Allontana da me questo calice

5 Giugno 2021Lorenzo Cuffini

 

Scritto da  MARIA NISII. 

 

«Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36)

«Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39)

«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42)

«Ora, l’animo mio è turbato; e che dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma è per questo che sono venuto incontro a quest’ora». (Gv 12,27)

Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?» (Gv 18,11).

 

I sinottici riportano in modo quasi identico la richiesta di Gesù al Padre nel Getsemani, mentre Giovanni richiama parole simili all’ingresso in Gerusalemme e al momento dell’arresto. In tutti i vangeli questi versetti esprimono la consapevolezza che ha Gesù della sua morte imminente.

Iniziamo col soffermarci sull’immagine del “calice” quale cifra simbolica della sofferenza, attestato in altri passaggi biblici.In Mc 10,35-40 (e paralleli) i figli di Zebedeo chiedono a Gesù di sedere alla sua destra e alla sua sinistra nella sua gloria, richiesta a cui Gesù reagisce sconcertato:

«Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?».

Il “calice” è qui posto in chiaro parallelismo con le parole che verranno pronunciate nel Getsemani. Ma tra questi due momenti vi è in mezzo, centrale anche per la comprensione, l’ultima cena, anticipazione del sacrificio che comporterà tale sofferenza:

Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». (Mc 14)

Troviamo un significato analogo nell’Antico Testamento in Ger 49,12:

così dice il Signore: Ecco, coloro che non erano obbligati a bere il calice lo devono bere e tu pretendi di rimanere impunito? Non resterai impunito, ma dovrai berlo

e in Abacuc 2,16:

Ti sei saziato d’ignominia, non di gloria.
Bevi anche tu, e denùdati mostrando il prepuzio.
Si riverserà su di te il calice della destra del Signore
e la vergogna sopra il tuo onore

 

L’espressione resta nel linguaggio comune. “Il calice amaro”, “bere il calice dell’amarezza” rimandano infatti all’episodio evangelico, indicando per analogia un’esperienza di dolore. Benché Gesù si sia ritirato molte volte in preghiera, questa preghiera in particolare ha colpito più profondamente l’immaginazione, fissandosi nella memoria di lettori e credenti in quanto attestazione dell’umanità del Cristo che, come ogni uomo, ha vissuto l’angoscia di quel male che sentiva incombere su di sé. Il carattere drammatico di questo episodio è stato percepito e rinarrato con diverse accentuazioni.In un testo letterario di carattere spirituale Charles Péguy ritiene che quella del Getsemani sia

una atroce preghiera di un’ansia carnale, di un’ansia terrena… atroce preghiera di un’angoscia infinita… Un testo letteralmente terrificante… se non fossimo abbrutiti da anni e da secoli e da generazioni di catechismo, se non fossimo obliterati, annullati, storditi, inebetiti, assuefatti, resi ottusi… Se noi prendessimo i testi sacri come bisogna prendere tutti i testi, tutti i grandi testi… nella loro integrità, nella loro ampiezza, in tutta la loro crudezza, in tutto ciò che hanno (colto), in tutto ciò che riprendono dalla loro stessa realtà, se noi non lasciassimo, se non ammettessimo che tra noi e loro ci sia l’interferenza dell’abitudine e della stupidità dell’abitudine, …noi saremmo atterriti da questo testo” (Getsemani).

Vasilij Grigor’evičPerov (1878)

 

 

Il testo che ha assunto appieno l’immagine del calice nella sua cifra simbolica è però L’ultima tentazione di Nikos Kazantzakis,che dà forma tridimensionale a questa come ad altre metafore evangeliche che l’autore fa uscire dall’astrattezza linguistica. Così già nell’ultima cena, dopo l’invito a mangiare e a bere

I discepoli mangiarono tutti un boccone di pane, bevvero un sorso di vino, e il loro spirito vacillò. Il vino sembrava denso, come sangue, e il boccone di pane scese dentro di loro come un carbone ardente” (p. 424-5).

La versione cinematografica che Martin Scorsese ha tratto dal romanzo esaspera ulteriormente i toni, mostrando come nella bocca di Pietro il vino si sia realmente addensato in un grumo di sangue

 

che egli si rigira tra le dita prima di lasciarlo scivolare sul pane.

