Le tentazioni di satana al cinema
Scritto da MARIA NISII.
Se Rosalinda Celentano nei panni di satana nel discusso film di Mel Gibson, La passione di Cristo, appare nei momenti cruciali a segnalare come la tentazione accompagni tutta la passione, non si tratta dei soli eccessi del cinema di Hollywood di cui questa pellicola è mostruoso esemplare. Già l’esegesi tende infatti a leggere l’episodio delle tentazioni nel deserto come anticipazione di quanto Gesù vivrà in tutta la sua vita terrena. Più che un evento isolato nel tempo si tratterebbe piuttosto di un incessante combattimento, tipico della condizione umana, che lo avrebbe accompagnato fino al Getsemani (allontana da me questo calice, Mc 14,36) e ancora sul Golgota (se sei davvero figlio di Dio, scendi dalla croce…, Mt 27,40). In tale prospettiva stupisce meno la presenza di questo satana dai tratti androgini sin dalle prime scene della pellicola ambientate nel Getsemani. “Come può qualcuno sopportare i peccati del mondo intero?” sono le parole insinuanti del maligno, avvolto nella stessa luce blu che accompagna i tormenti di Cristo, tingendo così il sudore di sangue (Lc 22,44) di una tonalità che esprime isolamento, solitudine, tristezza.
A un tratto da una narice del tentatore si vede muovere la coda di un vermiciattolo, che prende poi forma di serpe per avvicinarsi al Cristo, il quale, un momento prima di sentir sopraggiungere la scorta armata che arriverà ad arrestarlo, lo schiaccia con un sol colpo del calcagno, assumendo così il pieno dominio di sé.
Non pago di questi iniziali effetti da cinema horror, durante l’estenuante flagellazione (10 minuti in cui Gesù è frustato prima con le verghe e poi con i flagelli, davanti e dietro – come più tardi croce e crocifisso saranno voltati sottosopra e i chiodi ribattuti perché la carne possa essere martoriata in ogni dove e il corpo diventare poltiglia), si usa il fermo immagine per rivelare la presenza di satana, unica figura in movimento, che ora tiene in braccio un bambino mostruoso, parodia insieme della pietà e della natività.
Altri bambini diabolici hanno tentato e perseguitato Giuda quando, pentito,è tornato dai sacerdoti a restituire il denaro e poi si è nascosto dietro la casa di Caifa (secondo il racconto della mistica Caterina), da dove viene spinto verso un colle isolato e,reso folle, si è impiccato.
Satana torna ancora nella via Crucis, come a rivaleggiare con gli sguardi della madre. Ma infine, deformato dalla rabbia, non gli resta che gridare il suo disappunto dal profondo degli inferi quando, con la morte, Cristo ha portato a termine il sacrificio di sé.
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Altri film tendono a riprodurre l’episodio delle tentazioni nella nota tripartizione, seppur con una rielaborazione di contenuto e forma. È così che L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese le esemplifica nell’apparizione di tre immagini (serpente, leone, fuoco) rappresentanti lussuria, potere, idolatria. Ma qui l’immaginario colorito non è del regista, che lo assume quasi tal quale dal romanzo di Nikos Kazantzakis.
Il serpente: “Il suo corpo è bello, dolce, abile. Tutte le nazioni sono passate su di esso, ma è a te che Dio l’ha destinato, già fin dalla tua infanzia, prendilo! Dio ha fatto l’uomo e la donna perché si adattino l’uno all’altra come la chiave alla serratura. Aprila. In essa vi sono i tuoi figli, intorpiditi, raggomitolati e aspettano che tu soffi su di essi per scongelarsi, alzarsi e uscire, camminare al sole…” (p. 250-1).
Il leone: “non osi guardare dentro di te, nelle tue viscere e nel tuo cuore per vedermi… Perché mi guardi con occhio dubbioso, perché il tuo cuore pensa subito al male? Credi che io sia una tentazione mandata dal Maligno per perderti? Eremita scervellato, che forza può avere una tentazione proveniente dall’esterno? La fortezza non può essere conquistata che dall’interno. Sono la voce che viene dal più profondo del tuo animo, sono il leone che è in te …” (p. 254).
Il fuoco: “che tu lo voglia o no, mi ascolterai perché è giunta l’ora. Prima che tu nascessi, ho scelto te fra tutti gli uomini. Agisco e splendo in te, non permetto che ti abbandoni alle piccole virtù, alle piccole gioie, alla felicità terrena. E ora, in questo deserto in cui ti ho portato, è venuta la donna e l’ho cacciata; sono venuti i regni della terra e li ho cacciati. Sono io che li ho cacciati, io, non tu. Riservo per te un destino ben più grande, ben più difficile” (p. 257).
