Gli ebrei e la croce.

5 Maggio 2017Lorenzo Cuffini

Scritto da MARIA NISII.

“Il mio nome è Asher Lev. Sono io l’Asher Lev di cui avete letto nei giornali e nelle riviste, di cui tanto parlate durante le vostre cene di lavoro e ai cocktail, il famigerato e leggendario Lev della Crocifissione di Brooklin.”

(Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, Garzanti, 1991 [prima ed. 1972], p. 11).

Chaim Potok è cresciuto in un ambiente ebraico ortodosso, sebbene non chassidico, ma attribuisce al giovane pittore talentuoso Asher Lev un’identità da chassid ladover (ebraismo ultraortodosso) e molti dei conflitti che lui stesso ha vissuto. A Potok appassionato di letteratura laica come Lev di pittura, entrambe le famiglie cercano di contrastare le propensioni artistiche. Se l’autore sceglierà di diventare rabbino, lascia tuttavia al suo personaggio la libertà di una via diversa dalla propria: Asher Lev sarà un pittore di successo, ma per una curiosa e drammatica coincidenza raggiunge l’apice della sua carriera con le crocifissioni.

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La prima volta che ancora ragazzino scopre in un museo quadri di crocifissioni, è con il linguaggio chassidico che Gesù gli viene presentato: “i gojim credono che sia il messia. I gojim credono che sia il figlio del Ribbono Shel Olom. Fanno dei quadri che lo ritraggono perché per loro è sacro” (149)[1]. La madre asseconda la passione del figlio, contrastata dal padre perché “la pittura è per i gojim. Gli ebrei [osservanti] non disegnano né dipingono” (150). Ma Asher prova una strana attrazione per quei quadri, che torna più volte a rivedere e poi a copiare, accorgendosi dello sguardo stupito della gente che vede in lui un bambino con papalina nera e boccoli copiare quadri di Gesù. Quando il padre scopre quei disegni è furioso: com’è possibile che il figlio non sappia quanti ebrei erano stati uccisi per “quell’uomo” durante le Crociate e poi da Hitler “senza grandi proteste del mondo”! (151). Ma quando ormai adulto e pittore di successo, il padre decide di recarsi a una personale dedicata al figlio, il suo orgoglio si tramuta in vergogna e dolore, perché vedere rappresentata la sua famiglia in una crocifissione è qualcosa “al di là di ogni comprensione… La crocefissione era stata in un certo modo responsabile dell’assassinio di suo padre una vigilia di Pesach[2](309). Ad Asher non resta che lasciare la sua famiglia e la sua comunità, esiliato per un talento capace di causare tanto dolore.

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I figli, si sa, cercano altre vie spesso opposte a quelle dei padri, come nel Giuda di Amos Oz fa Shemuel, un altro giovane ebreo che porta faticosamente avanti la sua tesi di dottorato intitolata “Gesù in una prospettiva ebraica”. Nonostante il professato ateismo, il ragazzo è affascinato da questa figura: “Non credo neanche lontanamente al fatto che Gesù fosse Dio o figlio di Dio. Ma lo amo. Amo le parole che ha usato, come, ad esempio Se dunque la luce che in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra (Matteo 6,23) o L’anima mia è triste fino alla morte (Matteo 26,38)…” (131). Anche qui il padre, figura assente e dunque irrilevante nel passato e presente del figlio, non può capire questo interesse, che esce dal proprio orizzonte culturale e personale: “Nella mia città natale, Riga, noi ebrei eravamo abituati a voltare lo sguardo dall’altra parte ogni volta che passavamo davanti a un’immagine del crocifisso. Tu una volta mi hai scritto che per te Gesù era uno dei nostri. Faccio molta fatica ad accettare questa cosa: quante condanne, quante persecuzioni, quante sofferenze, quanto sangue innocente hanno versato coloro che ci odiano in nome di quell’uomo!” (116).

 

Come non ricordare allora le crocifissioni di Marc Chagall, ebreo russo trapiantato in occidente, che in quelle tele richiama la persecuzione ebraica, facendo di Gesù l’ebreo martirizzato dagli stessi cristiani. Epurato di ogni elemento iconografico che possa rimandare al mondo cristiano o alle tradizionali rappresentazioni della crocifissione, il Gesù di Chagall indossa il tallit (scialle ebraico per la preghiera) ed è circondato dai simboli della sofferenza universale, e di quella ebraica in particolare, quali la figura dell’ebreo errante (personaggio leggendario che simboleggia l’eterna fuga degli ebrei per l’accusa di deicidio), la menorah (candelabro a 7 braccia), il rabbino che stringe il rotolo della Torah (il Pentateuco, ovvero i primi cinque libri della Bibbia), la scritta sulla croce in ebraico e in lettere gotiche da pamphlet nazista antisemita.

Come Asher Lev, dove è più volte richiamato, anche Chagall è stato criticato dal suo ambiente, ma a queste critiche ha risposto con decisione: “Non hanno mai capito chi era veramente questo Gesù. Uno dei nostri rabbini più amorevoli che soccorreva sempre i bisognosi e i perseguitati. Gli hanno attribuito troppe insegne da sovrano. E‘ stato considerato un predicatore dalle regole forti. Per me è l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi”.

Marc Chagall, Crocifissione bianca (1938)
Marc Chagall, Crocifissione bianca (1938)

 

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  • Ancora su Gesù e gli ebrei, un interessante articolo di Joseph Sievers:

http://www.nostreradici.it/sievers.htm

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  • Note:

[1]             I gojim sono i non ebrei, mentre Ribbono Shel Olom significa Padrone dell’Universo ed è una delle tante parafrasi usate per dire Dio, di cui non è consentito pronunciare il nome.

[2]             Pesach è la pasqua ebraica.

  • Le immagini sono tratte da :
  • My Name is Asher Lev – A Theatrical Adaptation  https://macaulay.cuny.edu/eportfolios/artsandculture_theatre/2013/01/15

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