Cesoie teologiche presso i fiumi di Babilonia

8 Ottobre 2022Lorenzo Cuffini

 

Scritto da MARIA NISII.

 

Nel 1933 Giuseppe Ungaretti affermava: “Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando essa è una bestemmia”. Nelle poesie infatti non è raro rinvenire una contestazione del divino, pur nell’oscillazione tra invocazione e provocazione, così come Dio non smette di essere chiamato in causa anche nel tempo della disperazione di un orizzonte apparentemente senza Dio. Il male che da sempre sembra negarne l’esistenza può essere quindi stilizzato in immagini bibliche attualizzate al dramma del presente vissuto, come è il caso dei “versi di guerradi Salvatore Quasimodo, che riprendono il Salmo 137 (136) riportandolo in epoca di nazi-fascismo:

E come potevamo noi cantare

Con il piede straniero sopra il cuore,

tra i morti abbandonati nelle piazze,

sull’erba dura di ghiaccio,

al lamento d’agnello dei fanciulli,

all’urlo nero della madre

che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese:

oscillavano lievi al triste vento.

(Salvatore Quasimodo, Super fluminaBabylonis, 1945)

Si tratta naturalmente di una rivisitazione del salmo biblico, che di seguito riportiamo per intero:

1 Là, presso i fiumi di Babilonia,
sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.
2 Ai salici delle sponde avevamo appeso le nostre cetre.
3 Là ci chiedevano delle canzoni quelli che ci avevano deportati,
dei canti di gioia
quelli che ci opprimevano, dicendo:
«Cantateci canzoni di Sion!»
4 Come potremmo cantare i canti del SIGNORE
in terra straniera?
5 Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
6 resti la mia lingua attaccata al palato,
se io non mi ricordo di te,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.
7 Ricòrdati, SIGNORE, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme
dicevano: «Spianatela, spianatela,
fin dalle fondamenta!»
8 Figlia di Babilonia, che devi essere distrutta,
beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto!
9 Beato chi afferrerà i tuoi bambini
e li sbatterà contro la roccia!

Confrontando i due testi, ci si accorge che la riscrittura poetica di Quasimodo è abbreviata, ma non meno incisiva. Per meglio comprenderne il richiamo è bene riprendere il contesto: la vicenda a cui si fa riferimento nel testo biblico è il tempo della deportazione a Babilonia avvenuta con Nabucodonosor (597-538 a.C.), in cui il popolo ebraico ha assistito e subìto ogni sorta di violenza in patria prima di vivere la vergogna dell’esilio. Radunati ora lungo il fiume di Babilonia, il pensiero corre a Gerusalemme e per la tristezza del ricordo non sono più capaci di cantare. Chi li vede, passando, si accorge degli strumenti che hanno con sé e chiede loro un canto. E forse lo chiede anche con insistenza, se stiamo a guardare la ripetizione al v. 3. Per gli israeliti colmi di afflizione questa richiesta risulta provocatoria e ai limiti dell’irrisione, in quanto rivolta dai persecutori che chiedono canzoni celebrative della grandezza di Sion, la città santa che hanno violato, distrutto e depredato: “sembra di vedere l’anticipazione di certe crudeli richieste fatte agli ebrei nei lager”, scrive G. Ravasi nel suo commento al Salmo.

Spianatela, spianatela fin dalle fondamenta! è il grido che il salmista rievoca per far sentire quanto sia stato spietato il furore dei nemici (oltre ai babilonesi, approfittando della situazione erano accorsi gli edomiti, tra i classici nemici di Israele).

Nei versi di Quasimodo si riprende il tema dell’impossibilità del canto per descrivere lo scenario di guerra che, a differenza del salmo, non riappare nel ricordo ma è lì presente: i morti abbandonati, le urla delle madri, il sacrificio dei giovani. Non può sfuggire la lettura cristologica che vede i giovani come agnelli immolati e crocifissi. Il richiamo al salmo in apertura e chiusura, oltre al titolo in latino del testo, sembra limitarsi ad acquisire il contesto di afflizione, obliando la parte finale in cui l’orante si rivolge a Dio perché si ricordi del giorno che ha causato tanto dolore, facendo loro giustizia. Il riferimento cristico sembra colmare questo vuoto, lasciando inespressa l’invocazione.

 

https://www.youtube.com/watch?v=tPANwyaSlX4

 

Prima di Quasimodo, a partire dallo stesso salmo Giuseppe Verdi aveva musicato il Nabucco (presentato la prima volta alla Scala di Milano nel 1842). Ma in questa versione l’afflizione degli ebrei è paragonata a quella degli italiani prima dell’unificazione, e“Va, pensiero…” è la preghiera rivolta alla Patria. Anche qui l’arpa appesa al salice (albero che piange) riaccende il ricordo di un tempo di libertà perduta.

Va’, pensiero, sull’ali dorate,

va’ ti posa sui clivi, sui colli,

ove olezzano libere e molli

l’aure dolci del suolo natal!

Del Giordano le rive saluta,

di Sïonne le torri atterrate…

Oh mia patria sì bella e perduta!

Oh membranza sì cara e fatal!

Arpa d’ôr dei fatidici vati

perché muta dal salice pendi?

Le memorie nel petto raccendi,

ci favella del tempo che fu!

O simìle di Sòlima ai fati

traggi un suono di crudo lamento,

o t’ispiri il Signore un concento

che ne infonda al patire virtù!

 

https://www.youtube.com/watch?v=l3QxT-w3WMo

 

Molto più recentemente, nel 1978, un gruppo musicale, i BoneyM, hanno rilanciato il testo salmico e tanti devono averla canticchiata senza (ri-)conoscerne l’originale:

By the rivers of Babylon, therewesat down
Yeah, wewept, whenweremembered Zion
By the rivers of Babylon, therewesat down
Yeah, wewept, whenweremembered Zion

There the wicked
Carriedusaway in captivity
Required from us a song
Nowhowshallwesing the Lord’ssong in a strange land?

There the wicked
Carriedusaway in captivity
Requiring of us a song
Nowhowshallwesing the Lord’ssong in a strange land?

Yeah, yeah, yeah, yeah, yeah

Let the words of ourmouth and the meditation of ourheart
Be acceptable in thysightheretonight
Let the words of ourmouth and the meditation of ourhearts
Be acceptable in thysightheretonight

By the rivers of Babylon, therewesat down
Yeah, wewept, whenweremembered Zion
By the rivers of Babylon, therewesat down
Yeah, wewept, whenweremembered Zion

By the rivers of Babylon (dark tears of Babylon)
Therewesat down (yougot to sing a song)
Yeah, wewept (sing a song of love)
Whenweremembered Zion (yeah, yeah, yeah, yeah, yeah)

By the rivers of Babylon (rough bits of Babylon)
Therewesat down (youhear the peoplecry)
Yeah, wewept (theyneedtheirGod)
Whenweremembered Zion (ooh, have the power)

By the rivers of Babylon (oh yeahyeah), therewesat down (yeah, yeah)

 

 

Spero non sia sfuggito che in tutte le versioni citate sia stato espunto il riferimento finale del Salmo, che di seguito riscriviamo:

8 Figlia di Babilonia, che devi essere distrutta,
beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto!
9 Beato chi afferrerà i tuoi bambini
e li sbatterà contro la roccia!

Babilonia, causa di tante disgrazie per il popolo ebraico, deve subire lo stesso destino di Gerusalemme ed essere distrutta: perché giustizia sia compiuta, deve essere ristabilito l’ordine infranto. Secondo un principio retributivo quindi chi ha causato la rovina di un popolo, deve ricevere lo stesso trattamento e il massacro dei bambini ha proprio lo scopo di privare un popolo del suo futuro. Così è avvenuto per gli ebrei e lo stesso dovrà avvenire per Babilonia. Questa atrocità era ricorrente nell’Oriente antico, come emerge nel profeta Naum: “Essa è partita per l’esilio in cattività e i suoi lattanti sono stati sfracellati ai crocicchi di tutte le strade” (3,10). Si tratta di un passaggio duro, specie considerato che si tratta di una preghiera. Questo può spiegare perché sia eliminato nelle riscritture. Eppure non capita solo qui.

