Giuda salvato dai libri
Scritto da LAURA ROBERTO.
Ci avviciniamo alla Settimana Santa, unico momento dell’anno liturgico in cui i Vangeli danno spazio a Giuda, uno dei Dodici, ma anche l’emblema del tradimento operato verso Gesù. Le riscritture possono offrirci interessanti spunti di meditazione su quest’uomo che incarna la difficoltà di scelta tra il bene e il male, opzione dialogica tutt’altro che netta.
Secondo lo scrittore Andrea Tarabbia è stata la letteratura moderna a salvare Giuda: la sua discussa figura avrebbe infatti suscitato la curiosità di molti autori contemporanei e li avrebbe spinti a tentate di colmare il vuoto lasciato dalle redazioni evangeliche che risultano essere scarne e spesso contraddittorie quando prendono in esame il traditore per eccellenza. Una delle opere più interessanti è La Gloria, di Giuseppe Berto.
Il romanzo può essere letto come una grandiosa arringa difensiva dell’Iscariota e, al tempo stesso, come il racconto di un amore non corrisposto. L’opera ripercorre tutto il percorso di vita del Nazareno, rinarrandolo attraverso la voce di Giuda che, a fatti ormai compiuti, tenta di spiegare in primo luogo a se stesso, e poi al lettore, quale complessità e profondità abbia raggiunto il suo rapporto con Gesù e quanto egli lo abbia amato.
La gloria a cui il titolo allude è il tema sotteso a tutta la narrazione. Il giovane Giuda è alla ricerca della gloria di Dio e della propria gloria; percorre la terra d’Israele in attesa di un segno che possa rivelargli la missione a cui è destinato, perché si sente un prescelto, un re perché appartenente alla stirpe di Davide. Ma è al contempo tormentato dai dubbi e dalle domande, non riesce a comprendere quale sia il disegno dell’Eterno in un’epoca di sottomissione e violenza politica e ipocrisia religiosa: “M’interrogavo, interrogando l’Eterno, e l’Eterno tacendo, dovevo concedere ch’io trovassi una sorta di gloria in tutto il mio penare, forse perversa. Orgogliose privazioni, ardite preghiere, nutrivano sconfinate ambizioni. Ero forte e coraggioso al pari di un re: non dovevo perdermi”.
Giuda non è un uomo pieno di sé, non cerca la gloria per apparire davanti agli altri ma la desidera piuttosto per compiere la missione a cui Dio lo ha destinato e, dopo l’incontro con Gesù al Giordano, il dover constatare di aver peccato per vanagloria, credendo di poter essere lui l’Unto del Signore, lo rattrista profondamente. Potrebbe provare odio e invidia per quell’uomo della sua stessa età, senza alcunché che lo renda differente e che pure è segnato da qualcosa di straordinario ed invece, paradossalmente, se ne innamora e lo segue, pensando, a quel punto, che accanto a lui sia forse possibile trovare quella gloria che tanto brama per sé: Allora, era tanto ignobile fantasticare d’un posto accanto a te sul trono della gloria? Dovevo forse immaginare che spettasse a Giovanni? O a Pietro? Chi tra noi si era dato più profondamente?
L’elemento più innovativo e toccante del romanzo risulta essere il sentimento d’amore che l’Iscariota nutre verso Gesù e che lo lega al maestro in maniera unica, rendendolo oggetto di invidia da parte degli altri discepoli pur facendolo sentire al contempo sempre in parte rifiutato.
Ero stato accolto, dunque, per quanto non lietamente. Riprese a camminare, e io al suo fianco, con rabbia, esultanza e ancora impazienza; perché le vie del Signore dovevano essere tanto tortuose? Perché questo rabbi tanto chiuso e distante? « Seguimi un po’ discosto» mi disse, senza nemmeno guardarmi. «Amo pensare camminando.» M’aveva sottomesso.
