Così stava la madre
Scritto da MARIA NISII.
Settemila chilometri…
Non puoi sentire la madre chiamare,
nel fischio tremendo del vento polare,
nella stretta delle intemperie,
inselvatichisci, inferocisci: tu, adorato,
tu, ultimo e primo, tu, nostro.
Indifferente la primavera vaga
Sulla mia tomba di leningradese.
Chi usa la parola per raccontare, talvolta paga un prezzo altissimo, nella delegittimazione, nell’isolamento e in quello che devono pagare i loro cari. La poetessa russa Anna Achmatova (1889-1966), vissuta nel periodo della rivoluzione bolscevica, è ritenuta dal regime una dissidente, ovvero uno scarto della società del passato che si intende modificare. Il suo ex marito, a sua volta poeta, viene fucilato. A differenza di altri, Achmatova, come Pasternak, sceglie però di restare nella sua terra:
una voce mi giunse. Suadente
mi chiamava, diceva:
Vieni qua,
lascia il paese sordo e peccatore,
lascia la Russia per sempre…
Io mi tappai le orecchie con le mani,
perché l’indegno discorso,
non profanasse l’anima dolente.
A quel tempo Achmatova era già una poetessa di fama, specie in Francia, e pertanto era difficile toccarla senza dare un’immagine repressiva della Russia sovietica. Per questa ragione quello che fanno è colpirla negli affetti e nel 1938 arrestano Lev, figlio del primo marito. Lei vorrebbe patteggiare la propria vita per lui, ma non le viene concesso.
In quel periodo assieme alle altre madri, Anna si sottopone ogni giorno a lunghe ed estenuanti ore di attesa, in fila nella neve, portando con sé viveri e vestiti al carcere di Leningrado. Ma quel tempo di attesa possiede una promessa, che il pacco sia accettato: un segno questo che il prigioniero è vivo. In caso contrario, purtroppo, era certamente deceduto.
«Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro me e che, sicuramente non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì parlavano sussurrando): “Ma questo lei può descriverlo?”. E io dissi: “Posso”. Allora una specie di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto».
Per le donne che stavano in fila con lei con i pacchi da consegnare, Anna scriverà in Requiem:
Per loro ho tessuto un ampio manto
Di parole povere ch’esse non ascolteranno.
Il manto di parole vorrebbe proteggerle, per quanto a quelle donne non giungeranno mai. La promessa di serbare il ricordo di quei momenti è tutto quanto premeva loro. Ed è proprio quella richiesta di scrivere a diventare l’occasione di Requiem.
Poteva Beatrice creare come Dante,
o Laura cantare il fuoco dell’amore?
Io ho insegnato alle donne a parlare…
Mio Dio, ma come obbligarle a tacere?
La parola poetica è per Anna Achmatova luogo di salvezza, di forza e possibilità di resistenza – espresso nella bella immagine dell’ampio manto, che rimanda alle Madonne delle icone sacre. E anche se non può pubblicare, i suoi versi si diffondono attraverso copie manoscritte. Lidija Cukovskaja, sua intima amica, ricorda come Anna fosse rigidamente sorvegliata dal regime attraverso cimici nascoste nel suo appartamento e nelle case dei suoi familiari. In un libro di memorie intitolato Incontri con Anna Achmatova, racconta come l’Achmatova scriveva quelle poesie, nella sua casa sulla Fontanka, uno dei canali di San Pietroburgo, poco distante dalla prospettiva Nevskij: « Anna Andreevna, quando veniva a trovarmi, mi leggeva versi di Requiem in un sussurro, ma a casa sua, alla casa sulla Fontanka, non si risolveva neppure a sussurrare; d’un tratto, nel bel mezzo del discorso, si interrompeva e, indicandomi con gli occhi il soffitto e le pareti, prendeva un pezzetto di carta e una matita; poi diceva ad alta voce qualcosa di molto frivolo: «Volete del tè?», oppure: «Come siete abbronzata!», scriveva velocemente fino a riempire il foglietto e me lo porgeva. Io leggevo i versi e, quando li avevo impressi nella memoria, glieli restituivo in silenzio. «L’autunno è venuto così presto» diceva Anna Andreevna ad alta voce e, acceso un fiammifero, bruciava il foglietto in un posacenere. Era un rito: le mani, il fiammifero, il posacenere – un rito splendido e doloroso».