Il salmo 137 (136) si legge sia durante la liturgia eucaristica (4° domenica di Quaresima, anno B) sia nella liturgia delle ore (Vespri del martedì della IV settimana) nei soli versetti 1-6. La ragione risale alla vexata quaestio afferente i cosiddetti “salmi imprecatori”, prima oggetto di un serrato dibattito in seno al Concilio Vaticano II e poi di una decisione di Paolo VI che nel 1971 (Principi e norme per la liturgia delle ore), in controtendenza rispetto al giudizio maturato in commissione, escluse motu proprio i salmi 58, 83 e 109 e qualche porzione di altri (compreso il presente salmo) dall’ordinaria recita del breviario della chiesa cattolica. Il problema si ripropone a decenni di distanza dal Concilio e a fronte di una maggior consuetudine con i testi della Sacra Scrittura: è giusto, oltre a essere esegeticamente corretto, tagliare o eliminare del tutto testi del canone per il loro carattere violento o non è forse meglio comprenderli e accoglierne la provocazione? Sarà così fuori luogo riflettere sul fatto che la fede in Dio e nella sua giustizia possa in taluni casi comportare un desiderio e persino una sacralizzazione della vendetta?

 

 

Il linguaggio è crudo e selvaggio, ammette André Wénin – che sui salmi imprecatori e sulla violenza presente nella Bibbia ha lavorato a lungo – e per questo richiede di fermarsi e comprendere, magari assumendo il punto di vista dell’orante. Il contesto, come visto, rimanda all’immagine di un popolo esiliato, oppresso e impotente, e tuttavia legato alla sua città e al suo Dio. Il suo bisogno di giustizia è quindi più che legittimo, sebbene sia espresso in una logica di vendetta. Queste parole dure e quasi illeggibili esprimono pertanto il desiderio che a tale regime di sopraffazione sia posto un termine, unica condizione per tornare a vivere in pace. Ma davvero siamo capaci ad acquisire il punto di vista di un popolo schiacciato e impotente se non abbiamo mai vissuto una simile situazione?

Solo persone che hanno conosciuto una prova del genere – con il nazismo, con lo stalinismo […], nell’ex Jugoslavia, in Ruanda, nelle guerre del Golfo con le loro attuali conseguenze in Iraq e in Siria, e ovunque i rifugiati di queste atrocità cercano invano un rifugio – sarebbero in grado di comprendere veramente (Wénin, Salmi censurati, p. 100).

Oggi potremmo chiedere ai profughi ucraini o agli altri immigrati in fuga da analoghe condizioni di violenza se sono in grado di comprendere meglio di noi questi versetti terribili. Chi non si è mai trovato in simili frangenti e li ha solo guardati più o meno distrattamente alla televisione potrà solo immaginare la violenza disumana che continua a essere subìta e inflitta. Potrà essere scandalizzato dalle parole del salmista, ma è la violenza in sé o le parole a dover suscitare tale reazione?

E che cosa capita censurando i versetti finali? Se si dovesse omettere la finale di qualunque testo poetico, si griderebbe allo scandalo, perché la sinteticità di una poesia dà un peso altissimo a ogni parola. Tanto più a quelle conclusive allora, che tendono a dare senso all’intero testo. In questo caso, espungendo i versetti finali, il salmo perde il suo tono di supplica per assumerne uno solamente nostalgico per un passato perduto. Ma assieme al passato, se si perde il finale si perde anche la rivolta di fronte alla violenza e la speranza di veder ristabilita la giustizia. Edulcorare il linguaggio non cambia la realtà della ferocia dell’uomo contro i suoi simili. Chi le pronuncia è in una situazione di impotenza, che queste parole contribuiscono ad attestare. Eliminarle è ridurre le vittime al silenzio, aggiungendo violenza a violenza. I vv. 8-9 non inneggiano all’omicidio, ma gridano il bisogno di giustizia di chi si trova in una condizione di dipendenza e inazione.

Gli studiosi fanno inoltre notare come i toni di vendetta possiedano paradossalmente la forza della fedeltà a Dio, a cui ci si continua a rivolgere quando tutto sembra giocare contro. Esprimono cioè il desiderio che il male non abbia l’ultima parola e, consegnando a Dio il lamento per la situazione di miseria, gli affidano anche il giudizio che solo a lui spetta su coloro che ne sono la causa:

“[…] questi salmi prendono sul serio la radicata convinzione biblica secondo cui nella preghiera si può dire tutto, veramente tutto, purché lo si dica a Dio, che per noi è padre e madre. Dalla psicologia abbiamo infatti appreso che l’angoscia inibita e l’aggressività repressa non solo non superano l’attitudine alla violenza, bensì la potenziano […] I salmi non inibiscono tali sentimenti, ma li esprimono davanti a Dio e li consegnano nelle sue mani” (Zenger, Un Dio di vendetta?, p. 139).

