L’utilità delle cose inutili

27 Gennaio 2023Lorenzo Cuffini

Scritto da  MARIA NISII.

 

Per la giornata della memoria

 

Ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile”, sosteneva Montale in occasione del conferimento del Nobel. “Inutile utilità della poesia”, la definisce Robert Desnos, poeta surrealista francese,dal campo di concentramento. Ed erano versi di poesie quelli che in tanti si sono ripetuti nei campi: Osip Mandel’stam recitava Petrarca, Etty Hillesum leggeva per sé e per altri Rilke, Primo Levi declama il canto di Ulisse di Dante a un compagno di prigionia. (https://www.youtube.com/watch?v=C7ebABkx9RA)

 

 

In questo senso la poesia è inutile come la preghiera, ovvero improduttiva, inefficace o – come sostiene Nietzsche – un borbottio di formule vuote, simile a un lungo meccanico lavoro delle labbra. Ma prima di cestinare tutto nell’indifferenziato, occorre valutare quanto si rischia di perdere, perché la preghiera – secondo il teologo moralista G. Piana – “esige la presa di coscienza dell’utilità delle cose inutili, come la fantasia, il gioco, il mito, la poesia, l’amore; esige come terreno di impianto un diverso modello antropologico, capace di un respiro esistenziale più profondo nel quale è possibile un contatto esperienziale con il mistero; esige un’attitudine fatta di recettività, di ascolto, di intuizione, di disponibilità.E quanto qui detto della preghiera si può perfettamente estendere alla poesia, ugualmente capace di attingere alle profondità dell’essere e aprirsi al mistero.

Ne sa qualcosa D.M. Turoldo, religioso e poeta: “nulla di più gratuito della poesia […] Io stesso, nel mentre che lo sento e lo canto, non so neppure dire perché. Solo che non posso non cantare. Così la poesia sarebbe la gratuità più necessaria che si possa augurare a ogni esistenza”. Inutile e gratuita, ma vitale e indispensabile, come l’amore, capace di spingerci ad andare oltre e superarci. L’ossimoro di Desnos, a partire dal quale vogliamo riflettere, ci riporta ancora una volta ai tempi di crisi quando la poesia si è trasformata in atto di resistenza. Ne seguiamo alcuni esempi celebri.

 

 

Etty Hillesum, ebrea olandese e collaboratrice del Consiglio Ebraico di Amsterdam, rimane diverso tempo nel campo di smistamento di Westerbork, dal quale ha la possibilità di scrivere alcune lettere agli amici. In una missiva del dicembre 1942 indirizzata a due sorelle dell’Aia scrive: «Una sera d’estate ero seduta a mangiare il mio cavolo rosso sul ciglio del campo giallo di lupini, che dalla nostra mensa si estendeva fino alla baracca di disinfestazione, e riflettevo a voce alta, con aria ispirata, “si dovrebbe scrivere la cronaca di Westerbork”. Un uomo anziano seduto alla mia sinistra – anche lui con il cavolo rosso – aveva replicato: “Sì, ma ci vorrebbe un poeta”… Quell’uomo ha ragione, ci vorrebbe proprio un grande poeta, le cronachine giornalistiche non bastano più».

Per Hillesum quanto accade richiede più che mai un poeta, fondamentale proprio nei tempi di maggiore miseria spirituale e di eclissi del divino dall’orizzonte umano. Ed è emblematico come il Libro d’ore di Rainer Maria Rilke, che ha portato con sé nel campo, la aiuti a sopportare la drammaticità di quella situazione che ha messo a dura prova una fetta di umanità. Questo stesso libro diventa infatti occasione di una lettura speciale, una sera, con due membri della direzione ebraica del campo. Uno di loro, ricordandolo, inizia a leggerlo ad alta voce – un atto che sembra risvegliare in lui una coscienza dimenticata, tanto da apparire improvvisamente ringiovanito.

La giovane donna è persuasa che, quando tutto sarà finito, sarà necessario un nuovo linguaggio, nuove parole per raccontare l’esperienza della shoah: «Più tardi, forse molto più tardi, svilupperò e stamperò tutte queste immagini – quando avrò trovato il tono giusto per esprimere questo nuovo modo di sentire la vita. Tutto dovrebbe tacere finché questo nuovo tono non sia stato trovato” (10 luglio 1943). Le parole nuove richiedono tempo paziente di attesa, riposo, solitudine, grazia. Un compito adatto a un poeta – o a un mistico, come è il caso di Etty Hillesum, che purtroppo non sopravvive alla deportazione ad Auschwitz.

 

 

Il campo di Terezin,dove Desnos perde la vita, è diventato il simbolo della persecuzione degli artisti. Durante la seconda guerra erano lì internati musicisti e teatranti, oltre a letterati e poeti. E da lì in tanti vennero caricati sul Künstlertransport, il treno degli artisti: musicisti, scrittori, poeti, attori, compositori, accademici e scienziati che avevano animato l’esperienza del campo, usato come vetrina della propaganda nazista, che desiderava mostrare come i campi di concentramento fossero luoghi vivibili e allietati da spettacoli. Allo scopo a Terezin erano stati allestiti concerti e spettacoli, secondo l’intuizione perversa di Joseph Goebbels di creare un campo modello. (https://www.youtube.com/watch?v=29iPfoq-nPA)

 

I disegni dei bambini di Terezin

 

É da un altro campo di concentramento, Görlit al confine sud-est della Polonia, che Olivier Messiaen compone il Quatuor pour la fin du Temps (Quartetto per la fine del Tempo), richiamando motivi apocalittici tra cui l’ultimo angelo nel settenario delle trombe (Ap 11). Anche quest’opera si occupa del tempo, per questo la partitura si apre con una citazione dal cap. 10:

«E vidi un angelo, forte, scendere dal cielo, avvolto in una nube; l’arcobaleno era sul suo capo, la sua faccia era come il sole, le sue gambe come colonne di fuoco, […]. Pose il piede destro sul mare, e il sinistro sulla terra, e […] tenendosi ritto sul mare e sulla terra, alzò la mano […] al cielo, e giurò nel nome del vivente per i secoli dei secoli […] dicendo: “Non vi sarà più altro tempo! Nei giorni del suono del settimo angelo si compirà il mistero di Dio».

Il compositore dichiarò: “non ho voluto in alcun modo realizzare un commento al libro della Rivelazione, ma semplicemente giustificare il mio desiderio di cessazione del tempo”. (https://www.youtube.com/watch?v=wggLiCPjGZM )

 

 

Respirano lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
riveste ogni ramo, via via.
Le candide strade si fanno più zitte:
le stanze raccolte, più intense.
Rintoccano l’ore. Ne viene
percosso ogni bimbo, tremando.
Di sovra gli alari, lo schianto di un ciocco
che in lampi e faville , rovina.
In niveo brillar di lustrini
il candido giorno là fuori s’accresce,
diviene sempiterno, infinito.

(Rainer Maria Rilke, Gennaio)

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