Molta sapienza, molto affanno

19 Febbraio 2022Lorenzo Cuffini

Scritto da MARIA NISII

https://www.youtube.com/watch?v=aiShe3nM0_4

 

Molta sapienza, molto affanno;

chi accresce il sapere aumenta il dolore  (Qohelet 1,18)

 

Con questa citazione tratta dal libro di Qohelet il capitano Walton dà l’ultimo saluto alla salma del dottor Frankenstein, che prima ha accolto sulla nave e poi ne ha ascoltato la storia drammatica. Si tratta di una scena del film di Kenneth Branagh (Frankenstein di Mary Shelley del 1994), perché nel romanzo questa pagina non esiste. E tuttavia ben si sposa al personaggio che è stato lo scienziato, ultimo di una lunga serie di figure leggendarie accomunate dal principio enunciato dalla sapienza biblica del Qohelet.

L’origine di Frankenstein è già in sé un romanzo, storia nella storia: nell’estate del 1815 Mary Shelley e suo marito si trovano in Svizzera con Lord Byron. Il tempo inclemente costringe il gruppo di letterati a intrattenersi in lunghe discussioni filosofiche sul principio della vita, sugli esperimenti di Darwin, sul galvanismo. Così suggestionata, una notte la scrittrice immagina la vicenda che si visualizza davanti ai suoi occhi e all’indomani, anche persuasa dal marito poeta, si mette al lavoro.

Il titolo completo del romanzo indica il modello di riferimento: Frankenstein o il moderno Prometeo. Mary Shelley ha infatti ritratto il suo protagonista richiamandosi a quell’antico mito, ma fondendo in lui il Prometeo della mitologia greca, che ruba il fuoco agli dei in un atto di ribellione contro il destino per donarlo agli uomini e salvarli, e il Prometeo nella versione romana, che plasma esseri viventi dalla creta. Il dottor Frankenstein incarna quindi il desiderio di conoscenza che muove l’umano, nell’atto di ribellione al divino e nel suo fare creativo.

Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori dalla stanza… quando alla luce fioca e gialla della luna che penetrava a fatica dalle persiane chiuse, mi vidi davanti il disgraziato – il miserabile mostro che avevo creato(cap. V)

Il verbo “creare” che pertiene solo a Dio è quindi usato a profusione in tutto il testo, mentre la miserabile “creatura” definisce di rimando lo scienziato come suo “creatore”:

Gli uomini odiano i disgraziati; quanto, dunque, devo essere odiato io, la più miserabile di tutte le creature viventi! Anche tu, mio creatore, detesti e disprezzi me, la tua creatura, a cui sei legato… (cap. X)

 

 

Il richiamo prosegue con l’identificazione della creatura senza nome nel primo uomo:

Ricorda che sono la tua creatura; dovrei essere il tuo Adamo, ma sono piuttosto l’angelo caduto, che tu scacci dalla gioia senza alcuna colpa… Tuttavia non ti chiedo di risparmiarmi: ascoltami soltanto, e poi, se puoi e se vuoi, distruggi pure l’opera delle tue stesse mani. (cap. X)

La citazione finale, tratta dal Salmo 19, suggella l’associazione di Frankenstein al fare creativo narrato in Genesi. Ma in questo “fare” si condensa pure tutta la rivolta a Dio che l’atto creativo ha comportato. Per questo Frankenstein rifiuta immediatamente la creatura non appena questa prende vita: la sua deformità è infatti specchio della mostruosità delle azioni compiute. Terrificante dunque non è tanto l’essere in sé, ma quello che rappresenta: l’imitazione del meccanismo creativo, la riproduzione senza una figura materna, il ridare vita a ciò che è morto. Il mostro è il lato oscuro del suo creatore, il suo doppio.

La sete di conoscere e l’ambizione per quell’innaturale esperimento l’hanno infatti reso cieco. Il peccato di Frankenstein è allora un peccato di hybris, la tracotanza umana di tradizione greca, e dunquedi vanità secondo il leitmotiv di Qohelet.

