Dopo la fine : “Tu, che sei parte di me”

30 Ottobre 2021Lorenzo Cuffini

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

 

Riscrittura inconsapevole (*) novembrina.

Venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate”. (Gv 19, 33-35)

Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”.  Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa“. (Gv 19:26-27)

 

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(Giovanni,  dopo la deposizione di  Gesù nel sepolcro) :

Finito.Tutto.

C’è un silenzio che non pensavo potesse più esistere. Un buio di notte che spaventa, tanto è normale: adesso che la normalità se ne è andata per sempre dal mio orizzonte.

Ti abbiamo portato nel sepolcro poche ore fa. Tu: la Vita. Tu, che Lazzaro, da un sepolcro come quello, l’hai tirato fuori che già mandava odore forte. Mentre  rotolavano a chiuderti quella pietra immensa, sai che mi ripetevo in testa? Le tue parole di quel giorno: vieni fuori, vieni fuori, vieni fuori. Ma fuori non sei venuto, la pietra è andata al suo posto, il sabato solenne è iniziato e tu sei morto e sepolto.

La testa, già. E’ piena di orrori, e il cuore freddo e vuoto. Perché io ho visto. Io c’ero. Io ci sono stato. Io ho visto e ho tutto inciso nei miei occhi e nel mio spirito: sono pronto a darne testimonianza, e la mia testimonianza è vera. E per quanto sia spaventosa, io so che dico il vero. Ma tra tutte le immagini  delle ore che sono appena trascorse, in questa  Parasceve, una mi resta piantata sopra tutte: le tue braccia nude, lunghe, aperte, anzi  spalancate all’aria, tirate fino allo spasmo e inchiodate su quel legno, a dominare dall’alto  tutto, come larghe  ali insanguinate,  aperte senza volo, sopra di noi, sopra i soldati, sopra i curiosi, sopra la roccia, sullo sfondo di un cielo nero e tempestoso.

Quelle tue braccia spalancate. Rabbi: che cosa ti hanno fatto?

Sono stato a guardarti,  e guardarti, per ore, senza perdere un istante di quei momenti infiniti, ogni respiro tirato via da te con i denti, ogni centimetro del tuo volto sconvolto dal dolore e dagli spasmi. Quando sei finito, quando tutto si è compiuto, quando ti hanno macchinosamente  smontato da quel patibolo maledetto e riconsegnato a noi e all’abbraccio senza fine di tua Madre, ero finalmente sollevato – sì, sollevato! – nell’intravvedere il tuo volto tornato calmo e disteso, pur tra il sangue e i lividi e i linenamenti alterati dalle botte. E, non so come,  tra tutto quello strazio e  quello schifo, improvvisamente ti ho pensato e ricordato felice, potente , in mezzo al vento, come quando comandasti alla tempesta di sedarsi, e gli elementi si placarono all’istante.

Ma ho subito ricacciato via quello come gli altri ricordi: troppo forti, troppo stridenti con la realtà di ora, troppo dolorosi. Adesso risultano una cornice delle cose come sono, quelle che io ho visto, con i miei occhi: perché io c’ero, e io ho guardato tutto. Quella cornice –  vuoi saperlo? – mi sembra che non abbia più senso, né valore, come una roba da gettare via.

Quello che è stato, è stato. Ora che succede? Che succederà? Bisogna dare spazio alle cose a venire. Solo che, per la prima volta dopo tre anni, io quelle cose non le so più, non le so assolutamente, non posso nemmeno immaginarle. Non so nemmeno pensare a  quello che succederà domattina, figurarsi “il futuro”… C’è solo una notte da passare, da qui all’alba. Ma è una notte intera, una notte lunghissima, solitaria, buia, vuota, fredda, senza senso. Ho paura di perdermi, questo solo riesco ad afferrare.

Le tue braccia, spalancate all’aria, in alto sopra di me. Tu, che sei parte di me, resti dentro di me anche adesso che non ci sei più. Anche adesso che tutto è finito, sei tu e tu solo che puoi rompere le tenebre di questa notte e della mia anima e accendere qualche piccola luce in questa mia valle completamente oscura.Tu che mi hai chiamato, hai detto il mio nome  dal mezzo delle tue braccia spalancate: Giovanni! Una piccola traccia, l‘ultima  e sola luce che adesso mi resta, l’ultima insegna accesa prima del nulla senza orizzonte. Tu che sei parte di me, mi hai dato un compito, una missione, per riportarmi a casa.

Ecco: è  tua madre.

