Il buon vino del signor Weston (2)
Scritto da MARIA NISII.
Seconda parte.
Va da sé che un romanzo che si intitola Il buon vino del signor Weston chieda al suo lettore di domandarsi che cosa si debba intendere con l’immagine del vino, che però, come tutti i grandi simboli, non è richiudibile in un unico significato. Vediamone allora alcune ricorrenze. Il decano del luogo, ad esempio, ricorda come Gesù lo abbia sempre apprezzato: “venendo additato come ubriacone per aver goduto delle sue delizie. Spiegava che Gesù sapeva distinguere una cattiva annata da una buona e che il vino da lui generosamente offerto ai commensali di Cana doveva essere un Tokai. Il nostro benedetto Salvatore non era tirchio né subdolo nel Suo donare. Offriva con munificenza ed è forse un bene che il vangelo non ci dica in quali condizioni tornarono a casa i suoi ospiti quella sera” (223-4). Tra le altre occorrenze, notiamo che si tratta di un vino che dà la felicità, specie quando offerto da una moglie affettuosa che sottrae il marito a vini a buon mercato (26). È inoltre consolazione per gli afflitti e i delusi che, pur arrivando a negare l’esistenza di Dio, non potranno certo negare l’esistenza del buon vino di Weston (45). “Il mio vino […] è forte come la morte e dolce come l’amore” (140), sostiene il titolare della ditta per declamarne i pregi di fronte all’oste, che spera diventi suo cliente. Il suo buon vino è inebriante e salvifico come l’amore sognato e realizzato (218), è fonte di sapienza, al pari di quella contenuta nei libri (224). Ma proprio grazie a tale sapienza, il buon vino del signor Weston può anche diventare specchio del male commesso (263-4) e tuttavia, se vi si presta fede, non si proverà più paura (269). Naturalmente nell’ampia enumerazione dei suoi pregi, Weston non ne dimentica la presenza nei sacramenti (231), ma soprattutto ne ricorda il potere di sapore biblico: “Quale profitto potrà mai avere, infatti, un uomo che, pur possedendo il mondo intero, non potrà gustare il mio buon vino?” (261 – cfr Mt 16,26; Mc 8,36; Lc 9,25).
La sera dell’arrivo di Westona Folly Down, cala un innaturale silenzio (cfr Ap 8,1). Il primo ad accorgersi che il tempo si è fermato è il proprietario della taverna, dove sono radunati gran parte degli uomini del paese. E se il tempo si è fermato, è allora iniziata l’Eternità – aggiunge il sacrestano e becchino per averlo sentito tante volte annunciare dal pulpito – ovvero “l’èra che doveva iniziare dopo la fine del tempo” (131). Weston è accolto con grande interesse, perché lì ogni distrazione è la benvenuta, un’occasione per i racconti degli anni a venire. L’uomo sembra subito a suo agio in quel luogo, contento di incontrare quegli uomini, mentre in ciascuno suscita l’impressione di somigliare a un parente, qualcuno che si conosce molto bene ma che si è da tempo perduto. Uno vi riconosce un cugino, un altro il padre morto, un terzo il fratello emigrato in America; ad un certo punto qualcuno pronuncia appena, quasi suo malgrado, come colto da una visione, e poi contento che nessuno lo abbia sentito, le parole “Padre Nostro” (139). Un altro è preso da un presagio, per quanto insignificante, e due di loro, “diversi non meno di quanto un agnello si distingue da un leone […] cominciarono cionondimeno a bere dallo stesso boccale” (140) [1].
Weston sorride a sentir parlare di “Eternità”, “come se il Tempo per lui non fosse nulla e l’Eternità, invece, il suo pane quotidiano” (141) e più avanti dirà che per lui “un giorno vale quanto un migliaio di anni” (252-3 – cfr Sal 90,4; 2Pt 3,8). Ma se all’inizio della storia il furgone è arrivato a Maidenbridge alle “tre e mezza del pomeriggio”, a Folly Down l’ora si ferma alle “sette” di sera – un numero foriero di una completezza che dovrà compiersi in quel luogo, ovvero un tempo che porterà a maturazione le tante attese che ciascuno si portava dentro. Tra gli altri, Weston va a far visita al reverendo che, per aver perso prematuramente la moglie in uno stupido incidente, non può neppure più credere in Dio, e nei suoi sermoni non ne pronuncia più il nome. L’uomo però è ancora in grado di interpretare il silenzio di quella sera come annuncio di una nuova fede, che pure dentro di sé desidera riottenere. Weston non bussa, ma si limita a fermarsi e aspettare fuori dalla porta [2]. E quando al termine della visita, il padrone di casa vorrebbe accompagnarlo all’uscita, Weston rifiuta spiegando: “Per quanto strano potrà sembrarle, la sua porta è stata aperta per me tanto a lungo che non posso certo aver dimenticato come ci si arriva” (208). Weston esce dalla canonica, ma lascia lì un fiasco di vino che il triste pastore apprezza sempre più a ogni bicchiere: “il vino […] lo aveva spesso nominato nelle sue prediche, anche dopo aver smesso da tempo di nominare Dio” (223) – realizzando quanto Weston aveva predetto sul proprio vino.
A uno a uno Weston fa quindi visita a tutti gli abitanti del paese, realizzando ogni volta l’inatteso. E quando infine lascia Folly Down, gli orologi riprendono la loro corsa. Il tempo del giudizio è stato consumato e lui può reimmergersi nel mistero dal quale è arrivato.
(Fine.)
______________________________________
[1] Probabile allusione alla profezia escatologica di Is 11,1-6.
[2]Richiamando uno dei più bei passaggi biblici, che rimanda l’immagine di Cristo che attende alla porta in Ap 3,20
- La prima parte dell’ articolo è stata pubblicata sul blog il 12/10/2109