L’etichetta giusta
Scritto da GIAN LUCA CARREGA.
Io sono uno alla vecchia maniera, che se uno gli si presenta e dice: “Piacere, Dottor dei Tali” e poi scopre che non si è mai laureato, ci rimane male. Per questo non mi è mai garbato il Codice da Vinci, che si presenta come un romanzo e poi ti fa un pippone di presunta storia alternativa e pretende che tu ci creda. Se sei un bravo romanziere, fai il tuo mestiere, no? Le stesse idiosincrasie me le porto appresso quando leggo il testo biblico e mi pare importante poter distinguere se l’intenzione del narratore è descrivere un evento che presume essere avvenuto o se invece racconta qualcosa che è puro prodotto di fantasia. Ma il confine è molto più sottile di quanto si possa credere.
Ci sono storie pressoché identiche che nei vangeli compaiono sotto registri diversi. Marco e Matteo riportano la strana vicenda di Gesù che a Gerusalemme si imbatte in un fico che presenta molte foglie ma zero frutti, perché non è stagione. Ma siccome Gesù è affamato si arrabbia e ne decreta la seccatura che avviene di lì a poco (Mc 11,12-14 e Mt 21,18-19). Si tratta, ovviamente, di un episodio carico di risvolti simbolici che allude ai frutti mancati di Israele e la cosa è talmente palese che Luca omette questa vicenda imbarazzante e trasforma il fico improduttivo in una parabola che si colloca in un altro contesto e non si riferisce soltanto a Israele ma a tutti coloro che non portano i frutti di conversione auspicati (Lc 13,6-9).
Qualche volta gli evangelisti riportano esempi di fiction che sono così realistici da spingere a pensare che si basino su vicende davvero accadute: quell’amministratore che approfitta del breve tempo tra la comunicazione verbale del suo licenziamento e l’effettivo allontanamento per ingraziarsi i debitori del suo padrone con un congruo sconto sul dovuto (Lc 16,1-8) pare un fatto di cronaca spicciola. Viceversa, l’incontro di Gesù con Zaccheo, capo dei pubblicani di Gerico, ha dei dettagli così di maniera (la bassa statura del soggetto in questione e l’arrampicata sul sicomoro) che ci fanno pensare quasi a un racconto fittizio (Lc 19,1-10). Ovviamente la mia riflessione non verte sul fatto che Gesù abbia davvero incontrato un tizio di nome Zaccheo – se è successo, buon per lui – ma sulla sensibile diversità di valore dei dettagli di un racconto parabolico, che è la tipica forma di racconto fittizio dei vangeli sinottici. Se non è reale il fatto, tanto meno devo presumere che lo siano certi ammennicoli che lo accompagnano.
Perciò quando la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31) descrive l’aldilà come un luogo di fiamme che tormentano colui che in vita non ebbe compassione del povero non posso pretendere che si tratti di una descrizione di come effettivamente stanno le cose nell’altro mondo. È un modo simbolico di esprimere la sofferenza, serve a far comprendere alle folle il messaggio del contrappasso. Il contenuto dell’insegnamento è reale, il contorno è funzionale allo scopo ma può essere una libertà creativa del narratore, anche se si chiama Gesù.