 

 

Nel linguaggio biblicamente erudito della creatura deforme emerge di conseguenza un’altra ribellione, speculare a quella del dottore: il grido di Giobbe al suo creatore al culmine del dolore:

Maledetto il giorno in cui ricevetti la vita!… maledetto creatore! Perché hai dato forma a un mostro così orrendo che persino tu ti sei ritratto da me disgustato? Dio, pietosamente, fece l’uomo bello e seducente, secondo la propria immagine; ma la mia forma è una copia schifosa della tua, resa ancora più orrida dalla stessa rassomiglianza. (cap. XV)

Prima abbandonato dal suo creatore e poi isolato dagli uomini per l’aspetto repellente, invariabilmente associato a una natura perversa e malvagia, l’infelice si vede condannato a un’esistenza di solitudine. E poiché non è bene che l’uomo sia solo, anche lui desidera una compagna e va dal suo creatore a vantarne una:

Devi crearmi una femmina, con cui io possa vivere e scambiare quegli affetti necessari per la mia esistenza. Tu solo puoi farlo, e te lo chiedo come un diritto che non puoi rifiutare di concedermi (cap. XVII)

 

 

Poco prima gli aveva raccontato la sua triste storia a partire dal momento della nascita, quando il suo creatore era fuggito inorridito. Le parole pronunciate a commento ne fanno la degna creatura di Frankenstein:

Ero dunque un mostro, un’aberrazione sulla faccia della terra, da cui tutti fuggivano e che tutti ripudiavano? Non so descriverti l’angoscia che queste riflessioni mi procuravano. Cercavo di scacciarle, ma la pena aumentava insieme alla mia conoscenza. Oh, se fossi rimasto per sempre nel mio bosco natio, e non avessi conosciuto e provato nulla, se non sensazioni di fame, sete e caldo! Che strana cosa la conoscenza! (cap XIII)

Il triste essere si arrovella con grande acume attorno alla questione iniziale: il conoscere è fonte di dolore; meglio sarebbe stato per lui ignorare ogni cosa e vivere nella beata semplicità della vita istintuale. Ma una volta acquisita, di conoscenza egli non è mai pago e continua a tormentarsi:

Chi ero? Che cosa ero? Da dove venivo? Qual era la mia destinazione?… Come Adamo, non sembrava che fossi unito da alcun vincolo a un altro essere vivente; ma sotto ogni altro aspetto il suo stato era ben diverso dal mio. Egli era uscito dalle mani di Dio come una creatura perfetta, dotata e felice, protetta con particolare cura dal suo Creatore; a lui era concesso parlare con esseri di natura superiore, da cui riceveva conoscenza, mentre io ero solo, infelice e derelitto. (cap. XV)

 

 

Più vive e osserva il mondo attorno a sé, più la creatura “impara” (scoprii che la mia capacità di capire aumentava talmente con l’esperienza di ogni giorno). E il suo apprendere assume e assorbe le categorie umane, così che

l’accresciuta conoscenza non faceva ora che mostrarmi più chiaramente che infelice e reietto io fossi. Nutrivo speranze è vero; ma svanivano quando vedevo le mie sembianze riflesse nell’acqua…

Nato buono e innocente, l’essere abbandonato da chi l’aveva chiamato alla vita con un aspetto deforme e repellente, si trasforma gradualmente in mostro perché ogni nuovo incontro con un altro essere umano lo conferma nel suo destino di solitudine. Inevitabile come i richiami al diabolico diventino il linguaggio d’elezione per esprimere il cambiamento della natura che, dall’esterno, penetra gradualmente nell’intimo del suo essere.

Molte volte mi venne fatto di pensare a Satana come a un emblema più appropriato per la mia condizione, perché spesso, come lui, quando vedevo la felicità dei miei protettori, sentivo il sapore amaro dell’invidia crescermi dentro (cap. XV)

Io, come l’arcidiavolo, mi portavo dentro un inferno (cap. XVI)

Aspetterò con l’astuzia del serpente per colpire con il tuo stesso veleno. (cap. XX)

E quando infine Frankenstein deve mettere in guardia Walton del possibile arrivo del mostro sulla nave, lo previene con un’interessante descrizione:

É eloquente e persuasivo… ma non fidatevi di lui. La sua anima è satanica quanto la sua figura, piena di inganni e di astuzia diabolica (cap XXIV).

La creatura virtuosa ha conosciuto il male in tutte le sue forme, uccidendo le persone care a Frankenstein pur di realizzare la sua vendetta. Eppure anche allora la sua natura non è totalmente corrotta – come ammette a conclusione, di fronte al corpo esangue del suo “genitore”:

Pur straziato com’eri, la mia agonia era maggiore della tua, perché l’amaro pungolo del rimorso non cesserà di infettare le mie ferite finché la morte non le chiuderà per sempre.

Ha conosciuto la vita, il desiderio dell’amore e la sua frustrazione, ha fatto esperienza del male non senza conoscerne il rimorso. Alla sua infelicità resta un’ultima frontiera del conoscere. Vanità delle vanità. Tutto è vanità, dice Qohelet.

 

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