Uccellacci e uccellini che mangiano semi filosofici e cristiani

28 Maggio 2022Lorenzo Cuffini

 

Scritto da Dario Coppola.

 

Centenario pasoliniano (parte I)

 

Il film “Uccellacci e uccellini” è sostanzialmente una riflessione filosofica sul tragico senso dell’esistenza, sotto forma di una favola.

Vari sono i risvolti formali dell’opera, che si possono notare uniti nel linguaggio filmico del neorealismo di impronta manieristica (si parla di manierismo pasoliniano): ad esempio, gli sguardi estatici dei personaggi, il tema della leggenda che si fonde con la realtà in una sublimazione tuttavia ironica, gli stessi personaggi che interpretano le scene come se entrassero, uscissero o si trasferissero all’interno di quadri o affreschi, i dettagli architettonici, la ricercatezza dei costumi (soprattutto quelli medioevali) e delle inquadrature di paesaggi, le citazioni classiche: letterarie e religiose (Cantico delle creature ed Evangeli), filosofiche (Pascal e il rapporto fede-scienza), pittoriche e musicali.

 

 

Sono altrettanto complessi i contenuti del film. Fra i molteplici livelli, il più evidente è quello di una storia comica che collega, in modo solo apparentemente chiaro e semplice, le argomentazioni filosofiche: tre protagonisti (un padre, un figlio, un uccello) camminano e parlano, finché i due uomini mangeranno il corvo parlante. Ma, come in ogni favola, oltre la semplicità ingannevole della trama, ecco emergere dall’irrealtà e dagli elementi surreali tutti gli altri significati dell’opera, talora esplicitati proprio dal terzo protagonista, il corvo, il più simbolico, l’alter ego del regista stesso: secondo la sceneggiatura, esso è un intellettuale di sinistra, figlio del “signor Dubbio” (P. Ricoeur collocava, fra i maestri della Scuola del sospetto, e quindi del dubbio, Karl Marx) e della ”signora Coscienza” La coscienza di cosa? Certamente la coscienza di classe! Il tema della coscienza, dopo Hegel, trova ancor più sviluppo lungo l’Ottocento. Ma il corvo viene da lontano, dalla Città del futuro (ossimoro?), e abita in via Karl Marx, al numero settanta-volte-sette (Matteo 18, 21-35).

A questo punto, ci pare più chiaro il titolo dell’opera: gli uccellacci sono i borghesi e gli uccellini sono i proletari. Fra queste due classi, la cui coscienza genera gli intellettuali (e quindi la nascita del partito comunista e della sua vocazione internazionale) non ci sarà mai pace, anzi non ci sarà mai “Amore”. Ma ci sarà, solo e sempre, una lotta: la lotta di classe.

 

 

Anche dopo che la cristianità avrà cercato la possibile conversione dei singoli, le due classi non potranno mai comunicare fra loro perché si esprimono con linguaggi antitetici: i falchetti stridono e i passerotti saltellano. Vani sono i tentativi della Chiesa, rappresentata da san Francesco, alter Christus, di riportare la pace sulla terra in questa lotta continua. Ma l’uccello più emblematico è il corvo-filosofo: egli è vate e il suo dire profetico non è compreso dalla massa ignorante, è disprezzato dalla piccola borghesia che di lui si beffa perché non lo capisce; padre e figlio, Totò e Ninetto, non amano sentir parlare quel profeta di sciagura, la cui origine è l’”ideologia” stessa. Essi sono i figli dell’apparente semplicità, della selvaggia innocenza, della più cinica ignoranza, che li spingerà in una lotta per la sopravvivenza, li collocherà in una catena infinita ove chi è sottomesso tende a sottomettere. I due protagonisti non rispettano i diritti altrui, “criticano” la proprietà privata ma solo per i propri bisogni corporali, tipicamente legati alla loro animalità (homo homini lupus). Ma Totò e Ninetto non comprendono gli insegnamenti del corpo e vengono, a loro volta, oppressi dalla classe dominante, della quale non comprendono usi, costumi, ossia quel linguaggio, dal quale sono solo stupidamente affascinati.

 

 

Se ci addentriamo nei meandri degli altri significati dell’opera, troviamo soltanto accennati i temi del controllo delle nascite e della contraccezione (l’antifecondativo…), dell’immigrazione e della sussistenza degli immigrati (la vendita del “callifugo”…), del progresso e della tecnologia (lo sbarco sulla luna…), della crisi della cultura e della letteratura (il congresso dei dentisti-dantisti…), della questione della lingua, alla quale il letterato Pasolini dedica molte opere e dibattiti (uso degli idiomi e dei vari dialetti popolari, contrapposto all’italiano colto), della superstizione (gli ex voto). E ancora: la guerra, la proprietà privata, la libertà, la partecipazione (tutti temi presenti nelle encicliche sociali: dalla Rerum Novarum fino alla Pacem in terris).

 

 

Un altro strato di simboli caratterizza il film: il cammino è “eterno”. Il film inizia quando i due protagonisti principali, padre e figlio, già camminano e finisce quando ancora camminano; il viaggio è già finito, perciò lo scopo del cammino, che è l’esistenza, la vita, non trova soddisfazione. Il viaggio è un’alienazione, che permette, ingannando, una fuga perché l’esistenza è talmente tragica da perdere il suo senso. Sulla strada della vita, subito i protagonisti incontrano infatti la morte e fra loro ne parlano senza accettarla. Ma ecco arrivare subito chi può capirla, il corvo, perché, da buon profeta, sa che troverà la morte proprio grazie ai due suoi compagni di viaggio, quel viaggio già finito appena il cammino è iniziato. I vari autobus perduti rappresentano i ritardi, i fallimenti, l’impossibilità di realizzare il viaggio dell’esistenza e quindi di comprenderne il senso. La luna è l’unica speranza, perché lontana e irraggiungibile, anche se in quegli anni la si è raggiunta.

 

 

Il discorso della luna  di Giovanni XXIII era stato pronunciato circa quattro anni prima del film. L’ambientazione del film è proprio lunare, ma quasi conquistata dall’uomo. L’uomo si crede di nuovo al centro dell’universo? La luna rappresenta perciò forse l’alienazione, intesa come fuga dalla realtà, verso l’assurdo, come già esprimeva un pioniere della storia del cinema qual è G. Méliès (Viaggio sulla luna, 1902) ma ancor prima  Ariosto (Astolfo sulla luna). Anche la prostituta si chiama Luna: è il rifugio nei piaceri della vita per Totò e Ninetto che, fuggendo la dura realtà, sciupano il danaro sufficiente solo ai propri piccoli piaceri e ai propri piccoli dolori, indebitandosi. Due aeroplani decollano, quando i protagonisti incontrano la luna: simboli fallici, ma anche allegoria di questa fuga facile dal mondo degli oppressi e degli sfruttati. Il cammino ha avuto inizio sull’autostrada in costruzione nella periferia romana…

 

 

L’invito alla fuga è anche espresso dai surreali cartelli stradali che indicano città simboliche molto distanti… (Istanbul, anzi “Istambul” e Cuba) inoltre i cartelli che indicano le vie del quartiere periferico di Roma ricordano uomini semplici, sconosciuti con nomi simbolici. I guitti interpretano uno spettacolo sull’antica Roma che ha rovinato il mondo.

 

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