Quando il titolo diventa importante

4 Dicembre 2021Lorenzo Cuffini

 

Scritto da  NORMA ALESSIO.

Se osserviamo un dipinto con soggetto tratto dalle sacre scritture e non ne conosciamo il titolo, cercheremmo di identificarlo ricorrendo alle nostre conoscenze sull’iconografia cristiana.

 

 

Se ci trovassimo davanti al famoso quadro qui riportato di Paolo Caliari detto il Veronese, realizzato nel 1573, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, difficilmente riusciremmo a darne un titolo: sicuramente diremmo che è un banchetto, ma quale dei quindici pasti raccontati da Gesù nei Vangeli? Veronese dipinse una serie di Sacre Cene in complesse scene di vita veneziana del Cinquecento, dove fece trapelare l’evento sacro rappresentato in aperta rottura con la tradizione iconografica precedente. Cerchiamo allora di analizzarne il contenuto e individuarne quello corretto: vuol dire cioè capire chi sono i personaggi raffigurati e quali fossero state le intenzioni dei committenti e dell’artista.

Iniziamo dalle fonti storiche relative all’affidamento dell’incarico a Paolo Veronese – da parte del domenicano padre Andrea de’ Buono, nel 1571 –  di dipingere nel refettorio del convento dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia una “Ultima Cena” che sostituisse quella precedente di Tiziano distrutta da un incendio. In quel momento storico, in un clima di forti contrasti tra i domenicani divisi tra conventuali, presenti nel convento, e osservanti, che richiamavano il rispetto della regola originaria con l’abbandono di privilegi e concessioni. Questo contesto deve aver condizionato la scelta dell’artista e i contenuti del dipinto. Il refettorio per i monaci è riconosciuto quale luogo di meditazione in cui c’è il rispetto del silenzio e l’obbligo dell’ascolto della Parola di Dio durante il pasto. Veronese affrontò il tema dell’ultima cena da un punto di vista molto innovativo e particolare. Il risultato è un’apparente festa mondana che non ha nulla della canonica sacralità e intimità dell’Ultima Cena descritta nei Vangeli e limitata ai soli apostoli, così come interpretata nella pittura precedente. Originale riscrittura di Ultima Cena: troppo affollata, confusa e, in più, senza tracce dei necessari segni eucaristici del pane e del vino. Sebbene fosse uno dei momenti salienti della vita di Gesù, quello in cui sta per congedarsi dai suoi discepoli e svelare il tradimento di Giuda, l’attenzione non è concentrata sulla tavola dove sta Gesù, ma è distratta da altre scene collaterali che non hanno niente a che fare con la vicenda biblica. Contestualizzando il momento storico, Veronese opera nel periodo della Controriforma, quando la Chiesa, dopo la Riforma Luterana, era chiamata a rivedere profondamente la sua modalità di comunicazione anche attraverso le immagini e agiva sulle eresie attraverso il Tribunale Ecclesiastico. Paolo Veronese proprio per questa sua opera venne processato per alcune sue eccessive “libertà” nella raffigurazione. Egli non accettò le richieste di modifiche al dipinto, difese il suo operato coraggiosamente, motivando le proprie scelte di artista: dapprima appellandosi all’autonomia che gli artisti e i poeti si prendono per dare sfogo alla loro creatività, rivendicando il diritto a mostrare la realtà secondo la sua sensibilità; poi, analizzandole, spiegò la presenza e la disposizione di alcune figure contestate dall’organo religioso. Alla fine si chiese a Veronese di indicare un titolo che si potesse adattare a quella cena considerata indecorosa e che non presentasse i caratteri identificativi dell’ultima cena. Scelse il “Convito in casa di Levi”, quello riportato in Luca 5,28-29, in cui Levi, o Matteo, invita Gesù a un banchetto, subito dopo essere stato chiamato fra gli apostoli, per il congedo dai suoi amici. Veronese lo dovette scrivere nel dipinto, per chiarire quale fosse l’episodio, come una sorta di dichiarazione, diviso sui pilastri che limitavano le balaustrate delle due scale, sopra la data 20 aprile 1573, giorno in cui l’opera era stata effettivamente consegnata: “FECIT D[OMINO] CO[N]VI[VIUM] MAGNU[M] LEVI” cioè «Levi fece un grande convito per il Signore» completata sul lato opposto dal riferimento al passo evangelico: Luca, capitolo 5. Questo, a quanto pare, è stato l’unico intervento, confermato anche dalle indagini diagnostiche durante il restauro dell’opera, in cui sono state evidenziate solamente tracce di pentimenti in fase di esecuzione e non modifiche successive.

