Verità molteplice

27 Novembre 2021Lorenzo Cuffini

 

 

Scritto da  MARIA NISII

I vangeli, 4 e dunque plurali, ci offrono una verità da riconoscere, un cammino di ricerca e interpretazione, dunque un lavoro sempre in itinere e non certo dato una volta per tutte, fissato e statico.«La Scrittura cresce con chi la legge», diceva infatti Gregorio Magno.

Tra i tanti modi che potremmo adottare per dare ragione della molteplicità evangelica è parlare di quattro posizionamenti cognitivi, ovvero 4 punti di vista. Per alcuni troppi, per altri mai abbastanza trattandosi di Gesù. È forse per questo che Kahlil Gibran in Gesù figlio dell’uomo ha adottato ben 77 voci per raccontare Gesù, attraverso il punto di vista di moltissimi personaggi: alcuni noti, altri inventati, amici e nemici, contemporanei alla vita del Gesù storico e uomini che prendono la parola da tempi successivi. Ma 77 non saranno troppi e non ne sortirà fuori qualcosa di frastornante? E poi, quale ritratto sarà mai possibile delineare a conclusione?

Dare la parola ai personaggi (uno o più) è una modalità narrativa che consente l’accesso alla storia mediante il filtro di una soggettività umana, una possibilità alternativa al racconto del narratore esterno in terza persona, che dona al lettore l’illusione di una versione oggettiva e attendibile dei fatti. La narrativa moderna ci ha però insegnato a diffidare della possibilità che un solo racconto possa tradurre la complessità del reale, preferendo sottolineare la frammentarietà di ogni prospettiva. Questa presa di coscienza è evidente in un saggio di Henry James:

«La casa della narrativa non ha una finestra sola ma un milione – un numero quasi incalcolabile di possibili finestre, ognuna delle quali è stata aperta, o è ancora apribile, sulla sua vasta facciata, dalla necessità della visione e dalla pressione della volontà individuale. Queste aperture, di forma e misura dissimili, danno tutte sulla scena umana, sì che ci si potrebbe aspettare, da esse, una identità di riproduzione maggiore di quella che troviamo. Esse sono, nel migliore dei casi, finestre o altrimenti meri fori in un muro morto, sconnessi, collocati in alto; non sono porte coi cardini che si aprano direttamente sulla vita. Ma hanno questa caratteristica, che ad ognuna di esse c’è una figura con un paio d’occhi, o almeno con un binocolo, che costituisce uno strumento unico d’osservazione e che assicura a chi ne fa uso un’impressione distinta da ogni altra. Lui e i suoi vicini osservano lo stesso spettacolo, ma uno vede di più là dove un altro vede di meno, uno vede nero là dove un altro vede bianco, uno vede grande là dove un altro vede piccolo, uno vede rozzo là dove un altro vede delicato. E così via di seguito; fortunatamente non è dato dire dove, per un particolare paio d’occhio la finestra non si possa aprire […]. Il campo che si estende, la scena umana, è la “scelta del soggetto”; l’apertura perforata, sia larga, o con balcone, o a fessura, o bassa, è la “forma letteraria”; ma, sia da sola che insieme ad altre, essa non è nulla senza la presenza dell’osservatore – senza, in altre parole, la coscienza dell’artista». (H. James, Prefazione a Ritratto di signora, 1881)

 

 

Se le cose stanno così e le prospettive per osservare la scena umana non sono mai sufficienti né esaurienti, la scelta di Gibran stupisce molto meno. Ognuno dei 77 personaggi prende così la parola come rivolgendosi a un interlocutore esterno (dunque al lettore), per tracciare un carattere, immortalare un ricordo, confidare il proprio turbamento e la sua permanenza nel tempo e nella memoria personale.

Tra i personaggi inventati ricordiamo Assaph, l’oratore rimasto incantato dalle arti retoriche di Gesù: «udendo lui il tuo cuore si separava da te, e vagava in regioni inesplorate. Riferiva una storia, narrava una parabola: nulla di simile alle sue storie e alle sue parabole s’era mai udito in Siria. Sembrava tesserle con le stagioni, come il tempo tesse gli anni e le generazioni» (p. 16).

 

 

 

 

Filemone il farmacista, interessato al suo potere taumaturgico: «Che questo risponda o meno a verità, testimonia comunque il suo potere; perché solo a colui che ha compiuto grandi cose vengono attribuite cose grandi» (p. 21).

