La Bohème alla Consolata

21 Ottobre 2023Lorenzo Cuffini

 

Scritto da LORENZO CUFFINI.

 

Che esista un robusto legame tra Torino e La Bohème di Giacomo Puccini è cosa risaputa. Fu proprio qui, al Teatro Regio, che andò in scena la prima rappresentazione dell’opera. Con un successo che si consolidò poi attraverso il tempo , i luoghi e le generazioni di melomani, tanto da renderla una delle opere piu’ gettonate, celebri ed eseguite in tutto il mondo.

Anche quest’anno, nel 2023, siamo alla vigilia di una sua  nuova messa in scena torinese.

La storia di Bohème è arcinota: come in tutti i melodrammi, è storia di amore e morte. Ma calata, a differenza della maggior parte degli altri casi, in un ambiente di vita quotidiano e realistico;senza eroi né eroine, per intendersi, ma con un gruppetto di giovani squattrinati e  per l’appunto bohemiens, secondo il detto dell’epoca, a far da protagonisti, e belle ragazze a fare da comprimarie e contraltare. Noi – pubblico di oggi – abbiamo in parte perduto il senso della novità di questa ambientazione: la musica, il testo del libretto, i costumi e il way of life di questi artisti poveri in canna e volentieri goliardi ci appare comunque datato e lontano nel tempo. Ma quando l’opera fu scritta e rappresentata, era qualcosa di molto attuale e molto contemporaneo. Per farcene un’idea, avrebbe potuto avere sugli spettatori dell’epoca l’impatto che avrebbero avuto parecchi decenni dopo  i film italiani neorealisti nel dopoguerra.

Quello che qui ci interessa, però, non è l’analisi del capolavoro di Puccini. Piuttosto, il fatto che sul finire dello spettacolo – siamo alla fine del IV atto – irrompono improvvisamente sulla scena la fede e la preghiera. E’ poco più di un attimo: poche battute, pochi versi, nemmeno un’aria lirica vera e propria. Scena: nella soffitta, tutta spifferi gelidi e umidità malsana, Mimì giace, malatissima di tisi e prossima ormai alla fine; senza che né lei, né i suoi giovani amici, pur spaventatissimi ,  abbiano coscienza dell’imminenza della tragedia che incombe. C’è appena stato il ricongiungimento appassionato della ragazza con il suo Rodolfo, e il reincontrarsi con il resto della compagnia. E’ a questo punto che  Musetta, la più spensierata, spregiudicata e leggera del gruppo, improvvisamente  ha uno slancio di fede e di preghiera per l’ amica che vede stare malissimo. Non c’è rottura, né scenica né musicale, che  prepari o  introduca questo cambio di registro:  la supplica sgorga spontanea e apparentemente incongrua, unica parentesi  del genere in tutta l’opera, dove  l’orizzonte è tutto all’interno della dimensione terrena e amorosa, giorno per giorno, di quel loro microcosmo. E’ tutto talmente rapido e naturale nel suo manifestarsi, che le parole della  preghiera si mescolano alle parole legate alle azioni spicciole dettate dal momento e dalla contingenza. Si sprigionano lì dove si è, come si è: né più né meno.

Dice e canta all’improvviso Musetta, in mezzo ai suoi amici , mentre sta facendo riscaldare a una debole fiamma il preparato che uno degli altri  è uscito a prendere per l’ammalata:

Madonna benedetta,

fate la grazia a

questa poveretta

che non debba morire…

 

(poi, interrompendo la sua preghiera, rivolta a Marcello)

Qui ci vuole un riparo

perché la fiamma sventola.

 

(Marcello si avvicina e mette un libro ritto sulla tavola formando paravento alla lampada)

 

Così.

 

(Ripiglia la preghiera)

E che possa guarire.

Madonna santa, io sono

indegna di perdono,

mentre invece Mimì

è un angelo del cielo.

 

(mentre Musetta prega, Rodolfo le si è avvicinato)

 

Rodolfo:

Io spero ancora.

Vi pare che sia grave?

Musetta

Non credo.

 

Chi ha vissuto l’esperienza di assistere e magari partecipare alla fine di una vita giovane e crudamente spezzata dalla malattia ( Mimì è stroncata dalla tisi, il male del secolo del tempo) avverte immediatamente la nota di verità di questa scena. Perché qui  non c’è nulla di rassegnato, di arreso, di accettato davanti alla morte prematura, per quanto  si possa vedere coi propri occhi la persona  fiaccata e sconvolta dalla sofferenza. E questa incredulità, questa nota innaturale, sovrasta e domina tutto, persino la disperazione e il dolore, insinuandosi tra i gesti, le parole, i ritmi, le consuetudini degli amici presenti,  che restano comunque, incredibilmente quanto vanamente, gli stessi di sempre:  pur nella eccezionalità spaventosa di quello che sta accadendo.

Oltre a questo, la prima volta che vidi l’opera dal vivo, fui colpito dalla somiglianza della scena con qualcosa di vagamente familiare eppure indistinto che sul momento non seppi cogliere. Solo in  seconda battuta, ripensandoci,  mi resi conto che il colpo d’occhio di quel che avveniva sul palco mi aveva richiamato alla memoria le immagini provenienti da tutt’un altro mondo: quello  di certi ex voto della Consolata.  Uguale la stanza disadorma, uguale la persona  malata riversa su un povero letto, uguale la  piccola folla di persone intorno: la stessa atmosfera drammatica e allo stesso tempo sospesa, stessa supplica basica e infantile, ridotta all’osso e confidente

Madonna benedetta!”

Basta farsi un giro nella galleria degli ex voto della Consolata, qui a Torino, per imbattersi in tante, tantissime scene di questo tipo. Molte volte sono esattamente come quella della soffitta di Mimì, senza epici accadimenti d’intorno: né precipizi sgarupanti pronti a inghottire qualche disgraziato, né marosi sul punto di sommergere ogni cosa, né battaglie che infuriano da ogni lato. Solo silenzio, riservatezza,  “normalità”: una camera da letto, o  un letto della corsia di un ospedale, e basta. Come a ricordarci: per morire non è necessario uno sconquasso, la morte puo’ esere ordinaria, senza clamori. Roba di casa e di gente nostra. Specie in quell’epoca in cui veramente si moriva per lo più così: tutt’altra storia dalle morti medicalizzate e  ospedalizzate che ci attendono oggi, tra video, bip di apparecchi e ronzii elettromedicali.

Gli ex voto sono, naturalmente, una riscrittura formidabile: per quantità di storie e per vivezza del racconto. Una riscrittura della fede cristiana colta nella sua dimensione più popolare e se si vuole anche ingenua, quella fede che trova più alla mano rivolgersi a Maria e ai santi, che non a Dio Creatore o a Gesù Cristo: una fede certamente naif e  forse addirittura infantile, tutta ed esclusivamente tesa al prodigio. Che vuol dire: guarigione. salvezza, vita. E per quanto possiamo, e in molti casi dobbiamo, saper prendere e tenere le distanze da manifestazioni religiose troppo fideistiche e miracolistiche, tuttavia non possiamo dimenticare che il Vangelo stesso è pieno di richieste di aiuto di questo genere, a tal punto che se si volesse espungere il testo evangelico di tutti i miracoli costantemente riportati, troveremmo che è praticamente impossibile farlo. Anche nel Vangelo i miracoli arrivano, e si compiono. In molti casi proprio nelle piccole storie e nelle piccole vicende, nella case anonime e nella famiglie come tante altre di chi supplica a chiede. Gli ex voto, pur nella loro dimensione popolana e tavolta infantile, sono lì a voler testimoniare proprio questo: la potenza di una fede ridotta all’osso che riesce a strappare l’intervento al Cielo.

 

 

Giustamente mi è stato fatto osservare un giorno,  da un amico ateo che avevo accompagnato al visitare la galleria della Consolata, che in realtà, quella raccolta era tutta una antologia di immagini  “di vita”: drammatiche sì’, ma andate a buon fine. Laddove – in chiesa – c’è al contrario un prevalere di immagini di morte: dal Crocifisso ai martiri ai santi stessi  (forzatamente trapassati), ai simboli della caducità delle cose, alle reliquie …Un argomento che darebbe la stura a una mezza dozzina di dotti dibattiti teologici, di cui, qui, non ci si occupa minimamente. Ci interessa invece ricordare come gli ex voto siano stati ( e siano ancora) espressione della fede semplice e minuta, esattamente come lo è la preghiera spontanea di Musetta, scaturita dallo spavento e dal dolore davanti alla sofferenza di un’amica.  Gli ex voto non solo riscrivono la fede (a modo loro), ma riscrivono anche le storie ordinarie e anonime dei loro protagonisti. I quali, da sconosciuti quali generalmente restano, diventano personaggi della storia  della Salvezza, in grado come sono di squarciare con la loro preghiera tempo e spazio e attirare, rappresentate nei lembi superiori dei dipinti, Madonne incoronate  e maternamente intenerirte,  incapaci di tacere senza rispondere alla richiesta di aiuto. C’è un unico limite, in questa narrazione: gli ex voto raccontano – per definzione e natura- solo “lieti fini”: son lì a testimoniarli. La preghiera, apparentemente inascoltata, di Musetta fa parte invece  della gran massa di tutti gli infiniti altri casi. Quelli in cui i cieli restano chiusi, e ci sembrano vuoti, sordi e impassibili alle nostre grida. Nessun cenno mistico, nessun’ apparizione fugace e risolutrice , nella scena del quart’atto di Bohème. Al contrario: Mimì se ne muore, nel suo letto. L’orizzonte resta chiuso e a splancarsi è il grido di disperazione di Rodolfo che la chiama per nome,  e l’attonita impotenza degli amici davanti al sipario che cala. Cala su Mimì stessa, sulla sua storia, sull’opera, e sulle nostre forse troppo facili aspettative di miracolo. Forse per questo , a più di un secolo di distanza, questo finale è sempre in grado di toccarci, nel profondo dell’anima.

 

Un pensiero riguardo “La Bohème alla Consolata”

  1. Mi ha fatto molto piacere leggere questo bel articolo sulla fede semplice ma riconoscente e gli ex voto della Consolata. Abito a Torino e pochi anni fa, a seguito di una brutta caduta ma con pochi danni, ho eseguito e donato un ex voto alla Consolata, dove è esposto con grande mia gratitudine.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito è protetto da reCAPTCHA e da Googlepolitica sulla riservatezza ETermini di servizio fare domanda a.