Serpenti

15 Luglio 2023Lorenzo Cuffini

Scritto da  MARIA NISII.

 

Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio (Gen 3,1).

Che il serpente di Genesi sia figura satanica è piuttosto assodato, che lo sia diventato grazie a un’interpretazione contenuta nella Bibbia stessa lo è forse un po’ meno. Recita infatti Sap 2,24: per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono. Ap 12,9 conferma quindi questa rilettura: E il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli.

L’associazione diavolo-serpente non richiede però una grande conoscenza del testo biblico, già che il racconto della caduta dei progenitori è tra i più celebri, oltre a essere quasi onnipresente nelle rappresentazioni figurative dell’Eden. Cionondimeno l’immagine si è facilmente prestata all’evocazione in quei testi impreziositi da citazioni bibliche e ricchi di tematiche religiose, come è il caso del bel romanzo di inizio Novecento di Willa Cather, che racconta la storia di due missionari francesi trapiantati in New Mexico a metà Ottocento.

Mentre cavalcavano verso la porta di casa, uscì un uomo, a capo scoperto, e videro con sorpresa che non si trattava di un messicano, bensì di un americano, d’aspetto assai poco attraente. Si rivolse a loro in un dialetto strascicato che faticarono a comprendere e chiese loro se volessero fermarsi per la notte. Dalle poche parole che scambiarono con lui, padre Latour provò una crescente riluttanza a restare anche solo poche ore sotto lo stesso tetto di quel tizio brutto e dall’aria malvagia. Era alto, smunto e deforme, con un collo da serpente che terminava con una testa piccola e ossuta. Sotto i capelli cortissimi, quella testa ripugnante esibiva una serie di spessi rilievi, come se le giunture del cranio fossero ricoperte da strati di tessuto osseo in eccesso. Insieme alle orecchie piccole e rozze, quella testa aveva un aspetto decisamente perverso. Quell’individuo sembrava solo per metà umano (W. Cather, La morte viene per l’arcivescovo, Neri Pozza, Vicenza 2008 [ed. or. 1927] p. 63)

Il personaggio dai tratti evidentemente perversi si rivelerà realmente un bruto, ma il fatto che la sua descrizione contenga un richiamo al serpente contribuisce a identificarlo con chiarezza (infatti il protagonista, pur non conoscendolo, non si sente tranquillo in sua presenza), oltre a non essere casuale in un testo di contenuto anche religioso.

L’immagine del serpente o l’attribuzione dei suoi caratteri a un essere umano offrono di conseguenza un’interpretazione univoca di quel personaggio. Tale attribuzione è indubbiamente più efficace in un contesto capace di cogliere immediatamente quel riferimento, per quanto sia – come visto – di portata universale.

 

 

Non stupisce allora come la propaganda nazista antisemita si sia rifatta a quell’immaginario, ritorcendolo contro lo stesso popolo che a quel mito aveva dato origine. Un po’ semplicistica ma di grande impatto – a quei tempi come oggi il razzismo è un affare di pancia più che di testa -,la rappresentazione degli ebrei li mostra con tratti simili per creare il “carattere semitico”: occhi piccoli e stretti, naso aquilino e rasatura trascurata. Su quella folla di uomini in giacca e cravatta dalla smorfia malvagia, troneggia un biscione con gli stessi lineamenti e la stella di Davide disegnata sulla pelle del capo.

Perché tra i tanti animali o insetti dall’aspetto non proprio aggraziato la scelta sia ricaduta sul serpente è però un’altra questione. Gesù stesso, dovendo scegliere un metro di paragone dirà: Quale padre se un figlio gli chiede un pesce, gli dà un serpente? (Mt 7,10; Lc 11,11). Anche qui la Bibbia può venire in nostro soccorso.

 Poi gli Israeliti partirono dal monte Or, andarono verso il mar Rosso per fare il giro del paese di Edom; durante il viaggio il popolo si perse d’animo.  Il popolo parlò contro Dio e contro Mosè, e disse: «Perché ci avete fatti salire fuori d’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c’è né pane né acqua, e siamo nauseati di questo cibo tanto leggero».  Allora il SIGNORE mandò tra il popolo dei serpenti velenosi i quali mordevano la gente, e gran numero d’Israeliti morirono.  Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il SIGNORE e contro di te; prega il SIGNORE che allontani da noi questi serpenti». E Mosè pregò per il popolo.  Il SIGNORE disse a Mosè: «Fòrgiati un serpente velenoso e mettilo sopra un’asta: chiunque sarà morso, se lo guarderà, resterà in vita».  Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra un’asta; e avveniva che, quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita. (Nm 21)

Durante gli anni di deserto il popolo vive vari momenti di sconforto, durante i quali inveisce contro la sua guida umana senza risparmiare neppure Dio, con il quale ha sempre avuto una relazione dialettica. Nel libro dei Numeri si racconta quindi un episodio in cui tanti israeliti sono assaliti da serpenti velenosi, come punizione della loro sfiducia. Quale rimedio Dio impone a Mosè di fabbricare un serpente di bronzo da porre su un’asta: coloro che lo guarderanno saranno salvi. Il serpente qui è dunque pharmakon, contemporaneamente veleno e medicina. Ancora oggi le insegne delle farmacie conservano infatti l’immagine di due serpi che si attorcigliano attorno a un bastone, simbolo della duplicità insita nella natura di questa scienza, ma altresì attestata nell’etimo.

