Indossare i sandali
Scritto da MARIA NISII.
Di piede in piede (5).
Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. (Dt8,4)
Che il mettere e togliere sandali non sia una faccenda semplicemente e banalmente quotidiana, l’avevamo già capito. La polisemia biblica poi ne fa persino un rompicapo. In tutto questo mi pare che ancor più interessanti siano le contraddizioni, più o meno apparenti, che non mancano di rivelarsi e che sembrano quasi suggerirci di tenere desta l’attenzione.
Nel roveto ardente ci eravamo soffermati a riflettere sulla richiesta di Dio a Mosè di togliersi i sandali – perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo(Es 3,5). Nella ripresa degli anni dell’Esodo che troviamo nel libro del Deuteronomio, si trova però un riferimento curioso: Dio è colui che ha condotto il popolo nel deserto per quarant’anni, lo ha messo alla prova e umiliato (Dt 8,2), ma del suo popolo si è preso cura, sfamandolo e proteggendolo. E, guarda caso, per esprimere il concetto di cura si ricorre ancora una volta all’immagine del piede: il tuo piede non si è gonfiato… Eppure.
Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…(Dt 8,2)
Nei lunghi anni di cammino nel deserto i piedi del popolo sono stati messi indubbiamente a dura prova: un dato di realtà che deve allertarci verso un altro livello di lettura – peraltro il versetto è ripreso tal quale in Ne 9,21, quando si ripercorre la storia della salvezza al ritorno dall’esilio. Siamo inevitabilmente di fronte a un’iperbole, un’amplificazione di quanto avvenuto sotto la luce del meraviglioso. È in quella situazione di fatica e afflizione che si è tanto più rivelata la misericordia divina:
ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che neppure i tuoi padri avevano mai conosciuto (8,3).
L’enfatizzazione dei fatti nel caso del nutrimento eccezionale della manna era preceduto da una volontà divina che il popolo provasse fame:
per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore (Dt 8,3).
Un tale bilanciamento è invece meno evidente nel nostro versetto (Dt 8,4). Non si dice cioè che Dio ha fatto loro conoscere le piaghe ai piedi per poi sanargliele e farli giungere a destinazione con i piedi freschi e riposati. Al contrario, dopo aver ricordato tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni, il racconto punta sull’integrità dei piedi (il tuo piede non si è gonfiato), che tanta strada hanno percorso, e sui vestiti, tra i quali possiamo – immagino – annoverare anche i sandali – segno di dignità della creatura.
La necessità di indossare sandali era d’altra parte già annoverata in Es 12,11 in prossimità della partenza dall’Egitto:
Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore!
Fianchi cinti, sandali e bastone erano evidentemente parte dell’abbigliamento di coloro che si mettevano in viaggio, come pure in At 12,8 quando l’angelo libera Pietro che si trovava in prigione: Mettiti la cintura e legati i sandali. E tuttavia in Mt 10,10 e Lc 10,4 Gesù chiede agli apostoli di partire facendo a meno anche di quel minimo armamentario, perché non ne avranno bisogno – come loro infatti confermeranno (Lc 22,35).
Che i sandali ci siano (come in Esodo) o meno (invio in missione degli apostoli in Mt e Lc), Dio si rivela vicino e provvidente anche perché si prende cura dei piedi di coloro che ha messo in cammino.
Nelle riscritture si possono trovare molte immagini della cura di Dio per gli uomini e le donne, anche se non necessariamente rivolte ai piedi. Preferisco allora riportare l’Elogio dei piedi che Erri De Luca ha posto a conclusione di Altre prove di riposta (Libreria Dante & Descartes).
Perché reggono l’intero peso. Perché sanno tenersi su appoggi e appigli minimi. Perché sanno correre sugli scogli e neanche i cavalli lo sanno fare. Perché portano via. Perché sono la parte più prigioniera di un corpo incarcerato. E chi esce dopo molti anni deve imparare di nuovo a camminare in linea retta.
Perché sanno saltare, e non è colpa loro se più in alto nello scheletro non ci sono ali. Perché scalzi sono belli. Perché sanno piantarsi nel mezzo delle strade come muli e fare una siepe davanti al cancello di una fabbrica. Perché sanno giocare con la palla e sanno nuotare. Perché per qualche popolo pratico erano unità di misura. Perché quelli di donna facevano friggere i versi di Puškin (Onegin, strofa 31).
Perché gli antichi li amavano e per prima cura di ospitalità li lavavano al viandante. Perché sanno pregare dondolandosi davanti a un muro o ripiegati indietro da un inginocchiatoio. Perché mai capirò come fanno a correre contando su un appoggio solo. Perché sono allegri e sanno ballare il meraviglioso tango, il croccante tip-tap, la ruffiana tarantella.
Perché non sanno accusare e non impugnano armi. Perché sono stati crocefissi. Perché anche quando si vorrebbe assestarli nel sedere a qualcuno, viene scrupolo che il bersaglio non meriti l’appoggio. Perché come le capre, amano il sale.
Perché non hanno fretta di nascere, però poi quando arriva il punto di morire scalciano in nome del corpo contro la morte.