Versi per resistere

2 Aprile 2022Lorenzo Cuffini

Scritto da  MARIA NISII.

 

Per parlare di guerra e fede cristiana, la nota trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, andata in onda il 19 marzo, inizia intervistando la poetessa russa Ol’ga Sedakova (classe 1949) – tradotta da Adalberto Mainardi, monaco di Bose che ha curato l’edizione italiana di una selezione di sue poesie in Solo nel fuoco si semina il fuoco (Qiqajon, 2008). Il conduttore le chiede, tra le altre cose, il rapporto tra guerra e poesia. E non è una domanda oziosa, perché ogni poeta conosce quella che è un’obiezione classica sul valore delle parole, e della parola poetica in particolare, laddove in gioco ci sono dolore, sofferenza e morte.  Questo è il link alla puntata della trasmssione radiofonica:

https://www.raiplaysound.it/audio/2022/03/Uomini-e-Profeti-del-19032022-7a419abe-046c-4d31-b0cd-8d073350ce24.html?fbclid=IwAR3fyvaV1G3GxR_kOuxpvU4s7JMlhC9vda6Vlu_G-lhAw9ZDuJCOm8jJs0g

Nell’introduzione alla raccolta italiana, si richiama proprio il senso del tempo e il vivere la contemporaneità, che il poeta percepisce come una condanna, “condanna a essere da lui condotto”: “Non esiste arte non contemporanea (che non riveli il proprio tempo)”, affermava infatti Marina Cvetaeva nel 1932. Ed è per questo legame con la contemporaneità che la poetessa è stata invitata a parlare dell’attuale guerra in Ucraina, della percezione che se ne ha in Russia e dello spazio, se ve n’è uno, della poesia in questi tempi oscuri.

Seppure tanti cristiani, disattenti alla contraddizione, sostengono l’azione con l’invio delle armi, che cosa potrà mai fare la poesia? Com’è possibile trovare il tempo per pensare, per leggere, per fare il silenzio necessario a creare lo spazio di accoglienza di una parola dissonante rispetto a quanto ci circonda? Chi ne ha la possibilità si arma piuttosto di coraggio e si apre ai tanti bisogni che ci interpellano nel volto dei profughi. Questo sì che serve, non la poesia.

 

I versi di Ol’gaSedakova, sostiene Sergej Averincev nel saggio in postfazione a Solo nel fuoco si semina il fuoco, non sono stroncati, ma semplicemente ignorati. O capovolti nel loro significato. Di fatto, fino alla fine della perestrojka i suoi testi (poesie e saggi) non erano pubblicabili in Unione Sovietica, ma circolavano comunque in copie dattiloscritte:

Non erano testi graditi al sistema comunista. Venivo accusata di «spiritualità». Inoltre, dicevano che erano eccessivamente complicate. Le poesie della cultura ufficiale dovevano essere «populiste», semplici e chiare, senza troppe riflessioni. Dovevano essere comprensibili anche per l’uomo più semplice…

Le mie poesie iniziarono a circolare in “samizdat”. Si facevano centinaia e centinaia di copie in clandestinità. Non ero io che le facevo circolare, ma i miei lettori. Ogni lettore faceva cinque copie con la macchina per scrivere e la carta carbone. Erano migliaia di libri che si diffondevano in quella che chiamavamo la «tiratura proibita». Un altro modo per far conoscere il mio lavoro era quello di leggere in pubblico. Si trattava di letture in case private e in atelier di artisti. Non c’era la minima forma di promozione, eppure c’era molta gente che veniva ad ascoltare. C’erano anche delle spie che s’infiltravano, era pericoloso, ma noi cercavamo di non pensarci.”

(dal blog: https://www.olgasedakova.com/it/interview/128)

 

 

Quando ha trent’anni, viene arrestata per dare conto della diffusione clandestina dei suoi testi.Una situazione che le rende difficile vivere del proprio lavoro e, come gli altri poeti “non ufficiali”, resta ai margini e senza la possibilità di un lavoro qualsiasi. Solo con Gorbaciov riesce infine a tenere lezioni all’Università. Ma la persecuzione era iniziata molto presto, perché già a vent’anni era stata internata in un ospedale psichiatrico per motivi di fede, dove resta per cinque mesi dopo aver subito terapie shock molto dolorose con l’insulina.

In quel tempo difficile mi fu di sostegno la fede. Mi colpisce che adesso in così tanti si dichiarino di fede ortodossa, quando poco tempo prima erano tutti atei. Negli anni della persecuzione vedevamo nei cattolici degli amici; la demarcazione della linea del fronte era molto netta: cristiani e non cristiani, senza ulteriori differenziazioni.”

Essere cristiana e scrivere poesie rappresentava dunque una miscela esplosiva per il regime comunista. Tanto più esplosiva in quanto per la gente la poesia era “necessaria come il pane”, al punto da essere disposti a rischiare la vita per diffonderla: imparavano a memoria i testi e li trasmettevano clandestinamente, come una forma di salvezza.

 

1 – Continua

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  • In copertina, Ol’ga Sedakova .

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