Pretty women
Scritto da MARIA NISII.
In questo bel libro di Radcliffe, sconcerta non poco trovare un’affermazione come quella riportata a conclusione della citazione. Se pure si tratta di una ripresa da san Tommaso, certo la si poteva «ritoccare» alla luce della sensibilità contemporanea, come tutto il libro si sforza in ogni modo di fare. Non è improbabile che all’orecchio di tanti la questione passi persino inosservata per via dell’uso e abuso di certe espressioni (rimando al bel discorso di Paola Cortellesi che mostra il florilegio di parole sorte attorno al cosiddetto «mestiere più antico del mondo»: https://www.youtube.com/watch?v=4WjhLSkXqTk). Ma spero passi inosservata a sempre meno persone, e a questo scopo offro ora il mio piccolo contributo. Perché, mi chiedo, se proprio bisogna individuare due categorie moralmente pregevoli e disdicevoli, si deve individuare quella buona al maschile («santo») e quella sciagurata al femminile («prostituta»)? I vangeli riportano che Gesù era accusato di mangiare con pubblicani e prostitute, con un’interessante parità di genere considerati i tempi.
Se solo ci si sofferma a pensare (anche per poco e superficialmente) allo stigma sociale che grava sulla prostituta, credo che chiunque noterà l’ingiustizia che vede il peso del peggiore moralismo riversato solo sulla donna, la quale vende il proprio corpo per disperazione, sopportando violenze e abusi di ogni sorta, aggravati da insulti razziali se è il caso – come spesso capita – di una donna di colore o di altra etnia. Niente invece sugli uomini, i «clienti» per usare un eufemismo, che rendono tanto redditizio a protettori e protettrici tale reclutamento forzato. Essere attenti alle questioni di genere può essere persino un atto di misericordia, sebbene in tanti ne abbiano ancora una gran paura.
Ultimamente sulla pagina Facebook della Pastorale della cultura della diocesi di Torino è stato segnalato un interesse del pubblico, in parte inatteso, nei confronti dell’ennesima replica televisiva di Pretty woman, un film del Novanta in cui lo stigma moralistico fa appena capolino dalla voce di un personaggio negativo, chiaro segno che del mestiere della protagonista non ci si preoccupi davvero seriamente. Il genere fiabesco, che si richiama per giustificare tale leggerezza, è però poco pertinente. La fiaba infatti nasce come strumento educativo che si tramanda tra generazioni e nel suo linguaggio immaginifico non cela il lato oscuro dell’esistenza (come fanno le versioni edulcorate Disney), parlando della lotta contro le difficoltà della vita. Naturalmente lo fa impiegando alcune strategie necessarie a raggiungere il suo destinatario, quali la polarizzazione di personaggi e situazioni (bene e male sono schematicamente suddivisi) più comprensibili a un bambino, per il quale non esistono ambivalenze e ambiguità.
La fiaba favorisce lo sviluppo sano del bambino con una struttura narrativa che passa dal conflitto alla sua risoluzione, raccontando storie che problematizzano le varie fasi della crescita come l’ansia da abbandono (Hansel e Gretel, Pollicino), il passaggio alla pubertà femminile (Cappuccetto rosso, La bella addormentata) o il rapporto irrisolto di un’adolescente con una madre gelosa (Biancaneve, Cenerentola, Rapunzel) per fare solo gli esempi più noti. Ricorrere al genere fiabesco per Pretty woman sembra invece un modo per spiegare la facilità della soluzione finale, per rendere ragione del fatto che un uomo d’affari bello e ricco possa interessarsi a una povera ragazza senz’arte né parte. Ma se è a quello che si vuol far riferimento, è più opportuno parlare di genere rosa che di fiaba, perché appunto le fiabe sono un’altra cosa.
Non fiaba allora nel senso riduzionistico del termine – come mi pare venga attribuito a questo genere dell’antica tradizione orale che poi si sedimenta in forma scritta, proprio come la Bibbia -, anche Pretty woman possiede elementi di valore, forse meno evidenti a chi cerca la gratificazione del lieto fine in un sogno impossibile da realizzare nella vita reale. Vivian-Julia Roberts è a tutti gli effetti una figura salvifica, perché più che essere «salvata» dal principe azzurro-Richard Gere, è capace di riscattare la vita di un uomo cinico e disinteressato ai legami. È una ragazza di strada, finita lì – come tante altre – per fuggire di casa con un ragazzo che si è poi rivelato un balordo, ma a cui manca il coraggio di tornare indietro. Se la sua è dunque una storia alquanto paradigmatica, su cui si sorvola fin troppo facilmente, lo è meno la piega che assumono gli eventi.