Come un innamorato tenuto in sospeso Giuda accoglie le concessioni del maestro con doloroso entusiasmo, ne è conquistato e ammaliato al punto da non poterne fare a meno, anche se si rende perfettamente conto di non essere trattato alla stregua degli altri discepoli, che Gesù chiama espressamente e guarda negli occhi. Eppure c’è qualcosa di unico e speciale nel legame che li unisce, c’è un patto di dono totale tra loro e quando sarà il momento, Giuda sarà pronto a donare la vita per quell’enigmatico rabbi; così, se pur con dolore, accetta di sentirsi diverso dal gruppo, in disparte, trascurato da Gesù, ricordato solo nel momento in cui il maestro fa riferimento al patto di dono totale che li unirà nella morte. Ricorda con rimpianto i momenti in cui era l’unico seguace del Nazareno, il primo tra gli apostoli, e non doveva dividerne le attenzioni con nessuno, in particolare con Giovanni, che odia sempre di più. Perché se è di un innamoramento che stiamo parlando, nulla può ferire di più che vedere l’oggetto del tuo sentimento tra le braccia di qualcun altro, e al giovane Giovanni era concesso questo atto di tenerezza: “Lo odiavo sempre di più Giovanni, come lui odiava me, tuttavia entrambi eravamo consapevoli che quando si odia non si odia uno qualsiasi, e che l’odio è un torbido miscuglio del quale fa parte anche l’amore. Era lui, il Rabbi, che in qualche modo ci teneva insieme”. E’ proprio quest’odio reciproco, secondo l’Iscariota, a motivare le accuse che l’evangelista scriverà contro lui nel suo Vangelo.
Ma qualcosa nel piano di Gesù non funziona, constata amaramente Berto per bocca di Giuda, il male non è sconfitto, il dubbio non è svelato, il dolore e l’ingiustizia non sono definitivamente placati:
Io sono la tenebra, Gesù. Ma a Te, che sei la luce, dagli abissi della mia oscurità continuo a chiedere: nella storia della tua morte, che sarebbe dovuta essere gloria e vittoria sulla morte, io, Giuda, da Te segnato come figlio di perdizione, sono stato semplicemente strumento affinché si adempisse una scrittura, cioè fosse la misteriosa volontà dell’Eterno? O piuttosto: c’era qualcosa che ci accomunava, qualcosa che visto come sono andate le cose, non s’è adempiuto, se non nella conclusione minore che siamo morti tutti e due quasi insieme? Forse, rabbi, a mete più modeste era destinata la nostra grandezza. ma una volta deciso che il punto d’arrivo doveva essere la gloria, non fui io a mancare.
La gloria tanto attesa non viene, infine, raggiunta, il male continua ad affliggere il mondo, Giuda permane nella propria dannazione e ipotizza che il maestro abbia puntato ad un obbiettivo troppo alto da raggiungere, mettendo in dubbio ancora una volta la divinità dell’uomo amato al punto da voler condividere con lui anche l’intimità della morte. E’ un messia fallimentare quello narrato da Berto, incapace di portare a compimento quanto annunciato:
La mia dedizione era stata fin dal principio senza limiti: se Tu davi la Tua vita per gli altri, perché non avrei dovuto io dare per Te la vita mia, o qualsiasi altra cosa mi fosse stata richiesta? Avevi preteso tutto, e tutto Ti era stato dato, ma poi, al momento di raggiungere lo scopo, sembravi non saper che farne.
L’opera di Berto, pubblicata pochi mesi prima della sua morte, sembra essere una sintesi degli interrogativi che ne hanno afflitto la vita: è possibile essere riscattati da una scelta politica risultata fallimentare? C’è spazio di riabilitazione anche per i vinti? Giuda è specchio di ogni uomo che vive al limite le proprie passioni, accettando per questo di essere messo ai margini, di essere considerato falso e traditore, disposto ad ogni sofferenza pur di non cedere all’incoerenza. L’Iscariota è dunque riabilitato all’interno di una storia in cui, al contrario, tutti gli altri sono condannati; la morte non è più dovuta alla disperazione, ma alla conquista della pace. Si assiste in questo scritto all’estrema vittoria del vinto per eccellenza, in una rilettura che colmando gli spazi bianchi lasciati dalla narrazione evangelica fa acquisire un nuovo significato all’intera vicenda del Nazareno, privandolo delle caratteristiche divine, evidenziandone le fragilità ma anche il grande carisma, e riabilitando l’Iscariota.
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.In copertina: Caravaggio, Cattura di Cristo ,1602 ( particolare)