Ma Dio, c’era, sul Piave?
Scritto da LORENZO CUFFINI.
La provocazione della domanda è ingenua, tanto è scoperta. : il fatto è che ad ogni guerra si assiste al realizzarsi di una narrativa peculiare su Dio, che viene raccontato fino a trasformarlo in un attore in causa, protagonista diretto o indiretto delle questioni specifiche e concretissime delle contese e dei conflitti.
E’ appena trascorso il 4 novembre, che oggi viene celebrato come Festa della Unità Nazionale e delle Forze Armate, ma che sino a pochi anni fa era la Festa della Vittoria, a celebrare la vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale. Nel 1918, in questa data – ritenuta immediatamente gloriosa e celebranda – fioriscono i TE DEUM di ringraziamento. Non solo per la fine della guerra e il ritorno della pace, ma proprio in rendimento di grazie per la vittoria nostra. Domanda assai banale: se io ringrazio Dio per aver vinto, chi è stato sconfitto, dovrebbe maledirlo? Eppure, la sensibilità cristiana dell’epoca è tale che patriottismo e preghiera si mescolano disinvoltamenente, senza troppi distinguo teologici.
A Torino, sulle pagine de ” La Consolata”, rivista fondata dal Canonico Allamano nel 1899, se ne dà conto in questo modo: il 7 novembre 1918 si canta Il TE DEUM con grande concorso di fedeli e di soldati e «con il fremito provocato dalla voce possente della grande campana salutante, insieme con lo sventolio dell’ampio tricolore issato sulla torre romanica del campanile». L’arcivescovo di Torino, il cardinale Agostino Richelmy, aveva composto di suo pugno una «preghiera alla Consolata pei nostri soldati in guerra»: invoca «conforto, coraggio e ardore»; intreccia l’amore di Patria e la devozione alla Madonna; si appella a Gesù «re della pace e Dio delle vittorie» (delle armi italiane); si rivolge a Maria perché interceda presso Gesù; invoca la consolazione delle madri angosciate per la sorte dei figli; affida le speranze a Gesù «re della pace»: «Maria, dite per noi una parola a Gesù; e Gesù ci guarderà con occhio di amore; e noi gusteremo le dolcezze della benedizione di Gesù, che è il Dio delle vittorie, il re della pace. Santi di Casa Savoia, pregate per il vostro figlio e nostro re: conduca egli l’Italia a una pace gloriosa e duratura». La festa patronale della Consolata, al 20 giugno, è vissuta come «auspicio di vittoria per le armi italiane» con l’invocazione «O Maria, consolateci come avete consolato i padri nostri». Informa la rivista: «Il nemico strapotente aveva sferrato la più formidabile offensiva, un urto non più di sole armate, ma di popoli su un fronte di 150 chilometri. E il popolo italiano partecipava alla lotta titanica in trepidazione, sospiri e preghiere. Poteva la nostra Madre Consolatrice rimaner sorda a tante lacrime, a tante suppliche?» Domanda retorica che sottintende un no: dunque, a leggere queste affermazioni, si sarebbe indotti a credere che Dio stesso, per interposta persona attraverso Maria, fosse stato presente sul Piave e nella riscossa decisiva che da lì prese l’ avvio… Quel che è certo è che nel luglio 1919 Richelmy benedirà all’esterno del santuario il pilone votivo, dono dei soldati italiani «a perenne ricordo della riconoscenza verso la Grande Madre che diede vittoria alle armi italiane». Gesù, Maria, Dio padre e i santi, come si vede, tirati giu’ (come peraltro da tradizione secolare) senza troppe remore dall’alto dei cieli per certificare e mettere il sigillo della divinità sulla Vittoria conseguita.
D’altra parte, la commistione tra religioso e militare, tra incenso e trincea, si era sviluppata per tutti gli anni del conflitto: qui di seguito riportiamo il testo di alcune delle cosiddette Preghiere del Soldato:
C’è però un’altra narrazione che si affianca, ed è quella che traspare dai racconti delle persone – soldati e familiari, ma anche cappellani militari – che si sono vissuti addosso la realtà cruda della guerra di trincea e della vita braccata dei combattimenti di posizione e di logoramento, molto lontana dalla retorica ispirata delle alate parole ufficiali, laiche o religiose che fossero. Ne sono traccia le lettere e le testimonianze, numerosissime, inviate da e per il fronte; ma ne sono anche chiarissimo esempio, nella loro forza documentale, che rasenta quella di una fotografia, i tanti exvoto dipinti che adornano le pareti dei santuari in quegli anni e successivamente. Lì si parla di un Cielo che segue paterno, sollecito e provvidente, una umanità abbandonata e intrappolata in un vero inferno di esplosioni, sangue, distruzione e morte. E siccome la sollecitudine e la protezione sono la prerogativa prima delle madri, l’interlocutrice primaria di questo raccomandarsi immediato e fiducioso è Maria, madre per eccellenza. Mio nonno, cavaliere di Vittorio Veneto e maggiore degli Alpini, sul Grappa durante la grande guerra, ci raccontava di quando la loro trincea venne rovinosamente centrata da una granata: l’intera compagnia resto’ sepolta sotto terra e assi, in una cacofonia di lamenti, pianti e suoni inarticolati. Su tutto sovrastava la voce incredibilmente potente di un suo commilitone, che ripeteva in tono perentorio MariaVergine! Maria Vergine! Commentava mio nonno: Non come quando si prega… ma come quando si chiama qualcuno.
