Padre mio, perché mi hai abbandonato?

14 Aprile 2018Lorenzo Cuffini

 

 

Scritto da MARIA NISII.

 

 

“Ed eccoci qua, infine. Così si compie tutto” (G. Culicchia, Padre mio, perché mi hai abbandonato?,p. 23)

Un incipit dai toni biblici apre l’ultimo racconto del progetto “Scrittori di Scrittura” – per quella congiunzione iniziale, che segnala il collegamento con quanto precede e per quell’intenzione di compimento che più di tutto richiama le ultime parole di Gesù sulla croce nella versione dell’evangelista Giovanni.

 

Velasquez, Cristo crucificado

 

Un altro vangelo allora, che sembra idealmente voler continuare una storia precedente rimasta fuori dalla pagina scritta. E dunque da cercare altrove – nelle letture personali di ciascuno, che ogni volta il lettore è chiamato a comporre. Anche nelle riscritture.

“Sono un soldato, io. Non un boia. Marte mi è testimone”: un vangelo secondo il centurione romano, che sotto la croce riconosce in quell’uomo la figliolanza divina (nella versione di Marco e Matteo, mentre in Luca si limita a riconoscerne la giustizia). Usare come centro di focalizzazione un personaggio minore è sempre una tecnica narrativa interessante – non solo perché sposta il punto di vista tradizionale a cui si è abituati, ma anche perché offre tridimensionalità a un personaggio piatto, di quelli che esistono sulla scena per una sola battuta o un unico gesto. Il campo di manovra del riscrittore è in questo caso ben più ampio: se di lui si sa poco, gli si può offrire la caratterizzazione più adatta alle proprie intenzioni.

Il centurione emerge qui in primo piano, sebbene non esca dall’anonimato. Di sé ci offre brevi squarci di un passato familiare e ricordi più e meno lontani delle tante violenze subite e perpetrate sui fronti militari. “Ma questa è una cosa diversa. Questa cosa mi ripugna” (26): se proprio deve pronunciare quella fatidica frase al momento della morte, a questa bisogna preparare il terreno, perché è indubbio che l’ellitticità dei vangeli la fa risultare un po’ enigmatica – solo appena più giustificabile nella versione di Matteo.

Il centurione romano osserva e racconta quanto ci è già noto dai testi canonici, componendo una sorta di diatessaron[1] della passione. La narrazione mette cioè insieme le versioni dei quattro vangeli come fossero un unico racconto. Niente di strano d’altronde, specie nel mondo delle riscritture – a partire dalla composizione delle sette parole di Cristo sulla croce nella versione musicale di Joseph Haydn, Septem verba Christi in Cruce ( puoi ascoltarle qui https://www.youtube.com/watch?v=ecNmELbr9x4&feature=youtu.be– ) a sua volta già spunto di meditazione per il tempo di quaresima, in cui appunto si riuniscono le frasi che i quattro vangeli riportano in un continuum esegeticamente indistinto.

 

 

La versione di Culicchia ci invita a guardare all’uomo in croce da una nuova prospettiva – il che aiuta sempre a non cadere nell’assuefazione del già noto. E tuttavia il racconto non è soltanto inquadrato da una diversa angolatura, in quanto questo sguardo ci rivela qualche novità e un colpo di scena finale. Un fuori testo dunque, ma non esente di una sua plausibilità interna.Il centurione dà da bere al crocifisso e da lui si sente guardato – a dispetto del buio pesto calato all’improvviso sul Golgota. Quella pietà per i crocifissori, che percepisce nello sguardo di Gesù, a dispetto della sofferenza inaudita che sta patendo, lo tocca dentro. E per la prima volta nella sua vita, trasgredisce agli ordini.

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[1]Il Diatessaron è stato il primo tentativo della storia del cristianesimo, con cui si siano armonizzate in un’unica narrazione le versioni dei quattro vangeli. Composto verso il 170 da Taziano il Siro, ha inoltre incluso fonti esterne ai vangeli canonici. Il testo ha goduto di grande popolarità e per due secoli è stato il vangelo delle chiese di lingua siriaca. La sua esistenza ricorda come molto presto la diversità delle versioni sia stata percepita come problematica.

 

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