 

 

 

Tali immagini si rifanno ai miti dell’antichità classica – greca, egiziana e biblica. Ma non mancano riferimenti a culti del serpente anche in altri popoli. Riporto a questo proposito ancora un brano tratto dal romanzo di Willa Cather, in cui si racconta come i missionari francesi facciano conoscenza della religiosità indios:

Pecos aveva la sua buona dose di oscure leggende […]. C’era poi la storia del serpente, riferita dai primi esploratori, sia spagnoli sia americani, e da allora considerata vera. Questa tribù era così devota al culto del serpente che non solo nascondevano serpenti a sonagli in casa ma tenevano, da qualche parte tra le montagne, un enorme esemplare che portavano al pueblo per determinate feste. (W. Cather, p. 111)

Il cristianesimo si è d’altronde inculturato in terre con precedenti culti idolatrici, Italia compresa, e di tali tradizioni antiche si trova spesso ancora traccia. A Cocullo, in provincia dell’Aquila, ad esempio, la festa patronale vede una processione della statua di san Domenico ricoperta di serpenti. Il culto pagano della dea Angizia, protettrice dei veleni compreso quello del serpente, è stato sostituito dalla religione cristiana, che ne ha assunto anche gli “effetti protettivi”.

 

https://www.youtube.com/watch?v=YG88aMdw8pA

Il serpente non può mancare naturalmente nella smorfia napoletana, che attesta ambiguità e molteplicità dei significati simbolici: https://www.smorfianapoletana.net/SERPENTE/

L’ofidiofobia è quindi la paura del serpente, animale temuto a prescindere dalla nocività del suo veleno, e a cui i miti antichi hanno indubbiamente contribuito. Mettere in scena un serpente inoffensivo può allora rientrare solo in una visione idilliaca per tempi escatologici, come il noto brano di Is 11,8:

Il lattante giocherà sul nido della vipera,

e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente.

In chiusura riporto due poesie, utili a sostare ancora qualche minuto sul valore evocativo di questa figura mitica. La prima poesia è di Emily Dickinson, che non nomina il serpente (perché non occorre) ma ne suggerisce la presenza in quel “tipo sottile nell’Erba”, che “si annuncia all’improvviso” e non si può incontrare senza un “respiro affannoso”.

J986 (1865) / F1096 (1865)

A narrow Fellow in the Grass
Occasionally rides –
You may have met Him – did you not
His notice sudden is -The Grass divides as with a Comb –
A spotted shaft is seen –
And the nit closes at your feet
And opens further on -He likes a Boggy Acre
A Floor too cool for Corn
Yetwhen a Boy, and Barefoot –
I more than once at Noon
Have passed, I thought, a Whiplash
Unbraiding in the Sun
When stooping to secure it
It wrinkled, and was gone -Several of Nature’s People
I know, and they know me –
I feel for them a transport
Of cordiality -But never met this Fellow
Attended, or alone
Without a tighter breathing
And Zero at the Bone –
Un Tipo sottile nell’Erba
Occasionalmente si muove –
Potreste averlo incontrato – se non vi è successo
Si annuncia all’improvviso -L’Erba si divide come con un Pettine –
Un’asta maculata si vede –
E poi si chiude ai vostri piedi
E si apre più in là -Gli piace un Campo Paludoso
Un Terreno troppo freddo per il Grano
Eppure da Ragazzo, e Scalzo –
Più di una volta a Mezzogiorno
Ho oltrepassato, credevo, una sorta di Frusta
Che si districava al Sole
Quando mi chinavo per catturarla
Si rinserrava, e se ne andava -Diversi Abitanti della Natura
Conosco, ed essi conoscono me –
Sento per loro un trasporto
Di cordialità -Ma non ho mai incontrato questo Tipo
Accompagnato, o da solo
Senza un respiro più affannoso
E Zero nelle Ossa –

 

 

 

La seconda, più recente e più esplicita, di Piero Bigongiari accosta la coppia antitetica bene-male attraverso le immagini del fiore e del serpente. Entrambi emergono imprevisti: la via del bene, per quanto impervia, trova lo spazio per raggiungerci. Ma attenzione, mentre il fiore si protende fino a noi, sbuca imprevisto il serpente. Non uno senza l’altro.

Cosa occorre che non possa più oltre
mancare? Forse il fiore che si torce
nelle proprie radici sotto il sasso
per sgorgare domani tra gli sterpi,
dopo avere aggirato a lungo il masso,
fiore proteso verso le tue mani.
Anche il bene come il serpente repe
mentre sbuca imprevisto dalla siepe.

Piero Bigongiari, da “Dove finiscono le tracce” (25-29 dicembre 1992)

 

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  • In copertina: Michelangelo, Cappella sistina (dettaglio)

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