Togliti i sandali!

23 Settembre 2023Lorenzo Cuffini

 

Scritto da MARIA NISII.

Di piede in piede (3).

 

Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». 4Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». 5Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». 6E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. (Esodo 3)

 

Tutti conosciamo l’ordine di Dio a Mosè: “Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!”. L’episodio è quello del “roveto ardente”, così detto in quanto Mosè si avvicina a un roveto, attirato da un fuoco che arde senza bruciare. I segnali di genere, cioè quegli elementi inseriti nella narrazione allo scopo di guidarne la comprensione, sono molti: il monte di Dio, l’angelo, il fuoco che non brucia, il fatto dei sandali. Tutto ci dice che siamo di fronte a una teofania, che poi il testo rende esplicita. Poco oltre, al v. 14, avviene anche la rivelazione del nome divino. Si tratta in breve di un brano cruciale, molto richiamato e di grande importanza nella storia biblica.

Per il significato della calzatura riporto l’analisi dettagliata di Antonio Nepi (Esodo, il Messaggero, Padova 2002, p. 94-5): “I sandali rappresentano la dignità di una persona libera, il suo potere d’acquisto (Am 2,6; Sal 60/59,10): oggi potremmo dire la sua autonomia e la sua carta di credito. Togliere i sandali dai piedi è un gesto di rispetto e di riconoscimento della santità di un luogo (come farà Giosuè in Gs 5,15 e come fanno ancor oggi i musulmani, i buddisti e gli indù prima di entrare in una moschea, in una pagoda e in un tempio); è un segno di povertà (Ger 2,25), di umiltà (2Sam 15,30) e della condizione di chi è schiavo e depone il proprio onore dinanzi a un superiore (Is 20,2); togliere i sandali, giuridicamente, significa rinunciare ai propri diritti di possesso (cf. Dt 25,9; Rt 4,7-8).

 

 

Dio ordina, anzi GRIDA, offrendo pure la spiegazione di tale imposizione: si tratta di un luogo sacro. E su questo ci sarebbero molte cose da dire, perché è la prima volta che nella Bibbia si parla di un luogo sacro: nei primi capitoli di Genesi Dio si è riservato un giorno, il sabato, non un luogo – non casualmente nella sua prima enciclica, Evangelii gaudium, papa Francesco ricorda la superiorità del tempo sullo spazio… Ma su questo non ci fermiamo, sia perché quasi ogni parola di questo brano è ricchissima di significati, sia perché ora ci interessano i piedi e i calzari, che un tempo non era per nulla scontato indossare, tanto che Nepi ha dovuto specificare tutti i valori simbolici che contenevano.

Il grido sembra esprimere la preoccupazione che Mosè non si fermi in tempo e per questo parlare di segno di rispetto è a mio avviso inadeguato a spiegarne la necessità: nei tempi antichi infatti il contatto con il sacro era ritenuto pericoloso – da qui tutte le prescrizioni sul sangue e sulla purità. E non casualmente si dice che Mosè ha paura… Col tempo poi la preoccupazione sul sacro e il rischio di morte che il contatto implicava va a scemare. Al suo posto resta il rispetto riservato al luogo. Ma anche sul carattere di sacralità si assiste a un’evoluzione, che varia in ogni esperienza religiosa.

Tuttavia la simbolica della nudità ha il suo fascino. Al suolo sacro sono infatti adatti i soli piedi nudi, e null’altro: se un giorno a Dio torneremo nudi, a lui ci si reca anche nudi, cioè scoperti, spogliati di tutte le maschere di cui siamo normalmente ri-vestiti. Interessante notare che il testo non dice se Mosè i sandali se li tolga davvero (ovviamente dobbiamo supporre che lo faccia), mentre specifica che egli si copre il capo, che nessuno gli aveva chiesto di celare, come se l’eccessiva nudità lo inquietasse. D’altra parte, sempre biblicamente, la nudità viene scoperta dopo aver assaggiato l’albero della conoscenza del bene e del male. E da questa eccessiva esposizione di sé Dio protegge la prima coppia umana, cucendo loro delle pelli quando viene il momento di allontanarli dal giardino.

Le riscritture di questo passo non sono numerosissime, ma ci sono. Non è detto che ci aiutino a capire qualcosa in più, ma vi possiamo almeno riconoscere echi di un significato che ha attraversato la storia.