Un giorno arriva la sentenza della condanna a morte del figlio di Anna che, sebbene sarà poi convertita in condanna ai lavori forzati (fino al 1943), lascia una traccia ne La sentenza, una delle liriche di Requiem.
E sul mio petto ancora vivo
Piombò la parola di pietra.
Non fa nulla, vi ero pronta,
in qualche modo ne verrò a capo.
Oggi ho da fare molte cose:
occorre sino in fonde uccidere la memoria,
occorre che l’anima impietrisca,
occorre di nuovo imparare a vivere,
se no… Oltre la finestra
l’ardente fremito dell’estate, come una festa.
Da tempo lo presentivo:
un giorno radioso e la casa deserta.
Il dolore impietrisce: come riapprendere a vivere? La festa è in attesa oltre la finestra: ma quale festa?
Una delle ragioni che la rendono indesiderata al regime è la sua religiosità. Troviamo quest’anima di Achmatova proprio in Requiem, laddove la poetessa si identifica con Maria sotto la croce, sente il suo dolore di madre simile a quello della madre di Dio:
10.La crocifissione
Non singhiozzare per Me, Madre, che giaccio nella bara.
Salutò l’ora suprema un coro d’angeli,
e i cieli si dissolsero nel fuoco.
Disse al padre: “Perché Mi hai abbandonato…?”.
E alla Madre: “Oh, non piangere per Me…”.
Identificandosi con Maria, Anna assume su di sé il dolore del suo popolo, lo canta e lo trasforma in preghiera. La sua è una religiosità popolare, non raffinata, in contrasto con le “ricerche” religiose dell’epoca.
Boris Pasternak, a sua volta perseguitato dal regime staliniano che lo costringe a non ritirare il Nobel per la letteratura, scrive una lettera all’amica Anna per starle accanto in quel suo dolore:
“Come ricordarle a sufficienza che vivere e voler vivere (non secondo precetti altrui, ma solo secondo un’intima sua aspirazione) è suo dovere di fronte ai vivi, in quanto le idee sulla vita si distruggono con facilità e di rado vengono sostenute da qualcuno, mentre lei rimane la loro principale creatrice” (1 novembre 1940).
Ma Achmatova sembra non aver bisogno di consolazione:
Lunghi anni dammi di male,
affanno, insonnia e malaria,
prendi anche il figlio e l’amico
e il segreto dono del canto – …
Perché la nube sulla Russia oscura
Diventi un nembo di raggi di gloria.
La sua poesia è preghiera e offerta sacrificale, non ripetibile da altri (prendi anche il figlio). Anna concepisce la sua vita come servizio reso al popolo. Pertanto la sua voce è personale e insieme corale, e la sua biografia universale:
Io ero allora col mio popolo,
là dove, per sventura, il mio popolo era.
E la sua vita è tale nella storia di un popolo. Una storia che in lei traspare in una prospettiva religiosa, anche se questa coscienza non elimina il dolore. Questa prospettiva però rende la storia grandiosa, una festa, persino nei momenti più tragici:
Tutto è stato rubato venduto tradito,
infuria l’ala della morte nera,
tutto è roso dall’affamata angoscia,
perché mai per noi si è fatta luce?
E così vicino passa il miracolo…
È in questo mondo che la rinascita è possibile, una rinascita che sgorga dalla stessa poesia. Perché la poesia “può” raccontare “tutto questo” – secondo la richiesta di quella donna anonima davanti alle carceri di Leningrado. E la parola che racconta si fa memoria, come la storia sacra.
