Segni e prodigi
Scritto da MARIA NISII
“Il bambino non ha che un giorno, eppure noi abbiamo visto la luce del nostro Dio nei suoi occhi e il sorriso del nostro Dio sulla sua bocca. Proteggetelo, vi preghiamo, affinché lui possa proteggere voi tutti”. E dopo queste parole, montarono sui cammelli e scomparvero alla nostra vista. (Kahlil Gibran, Gesù figlio dell’uomo, “Anna, madre di Maria”)
La letteratura ha raccontato in molti modi la vita di Gesù, spesso delineandone il solo lato umano. Eppure quasi sempre nella narrazione della nascita ha preservato un che di prodigioso, mostrando segni che fanno presagire la diversità di quel bambino sugli altri. Se infatti il Dio cristiano si è incarnato, scegliendo di condividere la sorte degli uomini, i due vangeli dell’infanzia (Matteo e Luca) si preoccupano di tracciare in vario modo quella distinzione: seppur nato da donna, la sua generazione non ha seguito la via naturale (per quanto la teologia parli di paternità divina da intendere in senso ontologico e non biologico (1)), la famiglia poi riceve la visita di pastori e savi d’Oriente che, guidati da angeli e stelle, si prostrano ad adorare il neonato.
Leggiamo allora nella versione di Gibran come Anna, madre di Maria, ricordando quei primi giorni, non manchi di notare “il timore e la riverenza” con cui si muovono quegli uomini venuti da Oriente dopo aver visto il bambino e aver riconosciuto in lui la luce del “loro Dio” (cfr citazione iniziale). Qui i magi sono Persiani e pronunciano parole che la donna non può comprendere, come non comprende la meraviglia della figlia (Maria mostrava più meraviglia e stupore che gioia) e il segreto che sembra serbare (Forse lei sa qualcosa che io non so. Vorrei che potesse dirlo anche a me). Lo sguardo della nonna è un punto di vista davvero inedito, persino nelle riscritture, eppure molto efficace a mostrare qualcosa di quella vita infantile segnata sin dall’esordio dai caratteri dell’eccezionale. Quel bambino era infatti come gli altri, ma insieme era anche diverso: prendeva del cibo da casa per darlo ai viandanti e donava persino i suoi dolci agli altri bambini; quando poi lei lo portava a letto, diceva che il suo spirito avrebbe vegliato su tutti loro.
Si tratta di ampliamenti narrativi a loro modo affini negli intenti ai primi apocrifi, che quella differenza evangelica hanno variamente esasperato, rivelando nel confronto la sobrietà dei testi originari. Pur con diverse sottolineature e coloriture, rinveniamo analoga accentuazione nel romanzo del greco Nikos Kazantzakis:
Nel suo spirito si mescolavano i segni e i prodigi che circondavano il giovane fin dal giorno della nascita e anche da prima… Il bastone di Giuseppe che, unico fra tutti i bastoni dei futuri sposi, era fiorito; il rabbino, che gli aveva dato la bella fra le belle, Maria, consacrata a Dio. Più tardi il fulmine caduto il giorno del matrimonio, che aveva paralizzato lo sposo prima che potesse toccare la sua donna. E più tardi ancora, si disse che la sposa aveva annusato un giglio bianco e che il suo ventre aveva concepito un figlio… E il sogno che lei aveva avuto, pare, la notte in cui partorì: aveva visto il cielo che si apriva e gli angeli che scendevano e si mettevano in fila proprio come gli uccellini sul bordo del tetto della sua umile casa (Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione, p. 18)
Nelle prime pagine dell’ampio romanzo, ridotto in versione cinematografica da Martin Scorsese, quegli eventi meravigliosi della nascita, che lasciavano presagire un destino straordinario, collidono con l’uomo incomprensibile che l’adulto Gesù è diventato per la sua gente, che non ne conosce il travaglio interiore (che qui si immagina abbia preceduto l’accettazione della missione). Non si trova in una posizione migliore neppure la madre, che assiste impotente ai tormenti del figlio, angustiata dalla malasorte abbattutasi su Giuseppe e quindi su tutta la famiglia. Nello sconforto ritorna col pensiero a quei primi giorni, in cui era comparsa una strana stella e degli uomini stranieri:
vide che la stella si era fermata proprio sulla sua testa e che all’inizio della strada erano apparsi tre cavalieri cinti da corone d’oro. Quando vide la stella fermarsi, diedero di sperone ai cavalli e balzarono in avanti. Maria, ora, distingueva benissimo i loro visi; quello al centro era un adolescente imberbe, dal colorito roseo e capelli biondi; alla sua destra c’era un uomo giallo, con la barba nera a punta e gli occhi a mandorla; alla sua sinistra un negro dai capelli bianchi e ricciuti, anelli di bronzo alle orecchie e denti splendenti. Prima che Maria avesse il tempo di osservarli a suo agio e di coprire gli occhi del figlio perché non fossero abbagliati dalla luce accecante, i tre cavalieri erano già lì, inginocchiati davanti a lei. Il piccolo aveva lasciato il seno e se ne stava ritto sulle ginocchia della madre (p. 26).
