica e sarcastica, proprio in quanto “poesia di rivolta, e perciò stesso viva”[1].
Canzone della fine del mondo è stata scritta nel 1943 in una Varsavia occupata dai nazisti, ma qui appunto il giorno del giudizio è più ironico che apocalittico, quotidiano e abituale più che straordinario e spettacolare. La natura è indifferente e continua il suo corso come se nulla fosse; neppure il serpente inquieta più del dovuto. L’apocalisse è arrivata con tutto il suo carico di devastazioni eppure nulla sembra cambiato.
Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
l‘ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
i fruttivendoli gridano in strada
e la barca dalla vela gialla si accosta all’isola,
il suono del violino si prolunga nell’aria
e disserra la notte stellata. E chi si aspettava folgori e lampi,
rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
non crede che già stia avvenendo.
Finchè il sole e la luna sono su in alto,
finchè il calabrone visita la rosa,
finchè nascono rosei bambini,
nessuno crede che già stia avvenendo.
E non è solo la natura a non accorgersi della fine. Allo stesso modo la gente continua la propria vita, come inconsapevole della tragedia che si sta consumando sotto i propri occhi. L’Apocalisse è richiamata come un ricordo infranto – chi si aspettava segni e trombe di arcangeli -, ancora presente in quanto la nostra civiltà “è stata plasmata dalla Bibbia ed è, perciò, escatologica nella sua stessa essenza”. Escatologica, ovvero rivolta con lo sguardo alla fine. La fine dei tempi. Una fine che realizza il tempo, che compie e dà senso al tutto.
Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
ma profeta non è, perché ha altro da fare,
dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.
Anche il profeta non si lascia più distogliere dal lavoro, come un tempo aveva fatto Amos. Eppure ha ancora voce sufficiente per annunciare che quella è l’unica fine che tutti loro devono attendersi. Qui e ora. Escatologia immanente, di questo mondo. Nessuna Gerusalemme celeste in vista.
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[1] Tutte le citazioni sono tratte da “La testimonianza della poesia” di Czeslaw Milosz, Adelphi, Milano, 2013