Il giudizio finale
Scritto da NORMA ALESSIO.
Uno dei temi più importanti per un cristiano è quello riguardante la morte e cosa troverà nell’aldilà. Il tema è così coinvolgente da aver ispirato la fantasia dell’uomo medievale. Anche nella predicazione di quel periodo viene data concretezza a quello che si può immaginare essere il luogo dove la vita continua dopo la morte. Nel corso del Medioevo si definì una sorta di concetto geografico dell’aldilà, con la considerazione dell’inferno come luogo nel quale si trovano le anime dannate in eterno, e si diffuse la dottrina del contrappasso, secondo cui le pene inflitte rispecchiano le colpe. Gli artisti, inserendoli nel contesto più ampio della rappresentazione del giudizio finale, immaginarono ogni genere di tormento e tortura nelle punizioni irrogate a coloro che si rendevano colpevoli dei cosiddetti vizi “capitali”, in quanto davano origine a tutti i peccati nei quali poteva cadere l’uomo, come ammonisce San Giovanni: “poiché tutto ciò che vi è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, lo sfarzo della ricchezza, non è dal Padre, ma dal mondo” (1Gv 2,16). Dalla concupiscenza della carne derivano la lussuria e l’intemperanza, della concupiscenza degli occhi l’avarizia, dalla concupiscenza dello spirito (che Giovanni chiama lo sfarzo della ricchezza) derivano la vanagloria, l’accidia, l’invidia e l’ira. In questo modo si voleva provocare il fedele per un incitamento alla conversione e quindi trovare in esso i propri modelli di comportamento.
All’interno della Cappella cimiteriale di San Fiorenzo, in provincia di Cuneo, a Bastia Mondovì, sulla parete a destra è raffigurato un “giudizio finale” risalente al 1472 e attribuito a Tommaso BIAZACI, che si compone di alcune scene ricche di simboli e allegorie di cui, senza la conoscenza del loro significato e senza un confronto alla luce delle sacre scritture, non è possibile comprendere il messaggio.
La scena a sinistra rappresenta una città, riconoscibile dalle mura merlate e dalle torri, che si associa alla Gerusalemme celeste, città santa, secondo i testi di San Paolo e San Giovanni nell’Apocalisse (21,2): «vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, discendere dal cielo da presso Dio, preparata come una sposa adorna per il suo sposo» ; «la città ha un muro grande e alto, con dodici porte sormontate da dodici angeli e recanti i nomi scritti delle dodici tribù dei figli di Israele » (21,12).
In questo dipinto la descrizione non è cosi fedele, la porta è in realtà una sola ed è custodita da San Pietro, all’interno delle mura, al centro vi è Maria, inginocchiata con l’atteggiamento di sottomissione e di preghiera come nelle annunciazioni, che viene incoronata per mano di Dio padre e del figlio Gesù. Entrambi sono riconoscibili dai segni: il primo che tiene in grembo il globo crucigero, segno della supremazia di Cristo sul mondo con in testa una tiara, simbolo della sovranità, mentre il secondo chiaramente più giovane con l’aureola crucifera, il segno che sempre lo individua, che trattiene con la mano sinistra una canna d’oro, come lo scettro segno di potere, oppure più verosimile legata alla simbologia del giudizio, citato sempre nell’Apocalisse (21,15-16) che serviva a misurare la città. Attorno vi sono angeli, musicanti, santi, patriarchi, martiri, riconoscibili dalle scritte identificative o dagli attributi.
Al di sotto delle mura merlate in un riquadro è la sequenza delle sette Opere di Misericordia corporali.
La lista delle sette opere di misericordia venne stabilita probabilmente nel XII secolo, in riferimento al Nuovo Testamento: vestire gli ignudi, dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, mentre la settima quella di seppellire i morti è tratta dal libro di Tobia.. Solo l’evangelista Matteo (25, 35-46) le presenta ” perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”
In questo caso è da notare l’assenza dell’opera di misericordia dedicata a dare ospitalità ai pellegrini, sostituita da una donna che allatta in segno di carità.
Le sette scene delle opere di misericordia evidenziano con il simbolo dell’aureola di Cristo dipinta sui personaggi che ricevono la misericordia, le parole dette da Gesù in Matteo (25, 46) “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me…. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”
A destra del Paradiso è il riquadro dell’Inferno: è una grande caverna destinata ai dannati.
Al centro è Satana: un essere mostruoso, seduto sui corpi degli uomini della legge, avvocati e procuratori, sacerdoti della giustizia, ma per la gente comune coloro che creano ingiustizia. L’intorno è circondato da demoni che puniscono i dannati che rappresentano i vizi capitali, con lo scopo di rendere chiaro al fedele cosa spetta al peccatore, rivelando infatti l’orrore dei castighi e suscitando la volontà di sfuggirvi e portare il credente sulla retta via della penitenza. In basso sono raffigurati i vizi capitali: sette personaggi allegorici legati da una lunga catena e trascinati nella bocca del Leviatano, un mostro citato nel libro di Giobbe che ostacola il dialogo con Dio, in un’azione simile a quella del diavolo. Il corteo ha inizio con la Superbia, un orgoglioso sovrano, con la corona in testa, a cavallo di un leone; l’Avarizia, vestito da straccione, ma con in mano il denaro accumulato, a cavallo di un bianco levriero con la collottola e un osso in bocca; la Lussuria, a cavallo di un sensuale caprone, impersonata da una donna elegante, con un abito a fronzoli e un curioso copricapo, che si ammira nello specchio e tira su maliziosamente la gonna mostrando le calze rosse e la coscia bianca; l’Invidia, a cavallo di un leopardo, che indica con un dito i vicini, oggetto della sua maldicenza; la Gola, a cavallo di un avido lupo tracanna vino da una brocca; l’Ira che si trafigge la gola con un pugnale e cavalca un lupo; l’Accidia, un uomo a cavallo di un asino indolente. Alla testa del corteo è un diavolo che guida questa danza macabra suonando e cantando con le parole: «O infelices peccatores venite ad choreas Tararirara» e introduce i dannati all’inferno.
Il Purgatorio, che non compare nelle sacre scritture, è immaginato in un luogo intermedio tra Inferno e Paradiso. Sei cavità quadrate mostrano il buio e le fiamme sottostanti dove stanno temporaneamente peccatori che, nel gesto della preghiera a mani giunte sperano nella salvezza. Le anime sono poi accolte in Paradiso da un angelo che si affaccia dalla torre, mentre l’angelo di guardia sulla torre di destra della città celeste pronuncia la sentenza di dannazione: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli.