Genealogia al femminile

3 Dicembre 2022Lorenzo Cuffini

Scritto da  MARIA NISII.

 

1 Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. 2 Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, 3 Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, 4 Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, 5 Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, 6 Iesse generò il re Davide.

Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa7 Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, 8 Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, 9 Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, 10 Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, 11 Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.

12 Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, 13 Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, 14 Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, 15 Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, 16 Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.

 

Tamar, Racab, Rut, Betsabea e Maria: 5 donne in 14 generazioni moltiplicate per 3 tappe storiche. “Generò daè la formula che ne introduce il nome, rompendo lo schema diversamente tutto al maschile. Le prime tre appartengono al primo ciclo da Abramo a Davide, la quarta al secondo tempo che va da Davide alla deportazione a Babilonia, la sola Maria per l’ultima sezione dalla deportazione al Messia.

La parola che la traduzione Cei indica come “genealogia” corrisponde a biblosghenéseos, “libro della genesi” o “delle origini”. Un’espressione che rimanda al libro delle generazioni (sefertoledot) di Genesi, scandito dalla formula “queste le origini…” (Gen 2,4), “questo è il libro della genealogia di Adamo” (5,1), “questa è la storia di Noè” (6,9), “questa è la discendenza dei figli di Noè” (10,1), ecc.

In questa genealogia di padri, Matteo inserisce quattro madri: Tamar, che si finge prostituta per avere una discendenza dal suocero; Racab, famosa prostituta di Gerico che dà ospitalità agli esploratori nel libro di Giosuè; Rut, la moabita che seduce il parente per farsi sposare e ridare dignità alla suocera; infine Betsabea, moglie di Uria l’ittita, con cui Davide commette adulterio. Messe così in fila queste quattro figure femminili sono accomunate da unioni irregolari, e tuttavia è da tali unioni che passa la discendenza del Messia. Si tratta inoltre di donne straniere, ovvero non appartenenti a tribù israelitiche, un fatto che in epoca post-esilica sarebbe stato causa di divorzio ma che dona altresì un tratto universalistico alla genealogia. Altrettanto irregolare è la quinta figura, Maria, la cui gravidanza ha origine fuori dall’unione coniugale. Non condannata, tale irregolarità risulta piuttosto provvidenziale nella storia sacra, mostrando come la salvezza attraversi strade anche tortuose.

Salta facilmente all’occhio come, invece delle più note matriarche (Sara, Rebecca, Lia e Rachele), siano altre donne ad essere ricordate. Eppure anche le prime si sarebbero prestate, con le loro storie turbolente e mai lineari. Se quindi è su queste che è caduta la scelta, varrà la pena di fermarsi a comprenderne il senso.

 

Giuda e Tamar (scuola di Rembrandt, 1650-1660 ca.)

 

Tamar la giusta

La storia di queste donne sembra suggerire come il canale “adeguato” per il seme che donerà una discendenza non sia mai quello atteso. In Gen 38, Tamar viene data in moglie a due dei figli di Giuda, in quanto la legge del levirato prevedeva che il fratello in vita desse una discendenza al fratello defunto. Dopo la morte del primo però, il secondogenito si rifiuta di fare da sostituto del fratello e disperde il seme, ma su questo il narratore è lapidario: Ciò che egli faceva dispiacque al SIGNORE, il quale fece morire anche lui (v. 10). Morto anche il secondogenito, Giuda, per timore di veder morire anche il terzo, rimanda Tamar dal padre promettendole l’ultimo figlio quando questi fosse cresciuto. In realtà quello che non dice alla donna, il testo lo riferisce al lettore: «Badiamo che anche egli non muoia come i suoi fratelli» (v. 11b). Naturalmente il tempo passa e nessuno si ricorda più di Tamar.

Tamar vuole essere madre in casa di Israele. Vuole appartenere a quella famiglia non ancora gente, che si è separata da tutti i culti delle divinità locali per seguirne uno suo speciale. […] Tamar vuol dare figli a chi si dichiara discendente del primo essere umano della terra, creato insieme a tutto l’infinito. In lei si è acceso l’entusiasmo di credere, senza nessun invito, solo per contagio. (Erri De Luca, Le sante dello scandalo, p. 20-21)

Venendo a sapere della vedovanza di Giuda, Tamar decide quindi di fare da sé: Allora ella si tolse le vesti da vedova, si coprì d’un velo, se ne avvolse tutta e si mise seduta alla porta di Enaim che è sulla via di Timna; infatti, aveva visto che Sela era cresciuto, e tuttavia lei non gli era stata data in moglie. Come Giuda la vide, la prese per una prostituta, perché ella aveva il viso coperto. Avvicinatosi a lei sulla via, le disse: «Lasciami venire da te!» Infatti non sapeva che quella fosse sua nuora (Gen 38,14-16). Abbandonata al suo destino, la donna prende l’iniziativa di un’azione coraggiosa. A dispetto dei tempi, come vedremo, non sono poche le donne intrepide ricordate nel testo biblico.