I salmi imprecatori sono una preghiera in forma poetica che mette uno specchio davanti agli autori di violenza. Per questo possono aiutare le vittime a restare salde nella loro dignità di persone e a sostenere senza violenza la loro protesta e la paura del nemico. Il fatto che nei salmi la vendetta sia demandata a Dio significa infatti la rinuncia a una propria personale vendetta.

Non va poi dimenticato che i brani biblici vanno recepiti canonicamente, ovvero vanno compresi assieme a testi analoghi e non presi isolatamente. A tal proposito ricordiamo la lettera del profeta Geremia ai deportati in cui li si esorta a pregare per Babilonia:

Cercate il benessere del paesein cui vi ho fatti deportare, e pregate per esso il Signore; poiché dal benesseresuo dipende il vostro (29,7).

 

 

Conclude Wénin: “Di fronte alla violenza che attinge la sua forza nel desiderio di vendicarsi di un’ingiustizia reale o solo avvertita come tale, l’AT indica la via della parola. È ad essa che dà corpo nei salmi di vendetta o di esecrazione. Essi esprimono questo desiderio rabbioso a Dio, come a un familiare davanti al quale si osa esporsi, mettersi a nudo con una grande fiducia, perché si sa che non giudicherà ma comprenderà la sofferenza che genera quella rabbia. Il fatto che questo sentimento possa essere espresso, come invitano a fare questi salmi, sotto forma di preghiera significa che non è affatto indegno dell’uomo e di Dio, come lo sarebbe invece il passaggio all’atto distruttivo […]. Ai salmisti che osano credere che nulla di umano sia estraneo a Dio, quest’attimo apre uno spazio di preghiera dove liberare la belva della loro aggressività […]. I salmi violenti offrono al lettore un accesso verso l’inumano che c’è dentro di lui, primo passo verso una possibile liberazione (pp. 104-5).

La preoccupazione di disturbare la preghiera con espressioni di rabbia e violenza dimentica che tali dimensioni sono presenti persino nelle fiabe della tradizione (non quelle edulcorate nelle versioni Disney e affini), in funzione educativa. Non è rimuovendo un versetto che si può cancellare la realtà che rappresenta. E invece di continuare a considerare la gente incapace di comprendere e quindi da tenere al riparo dalle formule difficili, meglio è fornire chiavi di lettura per attraversare le difficoltà – testuali, personali, sociali, politiche. Perché non solo viviamo in un mondo violento, ma noi stessi siamo violenti né siamo estranei ai processi che veicolano violenze piccole e grandi. Pronunciare queste parole forti di fronte a Dio nella preghiera è già una presa d’atto. E questo può aiutare. Le cesoie invece offrono l’immagine di una chiesa paternalistica che considera i fedeli un popolo infantile e da imbonire.

Soggiacente all’accantonamento dei salmi imprecatori sta in effetti un appiattimento edulcorato del dettato biblico come pure dello spessore esistenziale; un’interpretazione alla fine banalizzante della Scrittura, e prima ancora della stessa vita, del nostro e dell’altrui volto umano, e ultimamente di Dio medesimo e del suo impegno salvifico, riflesso di una fede che, preoccupata di coincidere con formulazioni dogmatiche ed etiche asettiche, ha da molto tempo tralasciato la forma specifica biblica della sua testimonianza originaria” (Vignolo nella prefazione a Zenger p. 9).

Quando Ungaretti affermava che la poesia è testimonianza di Dio anche quando appare una bestemmia non si riferiva ai Salmi imprecatori, ma certo conosceva le variazioni del sentire umano che in poesia vibrano su molti toni, né arretrano di fronte ad alcuna espressione che a tale sentire sappia dare voce. La Bibbia è parola di Dio in parole di uomini (e donne) e i Salmi tale parola in forma poetica. Forse è sufficiente problematizzare il primo assunto, dato troppo per scontato e mai compreso adeguatamente. La Bibbia è un libro che scotta: maneggiare con cura.

 

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