Un ricco levita dei dintorni di Nazareth, che si chiede come riconoscere la mano di Dio nella mano di un falegname.

Un pastore del sud del Libano, a cui Gesù ritrova una pecora che aveva smarrito ma che alla fine non ha il coraggio di seguirlo.

 

 

 

 

Tra le figure note spicca Maddalena che torna in tre racconti, l’ultimo dei quali a distanza di trent’anni ed espresso con il linguaggio del Cantico dei Cantici: «Lui non è là, non giace in quella fenditura della roccia dietro la pietra» (p. 188).

 

 

 

 

Pietro, a sua volta in più interventi, appare sbigottito già al primo incontro: «E quando guardai il suo viso la rete mi cadde dalle mani, perché una fiamma si accese dentro di me e lo riconobbi» (p. 23).

Curiosamente alcuni personaggi si fermano sul nostro stesso rovello: «È vero, dichiarò d’essere la via e la vita e la resurrezione del cuore; e della sua verità io stesso sono testimonianza» (p. 99). Nicodemo prende la parola come il più giovane degli anziani del Sinedrio, ma lo fa per tuonare contro gli zelanti della legge che egli paragona a sordi:«Seppelliscano i sordi il ronzare della vita nelle loro orecchie da sordi. Io mi appago del suono della lira che vibrava al tocco delle sue dita, mentre le sue mani, inchiodate, sanguinavano».

 

 

 

 

Perché il ritratto offerto sia il più possibile esauriente, intervengono anche i nemici tra i quali si annoverano i noti Caifa e Anna, ma anche un giovane sacerdote di Cafarnao che lo considera un incantatore del popolino, il logico Elmadam che ne parla come di un mendicante e un ubriacone, Uriah un vecchio di Nazareth che lo ritiene un arrogante e un ciarlatano, Jefta di Cesarea infastidito dal suo ricordo e certo che cadrà nell’oblio. Sulla paura mostrata dai nemici di Gesù si pronuncia Manasseh, uomo di legge di Gerusalemme, il quale sostiene che abbiano trasformato in pericolo un uomo inoffensivo.

L’ultimo intervento è affidato all’uomo che viene dal Libano, diciannove secoli dopo, nel quale in tanti hanno riconosciuto lo stesso autore. La sua voce è critica verso chi ha costruito templi perdare dimora al suo nome, innalzando la sua croce su ogni altura, senza conoscerlo davvero e ambendo invece a far parte della sua corte. Nominato da vescovi e mendicanti, tanti sono saliti su troni in suo nome, «ma tu sei ancora disprezzato e irriso, / uomo troppo debole per essere Dio, / Dio troppo uomo per suscitare adorazione […] ancora percorri questo giorno» (p. 196).Quello dell’istituzione dunque non è più il Gesù della gioia, il liberatore dall’oppressione della legge antica, ma un idolo costruito da mani d’uomo.

 

 

 

 

Il lettore chiude il libro, magari scorre l’indice per ripassare i tanti nomi incontrati e poi si può chiedere (se vuole) quale sia l’immagine di Gesù così composta. Molto probabilmente, alla stregua dei tanti personaggi sulla scena, anche il lettore potrebbe percepire la propria incompetenza a pronunciare un giudizio complessivo, cosciente della sua competenza limitata e del suo essere solo un punto di vista (sic!).

La copertina scelta da Feltrinelli per questo testo di Gibran riporta il dettaglio di un mosaico del mausoleo di Galla Placidia di Ravenna, forse perché – ipotizzo – l’immagine di Gesù qui composta, va colta come un insieme di tessere da mosaico. Questa intuizione non è troppo distante da quella del settimanale americano «Time» che ha dedicato a Cristo la copertina del 15 agosto 1998 con la domanda: «Chi era Cristo? Un nascente filone cinematografico ripropone un’antica questione». L’immagine propone un volto di Cristo formato da trenta tessere provenienti da epoche diverse.

 

 

 

 

L’effetto di tali composizioni è lasciato alla nostra libera interpretazione, di lettori di Scritture e di scrittori di Scritture. La nostra immagine (verità al singolare) andrà sottoposta al vaglio critico delle tante immagini (verità al plurale) di altri. Per un guadagno. Perché non diventi possesso. Perché sia sempre ancora da cercare, indagare, riconoscere.

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