Pur essendo presentata come prostituta, quello di Vivian è un personaggio positivo che rovescia l’immaginario moralistico di un’America sempre profondamente puritana. Mi chiedo perché la cosa dovrebbe stupirci visto che già nella Bibbia le prostitute non sono sempre personaggi negativi e anzi talvolta compaiono in snodi narrativi dove il loro intervento è risolutivo e salvifico. Il primo caso è Tamar (Gen 38), che finge di essere una prostituta con il suocero Giuda che l’ha abbandonata al suo destino dopo aver perso i due figli a cui lei era stata data in moglie. Il suocero cade nell’imbroglio della nuora, rivelando il lato incontenibile del desiderio maschile, che la Bibbia non si preoccupa di censurare. Ma da quell’incontro carnale nasceranno due gemelli, Peres e Terach, e Giuda – come sappiamo –è uno dei 12 figli di Giacobbe, capostipite di una delle maggiori tribù di quello che sarà il popolo ebraico in Terra promessa. Una posterità ottenuta grazie allo stratagemma ideato da una nuora ferita, che ha saputo garantirsi il proprio risarcimento all’unico prezzo che era possibile a una donna a quei tempi.
Erri De Luca commenta così la vicenda di Tamar: «Inaugura lei la breve lista di donne entrate nell’elenco del messia, che con il loro corpo infrangono la legge per dare una più giusta e misteriosa applicazione. Partorì due gemelli, Peretz e Zàrah, la somma numerica dei loro nomi è uguale a quella di ‘serefà’, incendio, cui era destinata la madre. Loro sono il contrappeso equivalente della salvezza. Uno di loro, Peretz, sta nella discendenza che produrrà il messia» (Le sante dello scandalo p. 23).
Nel libro di Giosuè compare poi il personaggio di Raab, prostituta di Gerico, che accoglie in casa sua le spie ebree arrivate lì in avanscoperta, le nasconde mettendo fuori strada chi le cercava e infine favorisce la presa della sua città con il segnale convenuto. Lei infatti, pur essendo straniera, riconosce il Dio d’Israele: «So che il Signore vi ha consegnato la terra. Ci è piombato addosso il terrore di voi e davanti a voi tremano tutti gli abitanti della regione, 10poiché udimmo che il Signore ha prosciugato le acque del Mar Rosso davanti a voi, quando usciste dall’Egitto, e quanto avete fatto ai due re amorrei oltre il Giordano, Sicon e Og, da voi votati allo sterminio. 11Quando l’udimmo, il nostro cuore venne meno e nessuno ha più coraggio dinanzi a voi, perché il Signore, vostro Dio, è Dio lassù in cielo e quaggiù sulla terra.» (Gs 2,8-11). Per questo sarà risparmiata dalla legge dello sterminio:«Giosuè lasciò in vita la prostituta Raab, la casa di suo padre e quanto le apparteneva. Ella è rimasta in mezzo a Israele fino ad oggi, per aver nascosto gli inviati che Giosuè aveva mandato a esplorare Gerico» (Gs 6,25).
Come facesse Raab, donna pagana e senza istruzione, a riconoscere il Dio d’Israele, lasciamo che sia ancora Erri De Luca a spiegarlo in un passaggio dai toni romantici, che non manca in tanti nostalgici delle case chiuse: «La prostituzione è mestiere di confine, accoglie uomini di passaggio senza chiedere documenti, raccoglie notizie da chi beve un bicchiere e racconta volentieri. Le prostitute hanno orecchie discrete, sanno tenere i segreti. Le prostitute sono il contrario delle comari» (Le sante dello scandalo p. 26).
Le altre ricorrenze bibliche in cui compare l’epiteto in questione rimandano al significato tradizionale. Rompe lo schema solo Gesù che, disinteressato al giudizio morale, ha guardato la donna e non il peccato che si porta dietro come una macchia indelebile. È il caso della donna anonima che arriva nella casa di Simone il fariseo in Lc 7, di cui Gesù accetta i gesti di amore (gli bagna i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli) e che congeda con «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». Similmente si comporta con l’adultera che gli viene portata a giudizio in Gv 8 da scribi e farisei per metterlo alla prova, e che saluta con «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Gesù guarda queste donne con occhi nuovi rispetto alla morale patriarcale disinteressata a coinvolgere il maschio con cui hanno peccato e tutta rivolta a colpire la donna, che con il suo corpo rappresenta una tentazione insuperabile. Non è un caso che l’islam e un certo ebraismo ultraortodosso impongano al femminile rigide norme di abbigliamento, invece di educare il desiderio maschile. Non sta meglio l’Occidente secolarizzato, che nel suo apparente liberalismo è disposto a chiudere un occhio sulla piaga della prostituzione né sembra meglio capace di educare il desiderio maschile che continua a mietere vittime (violenze in famiglia, stupri di gruppo, pedofilia, femminicidi).
Nella vicenda di Vivian, per quanto poco problematizzata,la donna è strumento di salvezza per se stessa e per l’uomo di cui si innamora. L’amore salva – anche a Hollywood. E se queste storie piacciono e Pretty woman continua a incollare allo schermo milioni di telespettatori a ogni replica è perché abbiamo bisogno di crederci. Anche quando non credessimo più che quell’amore sia specchio inaudito dell’amore divino. Anzi, meno crediamo in Dio e tanto più abbiamo bisogno di storie «sentimentali» che raccontino un amore impossibile. Un amore tutto umano, terreno, magari anche provvisorio. Purché sia – foss’anche per il breve spazio del tempo della proiezione.