Apocalisse, rivelazione del disordine
Scritto da MARIA NISII.
Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve. Ed egli la manifestò, inviandola per mezzo del suo angelo al suo servo Giovanni, 2il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. 3Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino.(Ap 1,1-3)
Quella rivelazione che è Apocalisse (dal verbo greco apokalypto, rivelare, svelare)consiste in scenari da penultimi e ultimi tempi, che Giovanni da Patmos riceve in visione mentre si trova in esilio, dunque quale rappresentante dei cristiani perseguitati. Le immagini di giudizio mostrate vogliono essere consolazione e interpretazione del presente vissuto per tutti coloro che si trovano in quella medesima situazione di tribolazione. Ma che cosa è diventato questo libro nel corso della storia?
A causa del ricco immaginario lì contenuto, l’ultimo libro della Bibbia si è prestato a una notevole proliferazione di produzioni letterarie e culturali di vario genere. E la prima riscrittura su cui ci si potrebbe soffermare è proprio la comprensione comune del termine “apocalisse” come fine dei tempi, dal quale sarebbe stato obliato il significato originale proveniente dal greco. Non più rivelazione, Apocalisse è quindi diventata sinonimo di distruzione, devastazione e fine tragica di mondo e umanità, nelle varie declinazioni che la storia ha visto realizzarsi già sulla terra.Un breve saggio di Claudio Magris (“Le consolazioni dell’Apocalisse” in Utopia e disincanto, Garzanti, Milano, 1999) ne tratteggia efficacemente lo spostamento di senso: se l’apocalisse biblica vuole suscitare sentimenti di consolazione con la vittoria finale del cavaliere dal cavallo bianco sul drago e sui malvagi, con cieli e terra nuova donati ai beati e l’avvento radioso del Regno di Dio nella Gerusalemme celeste, di fatto nella fantasia del lettore s’imprimono maggiormente le immagini fosche delle catastrofi che precedono. La suggestione di questo libro della Bibbia è più dovuta al terrore che alla speranza, più agli scenari di scatenamento del male che di trionfo del bene. La visionaria grandezza poetica è infatti affidata alla rappresentazione della potenza del male e della sua rovina. Nel sentire comune dunque l’aggettivo “apocalittico” evoca cataclismi, con i quali il linguaggio veicola l’idea di un tempo di crisi e transizione, in cui l’uomo è sempre convinto di vivere.
In Macbeth Shakespeare recupera la simbologia del disordine, della devitalizzazione e del dissesto naturale di matrice apocalittica, non solo biblica, per descrivere le distorsioni del potere. La follia in cui verserà infine Lady Macbeth si gioca infatti su questo piano, come appare nella descrizione del medico che parla di “perturbamento della natura” (V.i.).
Se “gli atti contro natura generano turbamenti innaturali”(V.i.), il sovvertimento dei segni naturali ha contribuito a sottolineare la follia distruttiva della coppia. Nel momento dell’uccisione del re, il paesaggio è quindi segnato da impressioni di lutto incombente: si tratta di una notte inquieta, piena di vento, con terremoti e lamenti di morte: “La notte è stata inquieta… si sono uditi nell’aria dei lamenti, strane grida di morte e voci che profetizzavano con terribili accenti di un’aspra conflagrazione e di confusi avvenimenti pronti a nascere in questi tempi di ferro. L’uccello dell’oscurità gridò l’intera notte: alcuni dicono che la terra tremò per la febbre” (II.iii). La vista del corpo assassinato di Duncan evoca il giorno del Giudizio: “scuotetevi di dosso questo torpido sonno, contraffazione della morte, e contemplate la morte vera! – Su, su, venite a vedere l’immagine del giudizio… Sorgete come dalle tombe, e avanzate come spettri per affrontare questo orrore!” (II.iii.).
Le visioni allucinate che prima hanno creato le condizioni del misfatto e dopo tornano come ossessioni sono presentate come creazioni della mente: “o sei soltanto un pugnale della mente, una creazione falsa che nasce dal cervello oppresso dalla febbre?… i miei occhi sono diventati i buffoni degli altri sensi oppure valgono quanto il resto… gocce di sangue, che prima non c’erano” (II.i.).
Per Macbeth poi, dopo l’omicidio di Duncan, la piaga apocalittica degli scorpioni diventa un incubo, una figura dell’immaginazione: oh! La mia mente è piena di scorpioni, moglie cara! (III.ii). Una simbologia, quella degli scorpioni della mente, che compare anche nella gelosia disturbata di Otello.
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Lucilla Giagnoni recita il primo monologo di Lady Macbeth all’interno del suo lavoro teatrale “Big Bang”: