Canto sulle ossa inaridite

22 Gennaio 2022Lorenzo Cuffini

Scritto da  MARIA NISII

 

Suono, mi sono seduto giù per terra

e ho suonato e cantato malinconico: oh, popolo mio.

Milioni di yidn sono stati a sentire intorno a me,

milioni di messi a morte si sono messi in ascolto, un uditorio immenso.

Se abbiamo questo testo, raccolto assieme ad altri in lingua yiddish tradotti da Erri De Luca, è perché chi li ha scritti ne ha reso possibile il recupero nascondendoli in bottiglie sigillate e poi fornendo istruzioni per il loro ritrovamento:  https://www.rainews.it/archivio-rainews/media/Itzhak-Katzenelson-Canto-del-popolo-yiddish-messo-a-morte-f616e004-6584-4977-9ae3-9728ed4aaeac.html

Non riusciamo a immaginare come sia stato possibile in quelle condizioni, eppure nei campi di concentramento (qui si tratta di Vittel) la letteratura, la poesia e la Bibbia hanno aiutato a sopravvivere. Lo sappiamo da Primo Levi che in Se questo è un uomo racconta come il canto di Ulisse in Dante torni alla memoria in un momento inatteso, ridonando un po’ di quella dignità umana disintegrata nella vita da internato. Lo sappiamo dai tanti testi scritti negli anni a seguire, quando dire l’orrore sembrava impossibile e tacere l’unica via. La parola che ha raccontato la shoah è quindi una parola d’eccezione perché ha tentato lo sforzo sovrumano di dire l’indicibile, un lavoro ai limiti del linguaggio, che si riconosce in specie alla poesia in quanto espressione sublime della comunicazione umana, capace di declinare le pieghe di ogni suo sentire come della sua stessa impossibilità.

Un immenso uditorio, accampamento enorme. La valle di Ezechiele

piena d’ossa qui sarebbe ridotta a un angolino.

E lui per primo, Ezechiele, non avrebbe la speranza e la fede di una volta

per parlare agli uccisi e si tormenterebbe le mani come me.

Come me: dall’accampamento si leva la voce di un io-poetico. Dietro questa prima persona vi è il suo autore, Itzhak Katzenelson (1886-1944), intellettuale di spicco del movimento sionista, di origini bielorusse, trasferitosi a Varsavia e quindi costretto nel ghetto, dove insegna letteratura ebraica e Bibbia in una scuola secondaria. In quegli anni scrive i suoi testi teatrali e poetici in lingua yiddish, nata dalla confluenza della cultura ebraica con quella europea.

Katzenelson e il figlio nel campo di Vittel

Nel luglio 1942 perde moglie e due figli piccoli trasferiti nel campo di sterminio di Treblinka. Rimasto solo con il figlio maggiore, riesce a fuggire: “Lo mettono in salvo perché è un poeta, perché sono i poeti che porteranno la voce dei distrutti, oltre le mura, al di là del recinto di filo spinato del tempo. È una decisione strategica e militare dei partigiani ebrei nel ghetto di Varsavia: salvare i poeti, i diari, i manoscritti” (Erri De Luca, p. 85). Purtroppo Katzenelson viene arrestato, internato a Vittel con il figlio, dove scrive Il canto, e quindi trasferito ad Auschwitz per essere ucciso il giorno stesso dell’arrivo. Ma prima di lasciare Vittel era riuscito a trascrivere il testo in sei copie, nascondendole in vari luoghi del campo o lasciandole ad alcune persone. Si salvano due sole copie. Nel ghetto di Varsavia saranno rinvenuti altri suoi testi, preservati assieme ad altri dalla lucidità di alcuni reclusi.

 

https://www.shalom.it/blog/news/chi-scrivera-la-nostra-storiay-le-testimonianze-nascoste-degli-ebrei-del-ghetto-di-varsavia-b260701

Dalla prefazione che Primo Levi aveva scritto per un’edizione precedente (Giuntina, 1995), ritroviamo la classica interpretazione giobbica, secondo cui il poeta è l’uomo colpito dal dolore che leva in alto il suo grido: “Qui è Giobbe che parla, un Giobbe moderno più vero e compiuto dell’antico, ferito a morte nelle sue cose più care, nella famiglia e nella fede, orbo ormai (perché? perché?) dell’una e dell’altra. Ma alle domande eterne del Giobbe antico si erano levate voci in risposta, le voci prudenti e timorate dei «consolatori molesti», la voce sovrana del Signore: alle domande del Giobbe moderno nessuno risponde, nessuna voce esce dal turbine. Non c’è più un Dio nel grembo dei cieli «nulli e vuoti», che assistono impassibili al compiersi del massacro insensato, alla fine del popolo creatore di Dio”. Non seguiremo la linea giobbica, bensì quella suggerita dal testo stesso, ove il popolo sterminato nei campi viene percepito come nuova versione della valle dalle ossa inaridite (Ez 37, 1-14).

[…] Ezechiele, tu un yid nella valle di Babele, tu vedesti le ossa prosciugate del tuo popolo e perduto

fosti tu, Ezechiele. E inanimato come un burattino dal tuo supremo ti lasciasti portare in quella valle.

Il canto di Katzenelson si rivolge a Ezechiele, l’uomo a cui il Signore chiede di profetizzare sulle ossa inaridite perché possano ritornare in vita.Trasportato “in spirito” in quella valle, Ezechiele “sente e vede” (Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente- v. 7) mentre pronuncia le parole che gli sono state affidate dal Signore.

Ezechiele è un yid (contrazione di yiddish, termine volutamente lasciato nell’originale dal traduttore), un ebreo. Ma nel campo di concentramento, dove milioni di yid hanno trovato la morte, quella valle di ossa inaridite è, in confronto, piccola cosa. Qui neppure Ezechiele avrebbe il coraggio di rivolgersi agli uccisi come un tempo aveva saputo fare, pieno di fede e di speranza nelle parole del Signore.

Gustave Doré

E ti lasciasti andare a una domanda: “Tihièna?(Vivranno?)”. Dimmi torneranno

a vivere le ossa? Non sai se sì o no.

E allora io, cosa posso mai dire? La sventura,

non restano le ossa del popolo mio mandato a morte.

 

Niente su cui distendere una carne e una pelle

a coprire e in cui soffiare un fiato.

Vedi, vedi, un popolo messo a morte per intero,

un popolo morto ci fissa, guarda a noi con occhi irrigiditi.

Degli ebrei condotti al macello non restano neppure le ossa su cui far ricrescere carne e pelle (Guardai, ed ecco apparire sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva Ez 37,8), nulla su cui soffiare l’alito di vita (Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano – v. 9). In mancanza del segno delle ossa, l’annientamento di un popolo è tutto quello che, paradossalmente, Ezechiele può ora vedere. L’unica visione possibile è il nulla, lo spazio lasciato vuoto da un popolo morto, dal quale ci si sente “guardati”. Il gioco dei verbi del guardare e vedere richiama la vista profetica per ribaltarla nel suo fondamento.

[…] Non esistono più. E sulla terra più non ci saranno.

Li ho inventati io, sì, ecco siedo e li invento.

Ma verità sono le loro pene che tu vedi, il dolore, il dolore

del loro annientamento è vero e sconfinato.

 

Vedi, stanno in lungo e in largo tutti intorno a me

e tutti loro, mentre un brivido mi traversa il corpo,

mi fissano con il rimpianto agli occhi di Bentzi e di Yomek

mi fissano tutti loro con gli occhi addolorati di mia moglie.