Dopo queste premesse, osserviamo l’opera nel dualismo della validità dei contenuti dei due episodi: è una cena (da notare il buio sullo sfondo) dove l’intera composizione si svolge suddivisa in tre parti.

 

 

Al centro, sta Gesù, col capo circondato da un alone di luce chiarissima, intento a dialogare con l’apostolo Giovanni, seduto alla sua sinistra; ai lati Andrea e Giacomo, concentrati ad osservare il gesto di Pietro che è seduto alla destra di Gesù, intento a staccare una coscia dell’agnello. Le altre figure, tutte maschili tranne una donna di ridotte proporzioni, organizzate in due gruppi, sono ritratte negli atteggiamenti allegorici più disparati e contrapposti dalla sinistra alla destra: conversano con altri convitati, si guardano intorno distrattamente o bevono vino, mentre i servi affaccendati servono in tavola. Sul lato opposto del tavolo centrale, stanno seduti, rivolti verso l’osservatore (i monaci a pranzo), due uomini: uno con abito e berretto rosso (un monaco conventuale e/o il fariseo?) e l’altro a testa scoperta (il monaco osservante e/o lo scriba?), che appaiono completamente disinteressati. Ai piedi vi sono anche due cani riferibili al simbolo dei domenicani, dal latino domini canes, cani del Signore, ossia difensori della verità che azzannano gli eretici.

Al tavolo possiamo ancora vedere due figure dai comportamenti opposti: a sinistra, tra le due colonne, un commensale che fa un uso improprio della forchetta stuzzicandosi i denti, mentre sulla destra un nobile con la salvietta sulla spalla, che impiega coltello e forchetta.

Allontanandoci ancor di più dal centro, tre personaggi scendono le scale. A sinistra, appoggiato alla balaustra, un servo che, sanguinando dal naso, s’è macchiato il colletto; a destra due soldati (lanzichenecchi), probabilmente tedeschi, intenti a bere.

I personaggi contestati dal tribunale e incongrui alla narrazione sono: il servo colto da epistassi, con le domande: “che significa la pittura di colui che li esce il sangue del naso […], i soldati, quelli armati alla Thodesca?”; il buffone ubriaco con il pappagallo? e poi…l’azione di Pietro a spezzare l’agnello invece di Gesù? Maria Elena Massimi, storica dell’arte e docente di teologia sacramentaria, autrice del libro “Cena in casa di Levi di Paolo Veronese. Il processo riaperto” -Venezia 2011- si interroga a proposito del dipinto, su che cosa si stia guardando e prova a considerare nei dettagli la scena del quadro confrontandola con le possibili occasioni conviviali di Gesù presenti nelle scritture, dove vi sono particolari che permettono una facile identificazione. Il risultato è che riconosce plausibile, pur rimanendo un mistero, che si tratti di una Cena Ultima avvenuta in casa Levi vista la scritta, ma più probabilmente di una Cena in casa del fariseo, sulla base del brano del Vangelo di Luca (11, 37-54) in cui Cristo attacca l’ipocrisia degli scribi e dei farisei. Effettivamente questo poteva essere stato un modo con cui i domenicani conventuali veneziani e Veronese denunciavano l’ambiguità della Chiesa del loro tempo e la contrapposizione tra il buono e il cattivo chierico.

Ancora curioso è che il personaggio vestito di verde, collocato alla sinistra, sia proprio Paolo Veronese, come è stato identificato da qualche studioso. L’ambiguità interpretativa continua a permanere!

 

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