 

 

Il nonno del protagonista-narratore di Marilynne Robinson in Gilead raccontava di aver avuto visioni a partire dall’età di sedici anni, visioni che non sarebbero venute meno anche in età avanzata. I racconti di quelle esperienze provocavano scetticismo ma anche una certa deferenza in famiglia e il nipote, che racconta la storia quando è ormai a sua volta anziano, cresce in un’atmosfera di sacro familiare:

A volte, quando tornavo da scuola, mia madre mi veniva incontro dal portico sul retro bisbigliandomi: – Il Signore è in salotto -. Allora entravo di soppiatto senza scarpe e sbirciavo dalla soglia, dove vedevo mio nonno seduto sul lato sinistro del divano, con un’espressione attenta, cordiale e solennemente soddisfatta. (p. 101)

Chissà, forse, data la situazione è stato istruito sin da piccolo, oppure forse quello del nipotino è un atto spontaneo di cautela. Sbircia, sapendo di non poterlo fare, ma almeno si toglie le scarpe perché, appunto, il salotto è ora un luogo sacro. Inutile dire che dopo quegli incontri il nonno restava “raggiante”…

 

 

Anche se non compaiono i sandali, non posso non citare questa particolarissima riscrittura di Michel Tournier, che attribuisce al suo protagonista Eleazar una personalità mosaica, nel senso che la sua vita ne ripercorre la vicenda, sebbene ambientata a metà Ottocento in Irlanda e poi in America, dove emigra per fuggire alle conseguenze di un omicidio, compiuto involontariamente per aver difeso un giovane pastore che veniva frustrato violentemente. L’Irlanda è inoltre un paese “piagato” dalla carestia e la traversata in mare verso il Nuovo Mondo dura quaranta giorni e quaranta notti. Una volta lì la famiglia di Eleazar si unisce a una carovana alla ricerca di un luogo in cui fermarsi, e durante il viaggio, morso da un serpente, il figlio Benjamin verrà guarito da Serpente di bronzo, un capo indiano (così chiamato perché le sue palpebre, come quelle dei serpenti, non si abbassano mai) che lo salva fissandolo negli occhi.

Eleazar si fermò davanti a un rovo. Si tolse il cappello per ricevere meglio la luce, ma anche, forse, in segno di rispetto. Ed ebbe improvvisamente la rivelazione del senso profondo del suo viaggio. Capiva adesso che la sua terra natale, e soprattutto il cielo della sua infanzia e della sua giovinezza, avevano steso una cortina innanzi ai suoi occhi, un velo di pioggia, di nebbia e di clorofilia che gli aveva celato la verità. La verde Irlanda si era frapposta fra il suo sguardo e le Scritture. Solo l’aria perfettamente secca e trasparente del deserto rispettava la brutale chiarezza della legge biblica.

Abbassò lo sguardo verso il cespuglio di spine. Non era così folle da aspettarsi che prendesse fuoco, e che una voce sorgesse dal suo centro. Non era così folle da credersi Mosè. Pure la sua storia personale appariva fortemente attratta, forgiata e dotata di significato dal destino stesso del profeta, così come un mucchio di limatura di ferro prende ordine e direzione in forza del campo magnetico di una calamita. La grandiosa avventura di Mosè funzionava da riferimento per decifrare i modesti accadimenti della sua vita… (p. 75)

Eleazar è un pastore protestante e la Bibbia è la sua guida. Ma la storia biblica, che scorre quasi in parallelo alla sua, non è solo chiave di lettura per il protagonista, bensì cornice mitica in cui comprenderla, grazie alla quale la narrazione attribuisce forma epica alla vicenda di una delle tante famiglie di immigrati irlandesi.

Che lo schema del mito esodico funzioni tanto bene nel passaggio dal Vecchio al Nuovo Mondo era già evidente ai Padri Fondatori, come furono detti i coloni, che interpretarono l’esperienza di immigrazione come un nuovo esodo, convinti di essere il nuovo popolo di Dio(1) eletto dal Signore per conquistare la nuova Terra Promessa  in virtù di una nuova alleanza (2) : ; e lì stabilirsi come “città sulla collina”, società ideale ed esemplare per il mondo, la città di Dio come recita la celeberrima formula di John Winthrop: “we must consider that we shall be as a City upon a Hill, the eyes of all people are upon us” (1638). Il riferimento è a Mt 5,14 (“Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte”), ma anche alla Gerusalemme celeste di Apocalisse. Questa nuova terra offriva ai Puritani (3)  la possibilità di praticare gli ideali che avevano professato in Inghilterra.