Dall’esuberanza ortodossa, al minimalismo protestante dello svedese GöranTunström, cambia il tono ma non la sostanza:
Quando sei nato… È venuto un angelo. È venuto da me una mattina presto, un giorno in cui avevo soltanto voglia di morire. Sì, tu lo sai. È venuto da me e mi ha detto che dovevo… rallegrarmi. È stato come se entrasse dentro il mio pianto. Rallegrati, mi ha detto. Poi sei nato tu. Ma era come se io non significassi nulla. Fu tutto così strano. Arrivarono degli uomini da lontano per farti visita. Quando avrei avuto soprattutto bisogno di starmene tranquilla con te. Non avevo neanche il tempo di darti da mangiare in santa pace. Avevo la sensazione di essere di impiccio. Che non appartenessi a me. Che tu appartenessi… al mondo. Dicevano che eri speciale (Lettera dal deserto, p. 217).
In questo romanzo Maria è ritratta come una sempliciotta, seria e mesta. Indubbiamente lontana dall’immagine prodotta dalla devozione cattolica, così ridotta diventa una figura minore ai limiti dell’insignificanza. Timorosa e impacciata con il figlio, solo cogli anni si apre a lui, rivelandogli il racconto della sua nascita diversa che ancora la turba, assieme all’incomprensione presente per un figlio allontanatosi dalla famiglia e per lei ormai irrecuperabile. In questo testo, che racconta soprattutto gli anni giovanili e ignoti della vita di Gesù, il protagonista è presentato con tratti affini alla sensibilità contemporanea: amante della natura e di tutti gli esseri viventi, vicino agli uomini e in specie gli emarginati, in comunione con il divino che appare come un’energia interiore che anima la vita sulla terra. Eppure anche questa versione “addomesticata” sente il bisogno di ricorrere a quella cornice di facile riconoscibilità, che meglio di altre rappresentazioni è capace di segnarne il discrimine.
Il Natale sembra non poter fare a meno di segni e prodigi, neppure in epoca di secolarizzazione. Perso quel senso del religioso forte, resta il bisogno di una tradizione a tratti quasi sfocata, sempre meno nota, ancor meno vissuta. I prodigi, non più creduti nel loro senso teofanico, diventano i simboli della “magia del Natale” – alla stregua della neve, delle luminarie, dell’attesa del babbo panciuto. E se restituissimo alle immagini la loro profondità teologica, essenza pura da contemplare, ai limiti del dicibile? Forse è proprio quello a cui ci chiama, in fondo, questo Natale diverso in tempo di covid, da vivere nella semplicità delle nostre case e in una ritrovata sobrietà liturgica.
Chi lo desidera può lasciarsi guidare in questo percorso da Kurt Marti, pastore svizzero e poeta:
” allora
quando dio
nel grido del parto
distrusse le immagini di dio
e
tra le cosce di maria
grinzoso e paonazzo
il bimbo giacque “
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