Il popolo annientato e indistinto nel numero di “milioni” dei primi versi, assume improvvisamente il volto amato di moglie e figli. Il dolore è l’unica visione possibile nell’oggi – forse la memoria dell’ultimo sguardo, che il poeta sente ancora su di sé come un brivido. Per questo continuare a vivere non può che essere “malasorte”.

[…] La mia Hanna l’hanno portata via con i nostri due figli.

La mia Hanna sa, insieme a lei furono trascinati.

Ma non sa dov’è Tzvì, né di me sa dove sono finito,

non sa della mia malasorte, non sa che vivo.

 

Alza gli occhi sopra di me, come li alza muti

su di me tutto l’intero popolo, ma è come se non mi vedesse.

Vieni mia silenziosa e piena di dolore, vieni Hanna, vieni,

guarda, senti la voce mia, e riconoscila.

 

Katzenelson con i due figli maggiori

 

Quegli occhi silenti dai quali il poeta si sente guardato appartengono a una visione profetica di diversa qualità. A quegli occhi “muti” infatti non si può corrispondere. La loro presenza silenziosa egli però invoca, nonostante tutto, chiamando il nome della moglie – come se nella donna vi fosse l’intero popolodolente per il quale egli suona e canta il suo lamento funebre.

Ascolta Bentzi, mio giovanotto, mio sapiente, tu comprendi

L’Ecà/Lamentazioni dell’ultimo tra gli ultimi degli yidn.

E tu, Yomele mio, mio luminoso e mia consolazione,

dove sta il tuo sorriso Yom? Sì, il sorriso, ma tu non sorridere.

 

Lo temo, Yomele, il sorriso, come si può tremare

pure del sorriso. Ascoltami cantare,

ho scagliato la mano sopra l’arpa come gettare il cuore

e che possa farci ancora più male, più dolore e rimpianto.

Se alla moglie, statua di dolore, chiedeva di essere riconosciuto dalla voce, i figli minori sono ritratti con attributi di sapore biblico: mio sapiente, mia consolazione. I figli perduti sono l’unico appiglio quando la profezia biblica più non risponde.

Ezechiele, lui no, Geremia nemmeno, non mi serve.

Li ho chiamati: “Aiutatemi, venitemi in soccorso”.

Ma non li aspetterò per il mio ultimo canto,

se ne stiano tra le loro profezie, io me ne sto con il mio immenso affanno.

(2. Io suono, 15 ottobre 1943)

Sono i bambini uccisi a udire le lamentazioni profetiche, ma non è il grido di Geremia a raggiungerli. E i loro sguardi si levano là dove Ezechiele non avrebbe la speranza necessaria per profetizzare ancora. Assieme ai profeti biblici, il poeta ha perduto anche il suo Dio, in questo canto neppure citato, il quale appare carsicamente negli altri per dire la sua assenza: Cieli svuotati e desolati, cieli come un deserto vasto e vuoto, ho / in voi perduto il mio Dio solitario (9. Ai cieli). Non rinnegato, Dio è assente, perduto. Non in cielo, ma semplicemente in alto vi è un popolo dagli occhi muti e addolorati. Un popolo annientato con i suoi bambini.

Furono i primi uccisi, i bambini yiddish, tutti loro, il mazzo

dei senza padre e madre, bambini divorati dal freddo, pidocchi e fame,

santi messia santificati dalle sofferenze. Dite, per quale punizione?

 

Furono i primi, afferrati per essere messi a morte, i primi sopra il carro,

li hanno scaraventati nei grandi vagoni come mucchi di stracci, spazzatura,

deportati, ammazzati, annientati, non c’è traccia

di loro, dei migliori dei miei, niente è restato. Guai a me, sventura su di me, maledizione.

(6. I primi – 2, 3, 4 novembre 1943)

Gli orfani di padre e madre sono i primi a essere messi a morte. I più facili da annientare. Gli innocenti. Tanti piccoli messia.

 

Guido Reni, La strage degli innocenti (1611), dettaglio

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