Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (4).

16 Luglio 2017Lorenzo Cuffini

Riscrittura a puntate per l’estate

Scritto da MARIA NISII.

Nella mente della madre risuonano ancora le parole del rabbi: “non abbandonarlo!”.“Ci sono almeno un paio di settimane prima della nostra partenza, prima d’allora Dio farà sicuramente un miracolo” (89), si dice Deborah, rammentando le parole del rabbi di non abbandonare suo figlio. Ma solo un miracolo potrebbe salvarlo dall’abbandono in patria deciso dal padre. “I morti nell’aldilà non aiutavano, il rabbi non aiutava, Dio non voleva aiutare” (89): Dio al terzo posto, dopo i morti e il rabbi, un Dio che può ma non vuole aiutarli. I miracoli capitavano solo nei tempi antichi -pensa Deborah – quando gli ebrei vivevano in Palestina; capitano anche oggi ma ci vuole fortuna e i figli di un maestro non ne hanno. Per lei la colpa è l’essere miserabile del marito.

Mendel rifiuta di andare dal rabbi: “io non ci credo. Nessun ebreo ha bisogno di un intermediario col Signore. Egli esaudisce le nostre preghiere se non facciamo niente di male. Se però facciamo del male, ci può punire” (90). Nelle parole di Mendel torna la ferrea legge della retribuzione che nel libro di Giobbe è sostenuta dagli amici; nelle parole di Deborah risuona invece la voce della moglie di Giobbe: Per che cosa ci punisce ora? Abbiamo fatto del male? Perché è crudele?” (90) e come Giobbe, Mendel risponde: “Tu lo bestemmi, Deborah”.

Intanto Mirjam è presa dal pensiero degli uomini e dalla fretta di vivere quell’estate prima del raccolto, ovvero fintanto che può ancora nascondersi in mezzo al grano. Ma in America ci sarebbero stati ancora più uomini! (77-9). Nella ragazza emerge fortissimo il desiderio per il maschile: a turno frequenta tutta la caserma e spesso si trova anche con due o tre soldati insieme. Sarà proprio questa la causa della sua follia, come il padre sosterrà dicendo che nella figlia era entrato un demone e che lui l’aveva capito vedendola quella prima sera col cosacco – una pazzia interpretata come forma di possesso demoniaco.

Roth ne ha fatto esperienza nella sua vita, prima con il padre e poi con la moglie. Nell’ambiente ebraico ortodosso della Galizia, la pazzia era considerata un castigo di Dio – anche Menuchim è chiamato l’idiota. La malattia della moglie aveva provocato in Roth una profonda crisi. Non era preparato ad accettare la disgrazia, sperava in un miracolo e si incolpava della malattia.

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Deborah sente la paura per l’abbandono imminente di Menuchim, fatto che significa lasciare il figlio ma anche contravvenire alle parole del rabbi. La casa “comincia a sfasciarsi… era marcia e non si sapeva” (95) – è la classica immagine personalizzata della casa, segno esterno e visibile di quanto avviene nei suoi abitanti. Mendel la cede ai vicini perché tengano con loro Menuchim – quella famiglia povera sembra a Mendel felice, immeritatamente fortunata.

Il piccolo “idiota” diventa irrequieto, come consapevole di quello che sta per succedere: “chi può dire quale tempesta di paure e ansie avesse da sostenere l’anima di Menuchim in quei giorni, l’anima che Dio aveva nascosto sotto l’impenetrabile manto dell’imbecillità” (97). Dio è naturalmente sempre impenetrabilmente responsabile di ogni cosa, come se affermarne l’esistenza, la presenza e la fede implicasse attribuirgli la responsabilità di quanto di male e di bene avviene. La parabola di Mendel è anche la messa alla prova di questo volto di Dio: “Dio è così grande, che la nostra cattiveria diventa piccolissima” (187), capisce infatti Mendel solo alla fine.

Deborah culla il figlio e aspetta il miracolo fino all’ultima notte, ma “la forza che dà la fede, non la trovava più, e a poco a poco l’abbandonavano anche le forze di cui l’uomo ha bisogno per reggere alla disperazione” (98). L’America ha perso tutto il suo fascino e appare improvvisamente una sventura. Il mattino della partenza la donna ha una crisi isterica e scende di nuovo dal carro per riabbracciare il figlio. La fede già debole di Deborah ha una nuova battuta d’arresto.

Durante il viaggio Mendel prega: “pregava a memoria, meccanicamente, non pensava al senso delle parole, il loro suono da solo bastava, Dio capiva che cosa significavano” (101). Di fronte agli altri viaggiatori nei giorni successivi appare ridicolo: “sorrisero dell’ebreo che saltellava e traballava nell’angolo, dondolava il busto avanti e indietro, eseguendo una misera danza in onore di Dio” (103) – forse misera, ma pur sempre una danza. Mendel perde il senso, ma continua ad aggrapparsi a Dio.

Nel frattempo la figlia si stringe al vetturino che si immagina delizie per la notte a venire – sono scappati dai cosacchi per trovarne subito molti altri.

Mendel ha paura dell’acqua che dovrà attraversare, ma sulla nave in partenza la osserva e ne trae conforto: “Eterna era. Mendel riconobbe che Dio stesso l’aveva creata… Giù sul suo fondo si attorcigliava Leviatano” (103-4) – il richiamo al Leviatano è richiamo a Genesi e a Giobbe (40,25ss), ma il mostro è la paura che è entrata in casa loro dopo la visita del dottore. Ma infine l’uomo si tranquillizza e mormora la benedizione per l’occasione: Mendel ha riconosciuto il Creatore e la sua opera, come Giobbe nell’ultima confessione (42).

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Gustave Doré, La distruzione del Leviatano

In territorio americano Mendel vede negli uomini in uniforme i nuovi cosacchi di sua figlia. Il figlio Sam invece gli pare sdoppiato in due, tra quello che era in Russia e quello che è ora in America, dunque ancora irriconoscibile. Nel giro turistico sul camion che il figlio fa fare ai suoi all’arrivo, Mendel si sente assalito da odori, suoni e immagini insopportabili – irriconoscibili ed estranee, per cui perde i sensi: “un fitto velo intessuto di fuliggine, povere e calore. Pensò al deserto, attraverso il quale i suoi padri avevano vagato quarant’anni. Ma almeno loro erano andati a piedi” (108). Il richiamo qui è all’Esodo e, come le prime generazioni di padri pellegrini che arrivavano in America, anche Mendel si rifà a quella memoria biblica, ma invece di vedere l’America come la “Terra Promessa”, per lui si tratta ancora di attraversare il “deserto”.

Ripresosi dallo svenimento, vede la sua immagine nello specchio ma riconosce se stesso solo dopo aver visto attorno a sé i familiari (109), perché sente di aver lasciato se stesso in Russia con Menuchim e anche tutti loro gli sono diventati estranei in quella terra straniera.

Roth ha vissuto il tramonto dell’impero asburgico: la perdita della patria è un tema presente in diverse opere.

(continua.)

  • Testo di riferimento: Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 [ed. or. 1930],

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