 

 

Il segno del calice torna naturalmente nel Getsemani, dove Gesù prega ardentemente e disperatamente prima di pronunciare le note parole:

Padre, sto bene qui, terra contro terra, lasciami così. Il calice che mi dai da bere è amaro, troppo amaro, non ne posso più… Se è possibile, Padre, allontanamelo dalle labbra”. Ma qui la risposta arriva esplicita: “L’aveva appena detto che vide alla luce della luna, su di lui, un angelo dal volto pallidissimo, severo, che scendeva. Le sue ali erano fatte di luna e teneva tra le mani un calice d’argento” (p. 431-2).

 

Il film dà all’angelo le fattezze di Giovanni, mostrandolo al contempo addormentato assieme agli altri. È un Giovanni silenzioso quello che appare a Gesù come risposta dal cielo, che non solo gli porge il calice affinché lo beva lì subito in segno di accettazione, ma lo accarezza per dargliene la forza.

 

Come abbiamo già avuto modo di notare, non è facile dare la parola a Gesù nelle riscritture, che raramente offrono testi apprezzabili e credibili. Tanto più il Getsemani sembra un banco di prova che poche forme artistiche hanno dimostrato di superare in modo efficace. Nell’arte (forse) il risultato migliore è stato raggiunto da Francisco Goya in Orazione nell’orto (1819), dove l’artista rinuncia al colore e alle forme avvolgendo le figure in un manto nero che associa il Getsemani al Golgota. Gesù in ginocchio infatti, aprendo le braccia, traccia le linee di una croce. E anche qui, in risposta alla preghiera, un angelo porge il calice. Di fronte alla visione del dramma che si sta consumando, l’arte sembra ritirarsi, mostrando la sua incapacità di rappresentare. La rinuncia a una immagine conclusa ed esteticamente gratificante diventa manifesto poetico ai limiti dell’aniconismo.

Tra le parole letterarie più intense scegliamo invece quelle di Stefano Jacomuzzi in Cominciò in Galilea:

Sono un uomo perduto nell’estrema delle sue notti. Le radici profonde della terra e le stelle del cielo ascoltano il grido di disperazione e di rivolta di tutti gli uomini nel mio grido. I dolori, i dubbi, la fede che trema, la speranza che si infrange precipitano la mia anima nell’abisso dell’angoscia. La mia notte, fratelli, è la notte della vostra angoscia. Nella disperazione cerco per voi la luce, nella rivolta una forza che ci sostenga. E pronuncio il mio sì. Padre, che io non beva il calice del dolore… Ma sia fatta, per noi, la tua volontà, non la nostra” (p. 195).

Solidale agli uomini nel dolore, nel dubbio e nell’angoscia questo Gesù è qui “uomo perduto”, che per gli uomini cerca luce e forza. Un Cristo entrato “nel groviglio umano”, come – infine – questo ritratto nella Via Crucis poetica di Mario Luzi:

Padre, siamo nell’Orto degli Ulivi – così chiamano il luogo qui a Gerusalemme.

Mi prostro con la faccia a terra, dico parole dissennate:

Passi da me questo calice. Ma non come vorrei,

come tu vuoi sia fatto.

Ciò che si prepara è nelle Scritture,

a quello ho ordinato i miei pensieri

punto per punto, eppure esito ancora,

farnetico che sia revocabile. Tu entri nel groviglio umano e lo disbrogli

pure così lontano come sei nella tua eternità

da questi nodi delle esistenze temporali. In te pietà ed amore riempiono l’abisso

di questa differenza. Intendimi.

 

Il lungo vangelo della Passione chiede di essere letto soffermandosi su un dettaglio, anche uno piccolo come questo, condensato in una parola. Il calice di Gesù è la croce, una morte dolorosa e infamante, ma anche “l’ora”, ovvero l’evento che compirà la sua missione di uomo. Un’immagine potente e suggestiva, che le diverse traduzioni artistiche non hanno potuto snaturare, abbellire o convertire in altro. Non casualmente, qui più che altrove abbiamo quindi constatato notevole fedeltà e tutt’al più un’apoteosi immaginifica che ha reso visibile il significato dietro il simbolo. Qui più che altrove possiamo allora sostare, senza la fretta di procedere oltre, non “abbruttiti dall’abitudine” del già noto e – come suggerisce Péguy – lasciarci “atterrire” dal testo.

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  • In copertina : Giovanni Bellini, L’agonia nell’orto (1465)

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