Dal “Re del Mondo” alla cura di un ”essere speciale”
Scritto da DARIO COPPOLA.
René Guénon autore dell’opera Il Re del Mondo (1927) si ispirò a Ferdinand Ossendowski, autore di Bestie, uomini e dèi (1924). Questi due testi stanno alla base dell’interesse di Battiato per i misteri dell’Asia centrale. Ossendowski fu il primo a parlare di un Re di un mondo situato sotto terra e che si innerva nel nostro mondo.
Guénon vi si ispirò per rinvenirvi ancestrali miti e riti tibetani ed ebraici. L’Agarttha, ad esempio, è la terra ‘inviolabile’; i riferimenti all’importanza fondamentale, nell’ebraismo, del concetto di terra e alla figura di Melchisedek, re di Salem (Gerusalemme), sono evidenti. MeLeK in ebraico significa re, e TZaDoQ significa giustizia. Il nome Melchisedek ha la sua origine da MaLKi-TZeDeQ = il mio re è giusto: si tratta del nome del re ideale, composto da MeLeK e TzaDoQ. Proprio di questo re si parla nell’Antico Testamento: in Gen 14, 18-20, Abramo incontra Melchisedek; egli viene poi citato nel Salmo 110 (nella numerazione ebraica; in quella greca è il Salmo 109): «Il Signore ha giurato e non si pentirà: ‘Tu sei Sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedek’». Nel Nuovo Testamento, questo re viene anche citato nella Lettera agli Ebrei: in Eb 5, 6-10 si dice: «Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek»; e in Eb 6,19-7,28: «Questo Melchìsedek infatti, re di Salem, sacerdote del Dio Altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dalla sconfitta dei re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa; anzitutto il suo nome tradotto significa re di giustizia; è inoltre anche re di Salem, cioè re di pace. Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno». Questo re del mondo porta il dono della pace, della giustizia, della salus (salute/salvezza), della cura del popolo.
Nei testi di Battiato si avverte – dunque – il bisogno di un re del mondo, di un protettore, di un redentore, di un essere speciale… che abbia cura dell’uomo, ma anche si vede l’identificazione del poeta stesso con il ruolo del guaritore, del salvatore. In uno dei suoi testi più conosciuti (La cura, 1997), scritto in collaborazione col filosofo Manlio Sgalambro, il cantautore siciliano esprime l’opera salutare, se non salvifica, di questo essere speciale che potrebbe essere l’altro, il tu, ma anche l’io stesso. In questa sorta di alter ego, ecco delinearsi il bisogno di amare e di essere amati.
“Ti proteggerò/dalle paure delle ipocondrie/ Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via/ Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo/Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai/ Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore/ Dalle ossessioni delle tue manie/ Supererò le correnti gravitazionali/ Lo spazio e la luce per non farti invecchiare/ E guarirai da tutte le malattie/ Perché sei un essere speciale/ Ed io, avrò cura di te/ Vagavo per i campi del Tennessee/ Come vi ero arrivato, chissà/ Non hai fiori bianchi per me?/ Più veloci di aquile i miei sogni/ Attraversano il mare/ Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza/Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza/ I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi/ La bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi/ Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto/ Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono/ Supererò le correnti gravitazionali/ Lo spazio e la luce per non farti invecchiare/ Ti salverò da ogni malinconia/ Perché sei un essere speciale/ Ed io avrò cura di te/ Io sì, che avrò cura di te”
(testo integrale de La cura).
https://www.youtube.com/watch?v=zXWqcZyzTvk
Un primo riferimento alla Cura, mostruosa personificazione delle preoccupazioni, si trova nel canto sesto dell’Eneide di Virgilio: «Proprio sull’entrata dell’Orco/ hanno il loro giaciglio/ il Lutto e la Cura vendicatrice […]»[1]. Nella versione del capolavoro virgiliano di Cesare Vivaldi, presentato da Giuseppe Ungaretti, il nome di Cura è tradotto con «i Rimorsi»[2]. Nel I sec. a. C., con lo spagnolo Gaio Giulio Igino[3] che scrive, in latino, le Fabulæ abbiamo una svolta semantica, in virtù della quale il nome Cura non è più riferito a qualcosa di negativo, come gli affanni, le preoccupazioni e i rimorsi, ma assume il significato destinato poi ad affermarsi fino a oggi. Le Hygini Fabulæ sono 277 racconti mitologici sulle origini del cosmo e proprio qui, nel Mito 220, troviamo il mito di Cura:
La “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese imporre il suo nome a ciò che essa aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: «Tu Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra).[4]
Massaro[5], parlando di questo testo, fa notare il collegamento con Gn 2, 7: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente»[6].
Un ultimo concetto caro a Battiato, nel mistico e solitario pellegrinaggio della sua esistenza, è stato quello dell’Ananda (beatitudine) di matrice induista. Su questo tema, il musicista lavorò con Giusto Pio.
Nel giorno del suo funerale (cattolico) è stato proclamato in chiesa il brano evangelico delle Beatitudini di Matteo (Mt 5, 1-12), poiché Battiato, a detta del canonico di Linguaglossa che ne ha celebrato le esequie, amava tanto questa iconica pagina, manifesto del Regno dei cieli. Inoltre, il canonico ha soggiunto che il musicista, ogni mattina, amava pregare con l’invocazione di Charles de Foucauld: Padre mio, io mi abbandono a te. Già nel primo suo film, Perdutoamor (2003), Franco Battiato aveva omaggiato il testo di Matteo e citato, per intero, il tema del più celebre corale (Erkenne mich, mein Hüter) tratto appunto dalla Passione secondo s. Matteo scritta da Bach.
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Note:
[1] Massaro R., L’etica della cura. Un terreno comune per un’etica pubblica condivisa, Editiones Academiæ Alfonsianæ – Lateran University Press, Città del Vaticano 2016, 96.
[2] Publio Virgilio Marone, Eneide, Editore Edisco, Torino 1970, 201.
[3] Cfr. Hyginus, Fabularum Liber, Garland, NewYork- London, 1976: ristampa dell’antica edizione della collezione delle opere di Igino C. Iulius Hyginii Augusti Liberti Fabularum Liber (1535), compilata da Jacobus Mycillus (Jacob Moeltzer) edito da Ioan. Hervagium a Basilea. Di Igino non si sa quasi nulla e con molta probabilità non è «Caius Iulius, liberto di Augusto» a cui Moeltzer attribuisce la collezione: cfr. Rose H. J., A Handbook of Latin Literature. From the Earliest Times to the Death of St. Augustine, Dutton, New York 1960, 445-446.
[4] Heidegger M., Sein und Zeit, M. Niemeyer, Halle 1927; trad. it. Essere e tempo, Longanesi&C., Milano 111995, 247: è la traduzione italiana di Pietro Chiodi del racconto mitologico 220 delle Fabulæ di Igino, che Heidegger riporta prima in lingua originale.
[5] Massaro R., L’etica della cura…, 94.
[6] Conferenza Episcopale Italiana, La Bibbia. Via Verità e Vita, Edizioni San Paolo s. r. l., Roma 2009.