La nuova Eva

24 Giugno 2023Lorenzo Cuffini

Scritto da MARIA NISII.

 

Io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua stirpe e la sua stirpe; questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno. (Gen 3,15)

Questo versetto di Genesi è detto «Protovangelo», in quanto viene interpretato dalla lettura cristiana come il primo annuncio della salvezza. Le diverse traduzioni con cui è stato reso diventano pertanto «riscritture», per il fatto di rivelare il significato di volta in volta attribuitogli. La versione greca usa infatti il pronome maschile (Egli, autòs), sebbene non si accordi col sostantivo neutro (stirpe, sperma), allo scopo di veicolare la speranza sul Messia. Il Targum invece vede nella donna la comunità d’Israele, che schiaccerà il serpente «nei giorni del re messia». La traduzione latina di Girolamo ne offre infine una lettura mariologica (Lei, ipsa), mentre nella Nova Vulgata riappare la prospettiva messianica. Proseguono sulla linea mariana alcuni padri della Chiesa, creando il celebre parallelismo tra la vecchia e la nuova Eva:

«Come infatti Eva, che era vergine e incorrotta, dopo aver accolto la parola del serpente, partorì disobbedienza e morte, allo stesso modo Maria, la Vergine, avendo ricevuto dall’angelo Gabriele il buon annuncio che lo Spirito Santo sarebbe disceso su di lei e che la potenza dell’Altissimo l’avrebbe adombrata, concepì fede e gioia, per cui il nato da lei sarebbe stato il Figlio di Dio» (Giustino, Dialogo con Trifone).

In questo modo Maria, «nuova Eva», con la sua obbedienza ripara i danni causati dalla disobbedienza della prima donna, al pari di Cristo, «nuovo Adamo», che riversa la sua Grazia con abbondanza riparando al male provocato dal primo uomo (Rm 5). È alla luce di tale collaborazione tra madre e figlio, che Caravaggio interpreta il brano di Gen 3 nella sua “Madonna dei Palafrenieri”, ove compaiono le figure di Maria, del Bambino Gesù e di Sant’Anna, in cui Maria sostiene il piccolo, che pone il piedino su quello della madre, schiacciando insieme la testa del serpente.

 

 

Ne Il diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos (1936) compare un ampio brano, nel quale si riporta uno dei discorsi che il parroco di Torcy pronuncia al giovane prete, protagonista della storia:

«È nostra madre, si capisce. La madre del genere umano, la nuova Eva. Ma è anche sua figlia. Il mondo antico, mondo doloroso, il mondo anteriore alla Grazia, l’ha cullata tanto tempo sul suo cuore desolato – secoli e secoli – nell’attesa oscura, incomprensibile di una virgo genitrix… Per secoli e secoli ha protetto con le sue vecchie mani cariche di misfatti, mani pesanti, la meravigliosa bambina di cui ignorava persino il nome. Una bambina, questa regina degli Angeli! E lo è restata bambina, non scordarlo! Il Medioevo lo aveva capito bene, il Medioevo ha capito tutto. Ma va’ a impedire agli imbecilli di rifare a modo loro “il dramma dell’incarnazione”, come dicono. Mentre si sentono in dovere, per ragioni di prestigio, di agghindare come per carnevale dei modesti giudici di pace o di cucire ai ferrovieri qualche patacca sulla manica, si vergognerebbero troppo di dire ai non credenti che il solo, unico dramma, il dramma dei drammi – non ce ne sono altri – è stato rappresentato senza messinscene né fronzoli. Pensaci! Il Verbo si è fatto carne e i cronisti di allora ne hanno saputo un bel niente! Eppure la quotidiana esperienza insegna che tutte le vere grandezze, anche quelle umane, il genio, l’eroismo, l’amore stesso – il loro povero amore -, è una fatica del diavolo riconoscerle! Tanto che novantanove volte su cento vanno a portare i loro fiori di retorica al cimitero, si arrendono soltanto ai morti. La santità di Dio! La semplicità di Dio…» (p. 170).

In questo passaggio, oltre a richiamare il motivo di Maria-nuova Eva, l’anziano parroco sembra «distrarsi» dal suo iniziale intento, volto a istruire il giovane, e finendo invece col parlare della semplicità di Dio nel mistero dell’incarnazione, che qui si rivela nel volto fanciullesco della madre di Dio. Una passione evangelica travolgente per un testo divenuto un classico, in quanto capace di attraversare il tempo senza perdere smalto.

 

Giambattista Tiepolo, Immacolata concezione (1767-9)

 

In questa versione di Tiepolo, come in molte altre simili, Maria calpesta il serpente, segno della sua vittoria sul male, poggiando i piedi sul globo, simbolo del mondo terrestre. Alcune di queste rappresentazioni intrecciano però la figura di Maria con la donna vestita di sole di Apocalisse 12, sulla cui attribuzione mariana gli interpreti sollevano non pochi dubbi. E tuttavia il serpente tiene in bocca la mela, nuovo richiamo all’Eden e al peccato dei progenitori. Tale associazione è risultata in particolar modo efficace per le immagini dell’Immacolata concezione: chi più di colei che è nata senza macchia può sanare la ferita del genere umano? È quindi da qui che trae ispirazione il sommo poeta nel penultimo canto del Paradiso:

La piaga che Maria richiuse e unse,

quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi

è colei che l’asperse e che la punse. (Paradiso, XXXII)

Spiegando a Dante la disposizione dei beati, san Bernardo gli indica colei che è seduta ai piedi di Maria: si tratta di Eva, la donna che aprì la piaga che poi Maria curò e chiuse. La ferita inferta al genere umano è il peccato delle origini, curato e sanato dalla nuova Eva.

 

 

In un testo più recente, tale interpretazione sembra ormai sbiadita: la si ricorda ancora, ma ha perso il suo significato teologico. Lei della teologa Mariapia Veladiano (2017), che racconta la vicenda evangelica dal punto di vista di Maria intessendo la figura della madre con le numerose interpretazioni di cui l’ha storia l’ha ammantata, riprende infatti questa suggestione biblica:

«La prima sera è scesa tutt’una col buio del giorno. […] Anche le bestie selvatiche hanno saputo e si sono mosse senza convinzione. Hanno afferrato le prede con morsi prudenti e le hanno lasciate andare per disgusto verso la ferocia del mondo. Non una bestia ha aggiunto sangue al sangue. Le serpi strisciavano davanti ai miei piedi, passavano in fila lungo la strada, sicure che il loro tempo non era ancora venuto. Il mio piede non le sfiorava, la loro testa al sicuro, la bocca liberava la lingua affilata ma serviva solo a sentire che anche gli odori mancavano, assorbiti dal nero della tenebra» (p. 158)

Veladiano ambienta questo passo nei giorni del sepolcro, in attesa della resurrezione. Giorni di buio e di dolore, in cui, a dispetto delle tante raffigurazioni artistiche, questa Maria non si sente ancora «nuova Eva», colei che insidierà il calcagno del serpente antico. In questo giorno di lutto, racconta, neppure le bestie feroci stanno alla pari con la ferocia umana. Nessun essere vivente aggiunge altro dolore. Il male, come il suo riscatto, restano sospesi. In attesa.

 

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  • In copertina: Michelangelo Merisi da Caravaggio, Madonna dei Palafrenieri (1606), Galleria Borghese, Roma

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