Cercando tra le tante testimonianze originali, oggi digitalizzate e accessibili in rete, ci si imbatte in due passi che vale la pena segnalare. Sono entrambi tratti da un Diario di Guerra. Il primo consiste in una pagina sarcastica e beffarda, una vera e propria riscrittura del Credo in chiave antiaustriaca e, più in generale, antimilitarista: Il Credo di Francesco Giuseppe
A questa pagina, se ne affianca un’altra, poco oltre nel testo, che è invece una preghiera vera, del cuore: come se il sarcasmo sferzante della prima, coabitasse e cedesse il passo, in determinati momenti, alla fede ultima, alla speranza nella religione.
Un’altra testimonianza immortala, come in una istantanea, una Messa al fronte, con uno zoom sulla figura del cappellano militare, personaggio che ebbe un doppio ruolo importantissimo: fungere da consulente/interprete nel tenere i rapporti scritti a mezzo lettera tra i soldati e le famiglie a casa – indispensabile in una situazione in cui l’analfabetismo impediva spesso ogni comunicazione diretta; e curare l’assistenza spirituale dei soldati: lontano dal fronte, al fronte, negli ospedali da campo, al momento della morte. Cerniera tra la Chiesa ufficiale, per dir così , “restata a casa” e il piccolo, grande mondo trapiantato sulle linee di battaglia a combattere per l’ Inutile Strage evocata da Benedetto XV.
“Il comando di reggimento ha deciso che stamane abbia luogo la celebrazione della messa al campo, cui prenderanno parte tutti i militari liberi dal servizio.
Alle ore dieci su uno spiazzo erboso, fra Mocile e S. Paul, sotto un cielo leggermente coperto, il professore don Capoduro, cappellano militare, vestito sacri paludamenti, celebra il rito. L’altare è di forme semplicissime: una tavola con su steso un panno bianco, quattro candelabri, un calice, un piccolo libro e un crocifisso. La truppa è disposta intorno per compagnie, inquadrate dai rispettivi ufficiali. Il tempio è maestoso, rappresentato dalle colline che ci circondano e che si elevano sul campo di battaglia. La luce tremolante delle candele, appena visibile, e il fumo dell’incenso infondono un senso di pace e di dolce mestizia. Il Sacerdote, nel recitare le preghiere, si rivolge al Cristo che col capo insanguinato e inchiodato sulla croce par che dica: “Amate, perché ho insegnato ad amarvi come fratelli. Distruggete le fonti di contesa e riscaldatevi al fuoco della mia carità.” Ma noi pensiamo che è tutta una contraddizione la umana natura, animata spesso da lotte feroci che annientano e che creano, da egoismi, da passioni, di cui non è facile trovare la causa.
Quando don Capoduro pronunzia le preghiere per i defunti, un velo di commozione e di tristezza si stende sul viso degli astanti. Pensiamo ai Prodi, caduti in questo primo anno di guerra e al loro dovere compiuto fino al sacrificio della vita. Per me chiedo alle anime dei trapassati forza e coraggio nell’adempimento del mio dovere.
Terminata la degna commemorazione che ci ha procurata una grande serenità di spirito, due shrapnells scoppiano nel cielo diventato azzurro, lanciando violentemente in basso una pioggia di pallette che investe il reparto Stato Maggiore. Quattro militari rimangono colpiti, uno dei quali cade pesantemente al suolo.
E’ il caporale Iori Alcide, cui una palletta è penetrata nel cranio. Ci avviciniamo, è già in istato comatoso, ha gli occhi semi-aperti, respira a fatica ed emette dalla bocca bava sanguigna.
Viene disteso su di una barella e sollecitamente fasciato con un pacchetto di medicazione. A causa del suo stato grave riteniamo inutile trasportarlo; difatti ben presto si addormenta nel sonno eterno. Sarà sepolto presso Kostanjevica.
La santa giornata, vissuta dal 66° Regg. Fanteria, ha voluto il suo martire e come tale sia accolto in cielo!”
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- Le notizie e le citazioni sul giornale “La Consolata” durante la guerra 15/18 sono tratte da https://vocetempo.it/centanni-fa-finiva-la-grande-guerra-la-chiesa-torinese-cantiere-daiuto-per-le-vittime/
- Il Credo di Francesco Giuseppe e La preghiera del 205 Reggimento Fanteria sono tratte dal diario di guerra del soldato Celestino Bruno, nato ad Alessandria il 4 ottobre 1896- Cfr: https://uploads.knightlab.com/storymapjs/95e1bdc3335d60e0f036b5113d23264d/diario-del-soldato-bruno-celestino/index.html
- La descrizione della Messa al campo è scritta da Rocco Egidio De Bonis, Kambresko, Slovenia il 15 giugno 1915- Cfr: https://racconta.gelocal.it/la-grande-guerra/index.php?page=estratto&id=824