A me? Io? E come? In che modo poter essere figlio di chi ti ha generato, di chi ti ha cresciuto, di chi ti ha seguito, di chi ti ha perduto,  di chi ha dovuto vederti  spezzato e ucciso, di chi ha avuto veramente il cuore trafitto dalla spada che le era stata profetizzata tanti anni prima?

Io adesso non sono che vuoto e paura: ogni rumore e ogni silenzio, ogni oscurità e ogni guizzo di fiamma sulla parete di questa notte non sono che una nuova, fortissima, intollerabile paura, che mi secca la gola e mi mette i brividi addosso. Ogni nuova paura alza il fumo negli occhi già ottenebrati, offusca il ragionamento, impedisce l’immaginazione. Le parole non mi vengono, e se vengono cominciano male e non finiscono. Se io riuscissi a parlarti, Rabbi: se ti riuscissi a dire, a spiegare quello che vorrei chiederti. Io, figlio di tua madre. Come farlo? Come cambiare pelle in questo modo? Niente. Buio totale. Notte, dentro e fuori. Una notte intera da passare,  lì fuori. E una vita – una vita intera! – che mi aspetta: nuova, da figlio, e senza di te.

Chiudo gli occhi, e vorrei sparire, vorrei morire come te, vorrei perdermi.

Rabbi: Tu, che sei parte di me, vieni, e sciogli i nodi, le resistenze. Aprimele tu, queste mie mani chiuse. Tu che sei parte di me, scalda il mio cuore gelido, sveglia  di nuovo la mia mente, portami un sogno e fammi la sorpresa di sorprendermi. Tu che sei parte di me: la sola che conta, la sola che voglio, la sola che è viva.

Tu hai scelto, tu hai voluto. Io figlio di tua madre. Lei, madre mia. E ora siamo qui. Soli, noi due. Soli per una notte intera, soli per una vita intera. La guardo, davanti a me, nella penombra: appoggiata al muro, gli occhi chiusi a rivivere ogni cosa, a meditare tutto nel suo cuore. Lei che può dirlo e viverlo davvero,  da sempre e per sempre, e ripeterselo con te davanti agli occhi: Tu, che sei parte di me. E se lo sarà detto, mentre ti prendeva in braccio poche ore fa, nel gesto senza tempo di chi culla, e accoglie e solleva e porta al collo: Tu, che sei parte di me.

E poi, niente. Una pietosa ombra di sonno mi vela  per un attimo, e per un attimo mi anestetizza il cuore. Un’ aria di sogno fuggevole e leggera mi rinfresca, e in quell’accenno di sogno ci sei tu, c’è lei, ci siamo noi. Un tentativo di sorriso mi viene in faccia, ma nel breve sonno è un sorriso vero, caldo, mio e tuo. Tu, che sei parte di me, riesci a farmi sorridere:  anche questa sera, anche questa notte.

Fuori, mi aspetta  una notte intera; fuori, mi aspetta una vita intera.

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Tu che sei parte di me

Canzone di Pacifico
Le tue braccia lunghe
Spalancate all’aria
Solo nel vento sei sempre felice
E butta via i ricordi,
Getta ogni cornice,
Lascia spazio alle cose a venire
Fuori… c’è una notte intera
Puoi perderti
Tu che sei parte di me
E lasci fuochi, piccole tracce
Per riportarmi a casa
Tu che sei parte di me
Ultima luce, ultima insegna accesa
E ogni nuova paura
Alza il fumo negli occhi
E le parole cominciano male
E ti riuscissi a dire,
Riuscissi a spiegare
È solo pelle che inizia a cambiare
Fuori… c’è una vita intera,
Vuoi perderti?
Tu che sei parte di me
E sciogli i nodi, le resistenze,
Le mie mani chiuse
Tu che sei parte di me
E porti sogni e mi fai sorprese
Tu che sei parte di me
Soli per la notte intera,
Soli una vita intera
Tu che sei parte di me
E lasci fuochi… piccole tracce
Per riportarmi a casa
Tu che sei parte di me
Ultima luce,
Ultima insegna accesa…
Tu che sei parte di me
E sciogli i fili, le resistenze,
Le mie mani chiuse
Tu che sei parte di me
Stai nei sogni,
E mi fai sorridere (mi fai sorridere)
Fuori una notte intera
(Fuori una vita intera)
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(*) Riscritture inconsapevoli: canzoni scritte dai loro autori  per motivi e contesti tutti diversi, eppure in grado di rappresentare, almeno a qualche orecchio, un pezzo di Scrittura, che si riscopre lì dentro, come inconsapevolmente richiamata.

 

 

 

 

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