Due donne a confronto
Scritto da NORMA ALESSIO
“Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento” è il titolo di una mostra in corso a Roma a Palazzo Barberini fino al 27 marzo 2022, dove sono poste a confronto diretto diverse opere del periodo preso in considerazione, i cui più famosi autori sono appunto Caravaggio e Artemisia Gentileschi. Tutti questi interpretano il momento truculento della decapitazione del generale Oloferne, come raccontato nel libro di Giuditta. Questo è uno scritto databile intorno al II secolo a.C., inserito nel canone biblico solo nel 1545, durante la terza sessione del Concilio di Trento. Il suo contenuto non ci fornisce una cronaca di avvenimenti realmente accaduti, nemmeno la geografia: è un racconto di fantasia, per dimostrare che il popolo di Dio vince su ogni nemico anche per mano di una donna.
(Gdt. 10,1-5) Quando Giuditta ebbe cessato di supplicare il Dio d’Israele ed ebbe terminato di pronunciare tutte queste parole,si alzò da terra, chiamò la sua ancella e scese nella casa dove usava passare i giorni dei sabati e le feste.Qui si tolse il cilicio di cui era rivestita, depose le vesti della sua vedovanza, si lavò il corpo con acqua e lo unse con profumo denso; spartì i capelli del capo e vi impose il diadema. Poi indossò gli abiti da festa, che aveva usato quando era vivo suo marito Manasse. Si mise i sandali ai piedi, cinse le collane e infilò i braccialetti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto bella, tanto da sedurre qualunque uomo l’avesse vista. Poi affidò alla sua ancella un otre di vino e un’ampolla d’olio; riempì anche una bisaccia di farina tostata, di fichi secchi e di pani puri e, fatto un involto di tutte queste provviste, glielo mise sulle spalle.
(Gdt. 13,15-16) “(Giuditta) Allora tirò fuori la testa dalla bisaccia e la mise in mostra dicendo loro: «Ecco la testa di Oloferne, comandante supremo dell’esercito assiro, ed ecco la cortina sotto la quale giaceva ubriaco; il Signore l’ha colpito per mano di una donna.Viva dunque il Signore, che mi ha protetto nella mia impresa, perché costui si è lasciato ingannare dal mio volto a sua rovina, ma non ha commesso peccato con me, a mia contaminazione e vergogna».
Gustav Klimt, un pittore viennese che visse a cavallo tra ottocento e novecento, fondatore del secessionismo, una corrente artistica caratterizzata da una forte sensualità e opulenza estetica – che si inserisce nel contesto delle avanguardie degli inizi del XX secolo – ha utilizzato questi soggetti stravolgendo il messaggio originale, in due versioni che non hanno alcun intento religioso e non intendono mostrare il coraggio della donna ebrea capace di vincere i nemici del popolo di Dio, grazie alla sua intelligenza e bellezza e grazie alla provvidenza divina: Giuditta I del 1901, conservata alla Österreichische Galerie Belvedere di Vienna (ora in esposizione a Palazzo Braschi a Roma fino al 22 marzo 2022) e Giuditta II del 1909, alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro di Venezia.
In entrambi dipinge la figura di Giuditta, una donna, nel momento immediatamente successivo alla decapitazione di Oloferne, e di un uomo, Oloferne, privi degli attributi menzionati dal racconto biblico (la spada, la serva che l’accompagna, il sangue che cola, …) altrove sempre presenti, soprattutto nell’arte tra il ‘500 e il‘600.
In Giuditta I la figura di Giuditta è tagliata all’altezza del bacino, la posa frontale con braccio piegato e posto davanti al suo corpo, come una sbarra, con la mano che sembra accarezzare la testa mozzata di Oloferne ai limiti del quadro. Sullo sfondo vi è un paesaggio stilizzato dorato,con alberi di fico e viti, tratto da un fregio assiro del Palazzo di Sennacherib a Ninive; Giuditta stessa appare come decapitata dall’effetto dell’ornamento che porta al collo, simbolo di una femminilità che rivolge lo spirito distruttore anche contro di sé; nella cornice di rame a sbalzo vi è il titolo: Jvdith Holofernes. L’interpretazione di Klimt della figura della Giuditta biblica propone, in questa versione, con delicata attenzione alla figura originale che per prima vinse una battaglia dei generi, un’immagine che ritrae una donna forte,con abilità seduttiva, che guarda con decisione di fronte a sé, dall’alto al basso verso l’osservatore, con un’espressione di sfida e una certa soddisfazione in seguito all’omicidio. Trasforma il mito in un’allegoria di situazioni a lui contemporanee, il genere femminile che seduce l’uomo di potere per poi distruggerlo, la donna per eccellenza che fa “perdere la testa all’uomo” e che ha scoperto la propria sessualità, che rifiuta la propria marginalità sociale.
La Giuditta II è raffigurata di tre quarti a grandezza naturale, in un formato verticale, e avanza verso sinistra, l’espressione tesa esasperata ancora di più dalla crudeltà e freddezza del suo personaggio, priva di quella certa dolcezza della prima Giuditta; le mani, come isteriche, aggrappate alla gonna mentre trattengono per la chioma la testa decapitata; tutto è permeato da una tensione implacabile, non si tratta più di un fascino che incanta, ma di una bellezza malvagia, capace di stregare.
Di fronte a questa rappresentazione alquanto provocatoria della Giuditta delle Sacre Scritture, alcuni contemporanei di Klimt preferirono identificarla con la tentatrice Salomè: donne simili nella forma, quanto distanti nel significato. Forse la causa è da ricercare nel successo che la figura di Salomè, che aveva determinato la decapitazione di Giovanni Battista, aveva acquisito verso la fine dell’Ottocento; infatti Salomè appariva come prototipo della forza perversa della femminilità. Giuditta, invece, emblema della donna moderna del novecento che rivendica i suoi diritti, è donna indipendente, emancipata, padrona della propria volontà e dei propri desideri.
Altri artisti hanno raffigurato l’episodio in momenti diversi dell’esecuzione, come nella piccola tavola a tempera “Ritorno di Giuditta a Betulia” del 1472 di Sandro Botticelli, conservata agli Uffizi a Firenze, nella quale Giuditta tiene nelle mani la sciabola e un ramoscello di ulivo in segno di pace.
In altri Oloferne compare quasi sempre nudo o seminudo, come in quello attribuito ad Andrea Mantegna del 1495-1500 esposto alla National Gallery of Art di Washington, dove appare solo il suo piede.
Altra originale rappresentazione, del 1508, è quella di Michelangelo in uno dei quattro pennacchi affrescati nella Cappella Sistina, in cui Giuditta è di spalle, lasciando così lo spettatore libero di immaginare la sua fisionomia, e Oloferne steso nudo visto di scorcio sapientemente dipinto privo della testa.
È del 1979 un collage dell’artista americano Cy Twombly, il cui nome reale era Edwin Parker Twombly jr., dove non sono più identificabili forme e immagini tratte dalla realtà – non compare nessuna figura – ma solo dei segni coloratie la scritta “Death of Holofernes” che ne definisce il tema, richiedendo allo spettatore di attingere alle proprie conoscenze per comprendere l’opera.
La Giuditta che emerge da queste opere è una figura diversa da quella che più conosciamo, presenta caratteri originali e interessanti e ci porta a scoprire nell’arte anche altre Giuditta.