La letteratura ci salverà dall’estinzione
Scritto da MARIA NISII.
Chi li ha resi cocciuti e incorreggibili? Chi gli ha offuscato la vista, sigillato gli occhi e aperto i cuori alla superstizione a tal punto che ora abbisognano di truffaldini per riconoscere i Tuoi lampi? E di imbonitori per udire i primi gabbiani volare in fuga dalla Tua tempesta? E di empietà per spaventarli nel profondo del loro cuore? (GüntherAnders, Il futuro rimpianto)
Se nonostante le voci che si levano da tutti i fronti non siamo stati ancora capaci di reagire alla minaccia climatica e alla possibile catastrofe della specie, è perché – secondo Carla Benedetti, saggista e docente di letteratura italiana – non sappiamo farci «acrobati del tempo». Si tratta di un’espressione coniata da GüntherAnders nel 1989, con la quale il filosofo tedesco intendeva parlare dello sforzo «di mettersi nei panni di chi si troverà, in un futuro assai prossimo, a vivere su un pianeta dal clima sconvolto». Assumendo la metafora di Anders, l’autrice intende sostenere che l’umanità è oggi carente di immaginazione ed empatia.
Oltre naturalmente al mondo della scienza, la letteratura e il cinema sono state tra le «voci» levatesi per annunciare il disastro, voci che al pari delle altre non hanno ottenuto risultati migliori in termini di spinta al cambiamento. Movimentatisi nei più noti generi della fantascienza apocalittica e post-apocalittica, letteratura e cinema hanno fatto leva sulla paura, in genere fonte di paralisi più che molla all’azione. Ma attribuire alla narrativa un potere mobilitativo potrebbe stupire coloro che ne stimano la sola funzione rappresentativa e che nella migliore delle ipotesi vi attendono un contributo in termini di conoscenza e non certo di stimolo riformista.
13 Allora Dio disse a Noè: «È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra. 14 Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. 15 Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. 16 Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore.17 Ecco io manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà. 18 Ma con te io stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. 19 Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per conservarli in vita con te: siano maschio e femmina. 20 Degli uccelli secondo la loro specie, del bestiame secondo la propria specie e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due d’ognuna verranno con te, per essere conservati in vita. 21 Quanto a te, prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e raccoglilo presso di te: sarà di nutrimento per te e per loro». 22 Noè eseguì tutto; come Dio gli aveva comandato, così egli fece.(Genesi 6)
Per mostrarne l’efficacia, Benedetti richiama l’episodio genesiaco dell’annuncio divino del diluvio. In questo brano si suppone che Noè abbia avuto a disposizione un lasso di tempo sufficientemente ampio da consentirgli di vedere crescere i cedri necessari alla costruzione dell’arca, un tempo tanto lungo però anche per riflettere sulla sorte dell’umanità che non sarebbe scampata, come lui, al disastro. Come spesso capita, la laconicità del testo biblico ha indotto i commentari rabbinici a integrarlo in vari modi, chiedendosi in particolare se Noè non avesse impiegato una parte di quel tempo anche per avvertire i suoi contemporanei e tentare di salvarli. Da questa domanda sarebbe partito anche Anders nel suo racconto Il futuro rimpianto (1961), ove troviamo un Noè che si spende in ogni modo per invocare un cambiamento nell’umanità malvagia.
“Cento volte”, disse adirato, “ho dato prova della mia pazienza. I miei piedi sono gonfi, ho la gola rossa dal tanto che ho gridato, ho trascurato i miei affari e sono diventato estraneo agli occhi del mio primogenito. Ma non ho badato alle mie ferite e mi sono sottratto ai biasimi di mio figlio. Non sono riuscito a rassegnarmi ai morti di domani e sono andato ogni giorno a caccia dei ciechi per aprire loro gli occhi e a caccia dei sordi per urlare nelle loro orecchie tappate, al fine di convincerli che il diluvio non è mio bensì Tuo, e che adesso dovranno fare qualcosa da soli con le loro mani. Ho preso le tue difese dicendo loro che anche Tu nella Tua magnanimità desideri vederli salvati, ma adesso siamo giunti alla vigilia della catastrofe. Li ho fermati per strada come un mendicante, mi sono aggrappato alle loro vesti come un malfattore, gli sono corso dietro quando si svincolavano, non ho avuto timore della loro rabbia e non mi sono affatto curato di venir dileggiato come un uomo ridicolo.”
Nonostante i vari tentativi, le sue parole restano inascoltate al pari dei tanti profeti del passato. Decide quindi di tentare un’ultima carta, giocando sulla sorpresa: si finge in lutto e gira per le strade con gli abiti stracciati e il capo cosparso di cenere. Una tale messinscena incuriosisce i passanti, ai quali spiega che sta piangendo i morti di domani per poi raccontare loro la catastrofe imminente come qualcosa di già successo perché chi l’ascolta possa viverla come propria.
Dopodomani il diluvio sarà ciò che è stato. E voi sapete cosa significa […] Ecco cosa significa. Che dopodomani il diluvio sarà ciò che è stato, allora tutto questo, ovvero tutto ciò che c’era prima del diluvio, sarà ciò che non è mai stato.
[…] se il diluvio arriverà domani, allora sarà troppo tardi per ricordare e troppo tardi per portare il lutto. Perché non ci sarà più nessuno che potrà ricordarsi di noi e nessuno che potrà portare il lutto per noi. […] perché le acque inghiottiranno i lamenti funebri assieme ai morti, chi avrebbe dovuto impartire la benedizione assieme a coloro che dovevano essere benedetti, le generazioni future assieme ai posteri, e perché noi tutti saremo defraudati del nostro Kaddish.
Il meccanismo del racconto si mostrerà vincente, in quanto immaginare un futuro senza posterità svuota di senso il presente. Il racconto rende infatti il dolore futuro come qualcosa di percepibile già nell’oggi, suscitando la reazione desiderata: «Chi costruirebbe cattedrali, faticherebbe a bonificare le terre, si sforzerebbe di carpire nuovi segreti all’universo, se pensasse che dopo di lui non ci sarà più nessuno a trarne beneficio o a rendergliene merito?» (p. 40). Tuttavia non basta perdere l’illusione della posterità come mero dato conoscitivo; per mettere in moto l’azione occorre che di questa perdita si faccia esperienza. Una narrazione profetica in grado di trasformare i suoi ascoltatori in «acrobati del tempo» grazie alle strategie dell’immedesimazione, si rivela pertanto più efficace di una narrazione apocalittica della fine incapace di far attraversare la paura. È mettendo a confronto due generi biblici, profetico e apocalittico, che l’autrice spiega come la letteratura possa «salvare l’umanità dall’estinzione», offrendo una prospettiva per superare l’attuale impasse.
Leggere riattiva l’immaginazione, ci rende acrobati del tempo. Poi chiudiamo il libro e decidiamo come prendere parte alla custodia del Creato.
https://www.youtube.com/watch?v=9ht4xI18KtQ