Slegare i lacci
Scritto da MARIA NISII.
Di piede in piede (4).
È ancora una faccenda di sandali quella in apertura dei Vangeli nelle parole pronunciate da Giovanni Battista:
Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. (Mt 3,11)
E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. (Mc 1,7)
Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. (Lc 3,16)
Anche se in questione ci sono sempre i sandali, notiamo una differenza tra Matteo che parla di “portare i sandali” e Marco e Luca che invece ricorrono al dettaglio dello “slegare i lacci”. In comune c’è il senso di indegnità, implicato nell’avvicinamento, per quanto si tratti di toccare una calzatura e neppure una parte del corpo – peraltro i piedi, ritenuti qualcosa di infimo, tanto che i gesti richiamati erano compiuti dallo schiavo. Lo slegare i lacci era infatti “un atto che un padrone non poteva esigere dal suo servo ebreo, perché considerato troppo umiliante” (La Bibbia, Via Verità e Vita).
La versione matteana che parla di “portare i sandali” pare faccia invece riferimento all’azione del discepolo: “Per i rabbini,il discepolo è tenuto a due cose, nei confronti del suo maestro: il servizio (shimmush) e l’ascolto (shimmua’). Non tutti sono d’accordo su quali siano i servizi che un discepolo deve rendere al maestro, ma Rabbi Jehoshua’ ben Levi diceva che egli era esentato da tutti, eccetto che dal togliergli le scarpe. Giovanni è così rappresentato come se dicesse di avere un discepolo di cui egli stesso è indegno di essere discepolo.” (Alberto Mello, Evangelo secondo Matteo, p. 82).
Nella Bibbia slacciarsi o togliersi i sandali è un atto di penitenza. Al penitente veniva infatti richiesto di andare scalzo:
Davide saliva il pendio del monte degli Ulivi e, salendo, piangeva; camminava col capo coperto e a piedi scalzi. E tutta la gente che era con lui aveva il capo coperto e, salendo, piangeva.(2Sam 15,30)
Perciò farò lamenti e griderò,
me ne andrò scalzo e nudo,
manderò ululati come gli sciacalli,
urli lamentosi come gli struzzi (Mi 1,8)
Seguendo questa pista, Giovanni Battista non può certo invitare Gesù a penitenza, né può togliergli i sandali allo scopo. Ma come la mettiamo con l’indegnità? Non sarebbe degno di invitarlo a penitenza?
Alcuni autori poi fanno notare che la versione di Marco, ripresa da Luca, farebbe risuonare un versetto di Isaia 5,27:
non si scioglie la cintura dei suoi fianchi / e non si slaccia il legaccio dei suoi sandali.
Secondo questa tesi si tratterebbe dell’interpretazione di un passo della Bibbia ebraica applicata a Gesù, sebbene paia un po’ fuori contesto dato che nel brano di Isaia il soggetto è un popolo nemico, probabilmente gli assiri, di cui Dio si serve per attuare il suo piano. Il versetto implicato suggerisce l’efficienza e la rapidità dell’esercito nemico e neanche questo mi pare abbia molto da dire sulla ritrosia del Battista.
Vi è ancora un’altra lettura, piuttosto ardita, che mostra l’associazione tra il legare i lacci e il legame matrimoniale. Per indicare l’intenzione di prendere possesso di quel paese, nel Sal 60,10 leggiamo:
Il Signore getta i suoi sandali sull’Idumea.
Questo filone interpretativo associa quindi l’atto dello slegare i sandali allo scioglimento di un legame e in particolare di quel vincolo del parente maschio più vicino alla donna rimasta vedova senza figli,che egli era tenuto a sposare per dare una discendenza al fratello morto. Si tratta della legge del levirato (Dt 25,5-10), dalla quale ci si poteva svincolare appunto con il gesto del sandalo, con cui si “cedevano” ad altri i diritti di proprietà sulla donna – come è il caso di Rut 4,7-8.
Secondo questa interpretazione “sponsale”, l’atto di togliersi i sandali richiesto a Mosè nel roveto andrebbe inteso come rinuncia a ogni forma di possesso o dominio.
L’associazione di questa pratica al brano che vede protagonisti Gesù e Giovanni Battista chiederebbe pertanto di fare ricorso all’immagine di Gesù-sposo, rispetto a cui il Battista non può vantare diritti – come spiega dicendo appunto:
Viene dopo di me colui che è più forte di me.
Giovanni può limitarsi, come fa, a indicare lo sposo – Ecco l’agnello di Dio – ma non può vantare altri legami. E d’altra parte in Gv 3, 27-30 dirà così:
L’uomo non può ricevere nulla se non gli è dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: “Io non sono il Cristo, ma sono mandato davanti a lui”. Colui che ha la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, si rallegra vivamente alla voce dello sposo; questa gioia, che è la mia, è ora completa. Bisogna che egli cresca, e che io diminuisca.
Che dire? Forse non c’è neppure una tesi che appaia più convincente delle altre, nel senso che nessuna sembra possedere maggiore forza persuasiva. Forse può essere sufficiente fare ricorso al gesto dello schiavo o del discepolo, e mostrare la paradossalità dell’immagine quando si tratta di Gesù, il quale poi quel gesto lo compirà.
Concludo queste “riletture” bibliche intrecciate nel versetto, ricordando la ripresa in At 13 nel discorso di Paolo nella sinagoga di Antiochia.
Qualunque sia la spiegazione, certo è che questo versetto è uno dei più noti e per questo è citatissimo. Purtroppo tra le tantissime riscritture dei Vangeli, che conoscono l’episodio del battesimo, non ci sono riferimenti interessanti al nostro versetto e quando lo si ricorda, non ci si ferma sull’espressione specifica in modo da offrirne un ampliamento o qualche tipo di spiegazione.
Invece è quasi più interessante notarne le varianti, distorsioni o ricorrenze in cui lo si inserisce, in formulazioni completamente diverse, dove risuona ogni volta nuovo in base alla creatività dell’autore, come in questo caso:
«accecati dall’ideologia, molti critici cinematografici dell’epoca non si rendono conto di essere al cospetto di due geni a cui non sarebbero degni di lucidare l’obiettivo» (Nicola Lagioia, nel podcast Fare un fuoco, “Perché abbiamo bisogno di un nemico: Fellini contro Visconti”).
Oppure nell’aneddotica, questa volta “calzata” su Filippo Neri:
San Filippo Neri considerava l’umiltà la prima virtù di un Santo. C’era ai suoi tempi una religiosa di cui tutti parlavano poiché si diceva avesse estasi e rivelazioni. Un giorno il Papa manda proprio Filippo in quel convento per rendersi conto della santità di questa suora. Il tempo si mette al brutto. La pioggia viene giù come Dio la manda… Filippo arriva al convento infangato fino alle ginocchia. Chiede subito della suora, ed eccola che arriva… seria seria, compunta, tutta annegata in Dio. Il santo siede tende le gambe e dice alla suora: “Toglietemi le scarpe!”. Al che la suora s’impenna, alza il mento, resta immota. Padre Filippo non chiede nulla. Ne sa già abbastanza. Si riprende il cappello, e torna dal Papa a riferire che, secondo lui, una persona così altezzosa non poteva essere una santa.”