La questione della “legatura” di Isacco (2). Padri sacrificatori.

22 Luglio 2016Lorenzo Cuffini

Scritto da Maria Nisii.

 

 

” Ma Isacco, padre catechista,

cosa ha combinato?

Ha rotto giocando un vetro del vicino?

Ha strappato i pantaloni nuovi

Passando attraverso lo steccato?

Ha rubato le matite?

Ha spaventato le galline?

Ha suggerito?”

(Wislawa Szymborska, “Notte”

da La gioia di scrivere, Adelphi, Milano, 2009, p. 33)

 

 

È attraverso lo sguardo semplice di una bambina, che la poetessa polacca (premio Nobel per la letteratura nel 1996) ripropone il racconto del sacrificio biblico per antonomasia. Nella leggerezza del tono – sua inconfondibile cifra stilistica – così affronta il nodo cruciale:

 

“Gli adulti continuino stolti a dormire,

io stanotte

fino al mattino devo vegliare.

Questa notte tace,

ma tace contro di me

e ha il color della pece,

come lo zelo di Abramo.

Dove mi andrò a riparare

Quando l’occhio del Dio biblico

Si poserà su di me

Come si posò su Isacco?…”

 

Un Dio che brama sacrifici umani è terribile e temibile, tanto più a occhi innocenti e facilmente impressionabili, che dallo “zelo” del mondo adulto si sentono a questo punto meno protetti:

 

“…E quando domani all’alba

Mio padre mi porterà con sé,

ci andrò, ci andrò

rabbuiata dall’odio.

Non crederò

Né a bontà né ad amore…

Non fidarsi,

nulla merita fiducia.

Non amare,

portare il cuore vivo dentro il petto…”

 

Se Dio e il padre non meritano fiducia, anche quel salvataggio dell’ultimo minuto perde il suo senso, per cui è meglio morire:

 

“Il Signore Iddio attende

e dalle nubi dà un’occhiata

per controllare se alta

dal rogo si leva la fiamma

e  così potrà vedere

come si muore a dispetto,

perché io morirò,

non mi lascerò salvare.”

 

Il sacrificio volontario della vittima innocente diventa grido levato contro quell’immagine deforme di Dio, che richiede una diversa capacità di leggere il racconto – unica possibilità di sopravvivenza del divino.

 

“Da quella notte

oltre la misura di un brutto sogno,

da quella notte

oltre la misura della solitudine,

il Signore Iddio cominciò

a poco a poco

giorno per giorno

il trasloco

dal letterale

al metaforico.”

chagallisacco

L’inconcepibile obbedienza di quel padre biblico preserva, nelle tante riscritture letterarie in cui compare, un’immagine tragica capace di fondare l’inaffidabilità di ogni padre disposto a sacrificare i figli, nonostante l’arrivo puntuale dell’angelo a fermarne la mano. È così che ritroviamo la vicenda biblica anche nei war verses di Wilfred Owen, poeta della prima guerra mondiale, che nella Parabola del vecchio e del giovane (riprodotta in musica nel War Requiem di B. Britten) la rinarra in modo quasi parallelo al testo biblico, salvo alcuni dettagli che fungono da spia del mutato contesto:

 

“Dunque Abramo si levò, raccolse la legna, e partì,

portando con sé il fuoco e il coltello.

E mentre soggiornavano insieme,

Isacco, il primogenito, domandò: “Padre Mio,

tutti questi preparativi, il ferro, il fuoco,

ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”.

Allora Abramo legò il giovane con cinghie e pulegge,

ed eresse in quel punto parapetti e trincee,

e brandì il coltello per scannare suo figlio.

Quand’ecco, dal cielo, un angelo lo chiamò:

“Non stendere la mano contro il fanciullo,

non fargli alcun male. Guarda,

quel capro impigliato nella macchia per le corna;

offri il Capro dell’Orgoglio in vece sua”.

 

Il ferro al posto della legna, cinghie e pulegge per la legatura, ma più ancora l’erezione di parapetti e trincee ritraggono un’ambientazione facilmente riconoscibile. Non per questo il finale sarà meno scioccante:

 

Ma il vecchio non volle saperne, e trucidò il figlio,
e metà del seme d’Europa, uno per uno.

 

Neppure qui vi è garantita possibilità di salvezza ai tanti Isacco sacrificati dalle generazioni che avrebbero dovuto garantirne la sopravvivenza.

caravaggio

In Cosa resta del padre? Massimo Recalcati (Raffaello Cortina Editore, 2011) ricorda che Lacan ha teorizzato il declino della figura paterna come risalente a due periodi storici ben connotati: il “tramonto del padre” negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, che ha fatto da sfondo alla figura onnipotente del padre del totalitarismo e “l’evaporazione del padre” seguita alla contestazione del Sessantotto, che vede la progressiva perdita di autorità della figura paterna. Tuttavia se quest’ultimo ha comportato una critica alla società patriarcale risultata poi feconda, la prima fase ha coinciso con l’emergere delle dittature totalitarie. I padri folli dei grandi totalitarismi, richiamati nei versi di Owen, hanno però fondato il proprio potere normativo sul crimine e la violenza.

Figura indebolita di padre, in quanto defraudato del figlio, è Gershom Wald nel Giuda di Amos Oz (Feltrinelli, 2014), il quale confessa di aver convinto il suo “unico figlio” Micah ad arruolarsi nella guerra arabo-israeliana del ’48: “Io da solo l’ho preso e portato al Monte Moria, come ha fatto Abramo con Isacco” (p. 192). Fin da bambino Micah è cresciuto con i racconti dei martiri di Tel Chai e dei maccabei, ma “forse non si sarebbe buttato, in questa guerra, se non fosse stato per i discorsi di suo padre sulla guerra necessaria” (p. 194).

“Una voce mi ha chiamato e sono andato” traduce l’”eccomi” biblico di Abramo, che qui è il nuovo Isacco a pronunciare. Ma questo padre sacrificatore, sopravvissuto al figlio nel corpo deforme e patetico, riconosce infine di essere morto con lui quel giorno: “sono o non sono un uomo non vivo? Un logorroico che parla da morto?”. Al giovane ucciso e al padre mutilato del figlio sopravvive la parola – una parola alla ricerca di pace, speranza, perdono. Ancora una volta per preservare l’esistenza si rende necessario un trasloco dal letterale – la sopravvivenza di un padre al figlio – al metaforico e quindi il linguaggio – poetico e narrativo, unica possibilità di esorcizzare l’orrore del sacrificio.

 

 

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