Oltre al figlio, Requiem (scritto tra il 1935 e il 1940) è dedicato alle vittime del terrore degli anni 1937-38. Per oltre vent’anni, il testo non ha avuto una versione scritta, ma è stato preservato solo nella memoria della poetessa e di alcuni amici fidati. Non appena fu possibile trascriverlo, si diffonde immediatamente in tutto il Paese, diventando una delle opere poetiche più famose del sasmizdat (ovvero “edito in proprio”), l’editoria clandestina degli anni ’60, per essere pubblicato ufficialmente solo negli anni Ottanta. Natal’jaGorbanevskaja racconta così l’esperienza del samizdat: “In una stupenda giornata di dicembre del 1962 fui partecipe di un avvenimento che ritengo straordinariamente importante: mentre ero in visita da Anna Achmatova, in uno degli appartamenti di Mosca dove veniva ospitata, io, come molti altri a quei tempi, ebbi il permesso di trascrivere il suo Requiem… Per molti anni lo si poté ascoltare solo in una scelta cerchia di amici dell’autrice, che per la maggior parte imparavano i versi a memoria. Né la stessa Achmatova, né il suo numeroso pubblico affidò mai Requiem alla carta. Ma … nel 1962… l’Achmatova pensò che forse era giunto il momento …che Requiem uscisse nel samizdat. Porgendomi una penna a sfera, Anna Andreevna disse: – Prima di lei con questa matitina ha copiato Requiem Solzenicyn. Ma oltre a me e a Solzenicyn, a casa dell’Achmatova, con quella ‘matitina’, Requiem era stato copiato da decine di persone. E naturalmente tutti, o quasi tutti, tornando a casa, si erano messi alla macchina da scrivere. Io stessa l’ho ricopiato, probabilmente una ventina di volte, ogni volta in quattro copie. Diffondendo Requiem tra gli amici e i conoscenti, facevo sempre una semplice richiesta: – Ricopiatelo, e poi restituitemene una copia –. E così ricominciava il giro. In questo modo, solo dalle mie mani, uscirono e si diffusero centinaia di copie di Requiem, ma la sua tiratura complessiva nel samizdat raggiunse almeno qualche migliaia di copie”.
Si tratta di una composizione in dieci parti vicina alla struttura dello Stabat Mater, il pianto della madre di Dio presso la croce (preghiera del XIII sec. attribuita a Jacopone da Todi). Le prime sei poesie e la nona non hanno titolo, mentre la settima è intitolata La condanna, l’ottava Alla morte e la decima La crocifissione.
Ti hanno portato via all’alba,
Io ti venivo dietro, come a un funerale,
Nella stanza buia i bambini piangevano,
Sull’altarino il cero sgocciolava.
Sulle tue labbra il freddo dell’icona.
Il sudore mortale sulla fronte… Non si scorda!
La madre segue il figlio portato via (così immagina nei giorni della sentenza), un figlio già trasfigurato in immagine iconica. Il figlio non le perdonerà di aver raccontato la sua morte, perché prima ancora non le ha mai perdonato di averlo lasciato alla nonna nei primi anni di vita, anche se era per salvarlo. Il dolore di Anna è però sovrapersonale, tutto suo in quanto tutto di un popolo che piange i suoi figli. Allora come oggi.
No, non sono io, è qualcun altro che soffre.
Io non potrei esser così, ma quel che è successo
Neri drappi lo ricoprano,
E portino via le lanterne…
Notte.
https://www.youtube.com/watch?v=oFbnC_2OOJE
Mi gettavo ai piedi del boia,
Figlio mio e mio terrore.
Tutto s’è confuso per sempre,
E non riesco a capire
Ora chi sia belva e chi uomo,
E se a lungo attenderò l’esecuzione.
https://www.youtube.com/watch?v=CVwne4YEN7A
Quel che è stato non capisco.
Come ti guardavano, figlio,
Le notti bianche, in carcere,
Com’esse di nuovo guardano
Con occhio ardente di sparviero,
E della tua alta croce
E della morte parlano.
https://www.youtube.com/watch?v=yfgWCMPT3FI
E nulla essa mi consente
Di portare via con me
(Per quanto la si implori
E la si annoi con le preghiere):
Né gli occhi spaventosi di mio figlio –
Pietrificata sofferenza -,
Né il giorno in cui venne la bufera,
Né l’ora della visita in prigione,
Né il caro refrigerio delle mani,
Né le ombre agitate dei tigli,
Né un lieve suono di lontano –
Le parole dei conforti estremi.
https://www.youtube.com/watch?v=h1m4a0c6VUU
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- Nell’immagine di copertina: Anna Achmatova