“Giuda abbocca – le sue voglie sessuali non tollerano dilazioni, mentre dal canto suo ha lasciato languire Tamar come una vedova senza figli per un tempo indefinito”, commenta Robert Alter (L’arte della narrativa biblica, p. 19). Giuda ha fretta e non sa attendere, mentre ha abbandonato la nuora a un’attesa senza fine e senza speranza. È in tale contrasto che il racconto riferisce la risposta di Tamar, che contratta come una donna d’affari, esigendo un pegno: Lei rispose: «Che mi darai per venire da me?» 17 Egli le disse: «Ti manderò un capretto del mio gregge». E lei: «Mi darai un pegno finché tu me lo abbia mandato?» 18 Ed egli: «Che pegno ti darò?» L’altra rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Egli glieli diede, andò da lei ed ella rimase incinta di lui (vv. 16b-18).

Quando Tamar farà sapere della gravidanza, Giuda la ritiene colpevole di adulterio (in quanto ancora legata alla famiglia del marito, benché vedova) e la condanna al rogo. Ma mentre la stanno conducendo al supplizio, lei esibisce i pegni affinché il suocero possa riconoscerli.

È una grande lezione: neanche davanti al rogo Tamar denuncia l’uomo che l’ha messa incinta. Lui è il capo di quella gente alla quale vuole appartenere e non ne compromette la reputazione. Gli manda solo a dire: “Hakher, na”, riconosci tu. È lei a metterlo alla prova: se fingerà di non riconoscere i pegni per salvarsi l’onore, profanerà quella divinità superiore di cui si dichiara servo. (Le sante… p. 22)

Giuda riconosce i pegni e assieme la giustizia di sua nuora Tamar: Giuda li riconobbe e disse: «È più giusta di me, perché non l’ho data a mio figlio Sela» (v. 26).

Riconosce che esiste un diritto che è superiore alle leggi, che le leggi sono fatte per gli esseri umani, per adattarsi a loro e non viceversa. Giuda insegna, con grandezza d’animo e prontezza di riflessi, che un conflitto tra articoli di legge e umanità va risolto in favore della vita. […] Non ha solo obblighi la donna nelle scritture sacre, ha dei diritti fondati sulla sua superiorità naturale di generare vita. (Erri De Luca, Nocciolo d’oliva, p. 72)

Tamar è una donna d’azione più che di parole. Non ci vengono raccontati i suoi sentimenti quando viene rimandata a casa dal padre, ma li possiamo desumere dalla reazione che ha mostrato a tempo debito. Prima di lei, le matriarche che la genealogia matteana non ricorda, hanno invece espresso in parole il dolore per la mancanza di una discendenza. Altre donne capaci di prendere l’iniziativa di fronte a una situazione di stallo, in cui l’uomo appare soprattutto soggetto passivo.

 

MatthiasStom o Stomer (1600ca. – dopo 1652), Sara conduce Agar da Abramo

 

Sara disse ad Abram: «Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli» (Gen 16,2). Il testo ebraico dice letteralmente: “Forse mi costruirò attraverso di lei”. La parola è banah la cui radice significa figlio, ben. Le donne “costruivano” se stesse, donando una discendenza alla casa. E Sara si rifiuta di accettare il ruolo di sterile solo perché non riesce ad avere un figlio, rifiuta la “demolizione” in cui è relegata la donna, unica responsabile per la mancanza di figli nell’Antico Testamento, al punto che l’aggettivo è attestato solo al femminile.

Chi non ha figli è come se fosse morto, ricorda la tradizione: Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!» (Gen 30,1). E anch’essa propone al marito la schiava perché generi al suo posto, una pratica doppiamente umiliante perché implicava offrire una concorrente al proprio uomo, in questo caso già poligamo.

 

William Dyce, Giacobbe e Rachele (1853)

 

 

Nonostante la difficile maternità, Rachele è ricordata come la madre che piange i suoi figli e non vuole essere consolata in Geremia 31,15 a proposito dei deportati dell’esilio a Babilonia. Ma poi ancora nel vangelo di Matteo (2,13-18) in riferimento alla strage degli innocenti. Rachele dapprima sterile e poi due volte madre, che muore dando alla luce Beniamino, diventa madre del popolo ma altresì immagine di un dolore che non si rassegna. Un dolore che non si può sedare con facili consolazioni. Un dolore che la storia non ha ancora mai smesso di infliggere alle donne nelle tante forme in cui solo l’uomo sa essere così creativo.

 

 

 

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