Quando si riscrive DIOS per raccontare Maradona

28 Novembre 2020Lorenzo Cuffini

Scritto da  LORENZO CUFFINI.

 

Premessa necessaria.

Qui non ci si occupa di Diego Armando Maradona. Né come calciatore, né come personaggio, né come uomo. Né, tantomeno, si vogliono esprimere giudizi sotto nessuno dei tre profili. Ci si sofferma piuttosto  su una questione di comunicazione, cioè di racconto di una notizia. E dunque ci si occupa di come è stata data, in giro per tutto il mondo, l’annuncio della morte del Pibe de oro.

E quello che balza agli occhi, dopo due giorni di abbuffata di titoli, articoli, servizi,  dibattiti e speciali che hanno occupato giornali, tv, radio e  rete,  è il fatto che la più utilizzata delle categorie che è stata tirata in ballo nelle rievocazioni sia stata quella della divinità. Cosa non così scontata e piana. Abbiamo infatti avuto negli ultimi anni molti casi di morte di personaggi celebri e popolari, ma senza che il loro nome venisse accostato a quella specifica categoria, e in modo poi così diretto e familiare. La stessa cosa, tanto per dire,  non è accaduta,  alla scomparsa di Lady D, che pure suscitò un’eco similare per impatto emotivo e per risonanza mondiale. O alla morte, se ci si consente il paragone,  di Giovanni Paolo II, per il quale ci si fermò al celebre “santo subito” e al “ Giovanni Paolo Magno “, o “il grande”.

Nel caso di Maradona, invece, il coinvolgimento di Dio è stato immediato e crescente. E non solo quello della parola dio, di un deus generico, ma proprio del Dio cristiano, con tanto di riferimenti piu’ o meno sofisticati  al “nostro” mondo religioso. Vanno dette due cose. La prima. Per i titolisti, metà del lavoro era già stato fatto da quella mitica battuta sulla “mano de Dios” : nell’epica argentina era quella abbattutasi a castigare gli inglesi in un famoso Mondiale; nella realtà, la mano dello stesso Diego che molto poco spiritualmente firmò – con la sua, di mano – una rete passata alla storia del calcio. Da notare che la “chiamata in campo”di Dio  a proposito di un gol di Maradona era già stata utilizzata dallo stesso calciatore: guardando l’altra sera, su Rai 3, il documentario “DIEGO MARADONA” di Asif Kapadia, ho constatato che viene mandata in onda una intervista in un post partita ai tempi della prima stagione giocata del Napoli ( si trattava di un Napoli- Fiorentina) in cui lui stesso, richiesto di commentare un suo gol, dichiarò ( cito a memoria): quel gol lo ha fatto Dio, non lo ha fatto Maradona. Non per niente , il sottotitolo di quel film – molto bello –  così recita: “Ribelle. Eroe. Sfrontato.Dio.”

 

 

Il film è del 2019. Ma la progressiva santificazione di Diego Armando data da molto prima, e proprio dagli anni trionfali del suo periodo napoletano ( trionfali sino al volgere precipitosamente in basso della sua parabola di personaggio e uomo, a dire il vero). Sta in questo aspetto il secondo elemento di cui tener conto nel valutare il binomio Maradona – Dio così insistentemente usato in queste ore. Per la verità i tifosi napoletani si erano mossi a livello piu modesto, per così dire, e locale,  spingendosi fino a san Gennaro : e questa linea non è stata abbandonata, se immediatamente, poche ore dopo la scomparsa, sulle bancarelle delle statuine del presepio napoletane ha fatto capolino in tempo reale un riccioluto Maradona azzurro vestito con tanto di scenografiche ali. Spuntate a garanzia del sicuro Paradiso conquistato a furor  di popolo. E sembra riecheggiarle, quelle ali, il quotidiano la Repubblica, che così ha titolato: “Il calcio va in Paradiso”.

 

 

In questi due giorni, invece, si è saliti assai più di tono. Basta  una breve rassegna della stampa internazionale : “ Dio è morto” “Grazie Dio che sei Argentino”  “AD10S” “Eterno” “ Celeste”. “ Maradiòs”. Persino Macron, il presidente della Repubblica Francese, e non in uno scopone tra amici, ma in una dichiarazione ufficiale, ha detto: “C’era un re Pelé, ora c’è un dio Diego»”

Va da sé. Qui non si tratta di idolatria o di accostamenti blasfemi. L’epica sportiva prima, e la sua sublimazione intellettuale che ne è la critica specializzata, poi, si nutrono di immagini iconiche e di espressioni pronte per essere tramandate ai posteri.Trovato il filone, diciamo così, “sacro”,  lo hanno battuto con entusiasmo. Piuttosto, l’interessante è che la categoria del divino ( e del nostro divino, in particolare) , proprio nell’epoca della scristianizzazione e della società laicizzata e laicista, risulti  la più gettonata per evocare gloria e grandezza immortale. Anzi, lo sia forse adesso più di prima. Cosa di cui si puo’ dare una doppia lettura. La prima: in barba a tutto e a tutti, la religiosità tanto svillaneggiata, specie nelle sue manifestazioni più tradizionali e nazionalpopolari, cacciata dai salotti buoni della intellighenzia , rientra alla grande e dilaga dalla finestra dei media e della rete, segno di qualcosa di molto radicato e ormai inscindibile dalla nostra cultura e dai nostri concetti di riferimento. La seconda: proprio l’uso disinvolto e “sportivo”- in questo caso in senso letterale – del concetto di divinità, senza alcun timore reverenziale, lungi dal dimostrare una maggior presenza e autenticità delle radici cristiane della nostra cultura, ne attesta invece la banalizzazione, lo scolorimento, il degrado a maschera tradizionale e quasi di folclore.

Il che è una bella alternativa, non c’è che dire.

 

 

 

 

 

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