La vicenda proposta da Tournier riprende quella medesima cornice scritturistica con un passo leggero e disinvolto, apprezzabile dal lettore europeo che difficilmente conosce e ancor meno potrebbe gradire i diari della letteratura puritana del XVII secolo. Eleazar è solo uno dei tentativi che l’autore ha sperimentato nella medesima modalità, facendo incarnare ogni volta ai suoi personaggi i tratti di un aspetto della condizione umana – tra questi ricordo Gaspare, Melchiorre e Baldassarre in cui i sapienti d’oriente sono rappresentanti della ricerca della conoscenza (di cui mi sono occupata con “Passione per le immagini” del 2/1/2021 e “Il quarto re magio” del 9/1/2021).

 

 

La rilettura di Erri De Luca aggiunge invece un dato personale, visto che in Mosè lo scrittore vede la sua passione per la montagna e nelle Scritture un senso vitale che continua a guidare, anche al di là della fede:

Amo la scrittura sacra perché è estremista, più di qualunque altra. Perciò neanche la geografia sta quieta: “Le montagne saltarono come arieti, le valli come cuccioli di gregge” racconta il salmo (114,4). E il Sinai vallo a trovare, prova a piantarci sopra una bandierina, se sai dove sta. Il Sinai è il Horeb, due nomi sono il minimo per una montagna introvabile e data per trovata varie volte, nel gioco dell’oca dell’archeologia. […]

Mosè alla prima ascensione, attratto dal cespuglio ardente, sente la guida chiedere: “Cava i tuoi sandali”. Ho praticato arrampicata scalza, un raddoppio d’intesa fisica con la superficie. So che scalare è un procedere a tentoni. Non dev’essere stato così per Mosè. Incerto di labbra, balbuziente, in compenso doveva avere una destrezza da funambolo, piedi da equilibrista sugli abissi. È il maggior alpinista della storia sacra e muore da alpinista sopra un’altra cima, il Nebo, a est del Giordano, fiume che corre parallelo alla costa e ignora il mare. (p. 12-13)

 

Il Mosè di De Luca è un alpinista, divertente attualizzazione dell’immagine mitizzata di colui che ha incontrato il divino, dove solo lo si poteva immaginare: su un alto monte, ovvero nel luogo più vicino al cielo, concetto traslato per esprimere la trascendenza dai luoghi e dall’umana comprensione. In questo senso, l’interpretazione dei piedi privati dei calzari è letterale ma pure stupefacente: muoversi scalzi sui monti richiede grandi abilità e destrezza, che il Mosè del roveto doveva ancora imparare, mentre quello sul monte Nebo è avvantaggiato dalle precedenti arrampicate.

Un altro personaggio di De Luca si toglie i calzari: si tratta dell’artigiano, protagonista di La natura esposta, a cui è stato affidato il compito di restaurare un crocifisso di marmo. L’uomo è non credente, ma nella condizione di esilio in cui si trova, prova una strana identificazione con quel corpo marmoreo a misura naturale. Nell’ultimo atto, un istante prima di finire il lavoro, si avvicina alla statua togliendosi le scarpe – e a seguire il resto dei vestiti -, rabbrividendo nel contatto, per un senso di timore e tremore. È la venerazione del non credente per l’umanità denudata, esposta e vulnerabile.

 

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(1) “The New-Englanders are a People of God setteled in those, which were once the Devil’s Territories; and it may easily be supposed that the Devil was exceedingly disturbed, when he perceived such a People here accomplishing the Promise of old made unto our Blessed Jesus”. (Cotton Mather, The Wonders of Invisibile World, 1692).

(2) “God hath taken us to be his after a most strict and particular marriage, which will make him the more jealous of our love and obedience” (John Winthrop)

(3) Movimento di calvinisti rigorosi intenzionato a “purificare” la Chiesa laddove questa si allontanava dalle Sacre Scritture e che per questo oppose resistenza all’istituzione anglicana della Chiesa di Stato

 

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