Dopo aver rifiutato ognuna delle tentazioni, il Gesù di Scorsese, che assume i connotati di un tormentato Willem Dafoe, morde una mela, colta dall’albero che gli si è improvvisamente materializzato di fronte, lì in mezzo al deserto. Ma il frutto, appena addentato, spruzza un succo sanguigno che gli imbratta il viso. Si tratta di un’invenzione del regista, a cui l’immaginario eccentrico di Kazantzakis non deve essere parso sufficiente. La traduzione in immagini – si sa – può richiedere più di un intervento e qui il lancio della mela insanguinata che Gesù-Dafoe rivolge a satana evidentemente (!) meglio risponde alle parole che il tentatore pronuncia prima di andare: “A presto, un giorno ci incontreremo di nuovo: a presto!” (p. 258).
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Una via ancora diversa è stata adottata da Alessandro D’Alatri ne I giardini dell’Eden, un film che racconta gli anni della vita nascosta di Gesù – che in questa versione acquista le sembianze del nostrano Kim Rossi Stuart – dal suo bar mitzvah agli inizi del ministero pubblico. E se gli sceneggiatori volevano indagare la coscienza dell’uomo Gesù costruendo un interessante (ma non aproblematico) romanzo di formazione attento alla ricostruzione storica, l’episodio nel deserto assume funzione emblematica del percorso tracciato. Al cugino Giovanni-Johannan infatti rivela: “io sento che il Signore mi sta indicando qualcosa, ma non ho ancora capito. Sto inseguendo un dubbio e non riesco a raggiungerlo”. “Fa’ che sia lui a seguirti: portalo con te nel deserto, là non potrà più nascondersi” gli risponde l’altro.
Nella scena successiva Gesù-Jeousha è già nel deserto ( https://www.youtube.com/watch?v=7FFSzCbu73w ) dove come prima cosa avvista un serpente (e dagli!), che egli facilmente aggira con una vaga inquietudine dipinta sul volto. Ma non è in quelle vesti che gli giunge il tentatore, ritratto nella forma di un vecchio avvizzito, avvolto da una stregonesca veste nera. Prima di questa scena aveva già fatto sentire la sua presenza, con lo stesso richiamo vocale, una sorta di grido lamentoso che aveva spinto Jeousha in un villaggio di lebbrosi. Ora, nel deserto, gli si avvicina lentamente con la voce stridula e l’incedere dinoccolato. È notte, Jeousha è seduto accanto a un fuoco, satana gli si siede di fronte: i due si fissano a lungo, duellando con lo sguardo. Ma alla logorrosi insensata e beffarda (possibile interpretazione dell’infernale “stridore di denti”) di questo diavolo sdentato, vegliardo ridicolo, corrisponde il silenzio composto di Jeousha.
Il vecchio si alza e inizia a danzargli intorno, ma il giovane ha chiuso gli occhi e il suo viso appare disteso, inaspettatamente sereno, come mostra la ripresa in primissimo piano e poi nel dettaglio degli occhi che si riaprono con una nuova incipiente coscienza. A questo punto la telecamera si allontana per inquadrare in campo totale: ora un cerchio di fuoco circonda i due, come creato dal movimento circolare di un satana che si agita e grida.
Jeousha sorride, ma un istante dopo, all’improvviso, assesta un colpo al vecchio atterrandolo. I due lottano, rotolandosi nella sabbia al suono di una musica tribale, fino al graduale allontanarsi della macchina che inquadra in primo piano il fuoco per garantire il cambio di scena, in cui la musica cessa, lasciando gradualmente il posto al dolce suono di una nenia. Quando l’occhio della camera si riavvicina, appare l’immagine insolita di un satana ammansito e dormiente tra le braccia dell’uomo che, ancora seduto, si dondola per trasmettere il movimento del suo corpo all’essere domato che gli dorme in grembo. Lentezza e tranquillità del dondolio sono il segno di questa nuova consapevolezza, che ha richiesto il passaggio nel deserto, là dove la domanda che Jeousha aveva dentro è uscita allo scoperto. Una domanda, vecchia come il mondo si direbbe, che egli ha prima combattuto con la forza del lottatore e poi definitivamente domato con dolcezza materna. Un’apoteosi di simboli di marca italiana, meno raccapricciante di quella hollywoodiana ma non meno fiabesca, esuberante, barocca.
Che il romanzo di formazione sia giunto a termine lo scopriamo nel repentino cambio scena, che al successivo stacco inquadra due dita sporche di fango strofinare gli occhi di un cieco: Jeousha, che ora sa, aiuta anche gli altri a vedere. La missione può iniziare.