I sommersi e i salvati

3 Ottobre 2020Lorenzo Cuffini

 

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

 

Il titolo, I sommersi e i salvati, preso in prestito da un libro di Primo LEVI, evidenzia bene le due categorie di persone che sono presenti nell’avvenimento dell’Antico Testamento del Diluvio universale e della “punizione di Dio agli uomini”, raccontato nel capitolo 6 della Genesi ai versetti 12:

Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra”, 17 “Eccoio manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà” e al capitolo 7, versetto24 “Così fu sterminato ogni essere che era sulla terra: con gli uomini, gli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca”.

Le immagini che troviamo rappresentate nell’arte sono in alcuni casi quelle dell’arca quale oggetto simbolo della salvezza, soprattutto nell’arte cristiana delle catacombe; in altri l’arca durante la costruzione oppure con il corteo degli animali in coppia che entrano al suo interno. L’arca è normalmente raffigurata come Dio disse a Noè nei versetti 15-16, sempre del capitolo 6, costruita come una casa che doveva galleggiare sull’acqua:

“Fattiun’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore”.

Il racconto del diluvio veniva presentato, soprattutto nel periodo medioevale, come monito in vista del Giudizio Universale e le rappresentazioni trascuravano gli aspetti materiali, limitandosi ai dettagli considerati necessari alla simbolizzazione dell’evento e alla trasmissione evidente del messaggio salvifico. In alcune interpretazioni artistiche possiamo cogliere bene in che modo vengono evidenziate le due destinazioni: l’annientamento dei corrotti e la salvezza dei pochi eletti o giusti. Ho scelto di soffermarmi sulle opere di due artisti che hanno evidenziato i comportamenti degli uomini destinati a morire e che tentano invano di entrare nell’arca: Paolo di Dono detto Paolo Uccello e Michelangelo Buonarroti. Il primo a Firenze, nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella (1430) e il secondo a Roma, nella volta della Cappella Sistina (1508-1510).

 

Nell’affresco di Paolo Uccello, inserito in una lunettaa monocromo o verdeterra, riconosciamo a sinistra l’arca dalle assi di legno che la compongono e vediamo chi si aggrappa ai legni, chi sprofonda nei flutti; a destra la stessa arca è rappresentata all’esterno, ormai in salvo, e ciò che succede al di fuori, durante il riversarsi dell’acqua e dopo, quando Noè deve accertarsi se tutto è finito: due episodi, ma con lettura univoca dell’evento biblico. La scena appare irreale per i colori verdi e i due punti di fuga della prospettiva utilizzati. L’artista evoca una natura impetuosa, pronta a manifestare la sua terribile forza con saette, turbini e vento, mentre le rigide cortine lignee della maestosa arca disegnano una velocissima fuga prospettica verso il fondo. I personaggi appaiono come stretti tra cielo e terra, tra il primo piano e il fondo; qui si annidano, tra arditi scorci, cadaveri giacenti, uomini terrorizzati che sembrano volersi aggrappare alla nave, altri che trovano un rifugio di fortuna in una botte, altri ancora che provano a domare le acque sui loro cavalli. L’impianto prospettico dello spazio genera un tratto di profondità che, con l’aiuto delle raffiche di vento, trascina addirittura gli uomini verso il basso. Nella raffigurazione dell’arca, Paolo Uccello colloca l’una accanto all’altra le due scene separate nello spazio: a sinistra, l’avanzare dei flutti e a destra il loro rifluire. Con un riferimento ai criteri delle raffigurazioni medievali, Noè non è inserito nell’inquadramento prospettico, ma sovrasta gli avvenimenti uscendo dall’evento scenico poiché ha stretto un patto d’alleanza con Dio e ciò lo preserva dalla fine, diversamente dall’umanità che s’inabissa.

Nel dipinto di Michelangelo vediamo in secondo piano, sullo sfondo, l’arca, mentre in primo piano è data molta enfasi a ciò che succede alle persone che rimangono. Nella divisione dell’umanità in eletti e reprobi, egli interpreta il testo biblico come tragedia umana, mettendo da parte la questione del concetto di grazia. La scena drammatica promana un senso di angoscia e terrore: Dio che scatena la sua ira con una saetta che cade sulla tenda (ora non più visibile per lo stacco di intonaco e colore in corrispondenza). Distinguiamo diversi gruppi di persone che hanno atteggiamenti o comportamenti che dicono come possano essere le reazioni dell’uomo in caso di catastrofe inaspettata. Michelangelo sottolinea la raffigurazione degli uomini disperati destinati all’annientamento, perché esclusi dalla grazia di Dio; sono la manifestazione della lotta per la sopravvivenza, del soccombere e della perdita della speranza di poter sfuggire al diluvio. Al centro dell’affresco c’è una barca che galleggia sicura, l’arca, mentre una piccola imbarcazione si sta rovesciando durante una lotta tra alcune persone; a destra un padre sorregge il figlio nella speranza di strapparlo alla morte; su uno sperone di roccia e sotto una tenda stanno altre persone con l’estrema illusione di salvarsi e c’è chi guarda verso l’abisso, inesorabile meta finale; a sinistra un insieme di persone disperate e rassegnate. Il bambino che si aggrappa al grembo della madre, con in braccio un altro bimbo e la donna portata a spalla da un uomo, rendono il senso della disperazione mentre le acque incalzano e alcuni che pensano di salvarsi trasportano a fatica poche suppellettili. In primo piano, la donna distesa, in atteggiamento pensoso e sconsolato, sembra essere indifferente al pianto del figlio che le sta alle spalle, perché certa della fine imminente. L’arca è in alto, si intravvedono la colomba e Noè che si sporge con una mano mentre sotto di lui si consuma il dramma: un uomo aiuta un altro uomo a salire sull’arca, mentre un terzo tenta di ucciderli entrambi.

Anche un pittore moderno, russo di origine ebraica chassidica, Marc Chagall, tra le storie della Bibbia conservate a Nizza al Museo Nazionale Messaggio Biblico, illustra  “l’arca di Noè” (1963) ma lì si coglie la visione della salvezza e viene tralasciato il destino dei corrotti: vediamo l’interno dell’arca, lontana dalla classica rappresentazione sacra, priva di prospettiva. La composizione ruota intorno a un vortice come un’ellisse centrale in cui c’è Noè che lancia la colombae e prolunga quel gesto che si conclude nella scala di Giacobbe, simbolo di collegamento tra cielo e terra.Tutto il dipinto è ricco di richiami e simboli: anche qui c’è una parte di umanità, una folla, uomini e animali mescolati e illuminati dalla sola luce che entra dalla finestra e che illumina gli esseri in uno spazio quasi completamente blu, che vanno verso una nuova vita salvata, con la speranza del futuro. Oltre al blu pochi altri colori emergono: il bianco del cavallo, il giallo della cerva, il rosa della donna, il verde del volto di Noè. Si vedono numerose maternità che compongono la nuova umanità e in particolare una con un bimbo a braccia aperte che ricorda Gesù crocifisso e la presenza di un pavone, simbolo della salvezza eterna.

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