Vestire i nudi

28 Ottobre 2016Lorenzo Cuffini

Scritto da Maria NISII

 

“Aveva qualcosa da dire: di perdonare loro, non i due condannati, ma tutti gli altri. Chiedeva alla divinità di assolvere gli assassini. E lui? Li aveva assolti ma non gli bastava. Doveva ottenere il perdono supremo… Dopo le parole del crocifisso il palo diventa una rampa di lancio alle generazioni. Dovevano essere dette da quella posizione. Non funzionano da una cattedra, da un palco. Si deve salire su un patibolo per dirle” (Erri De Luca, La natura esposta, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 32-33).

Quando l’anno liturgico dedicato al tema della misericordia è in gran parte alle nostre spalle, gradito sollievo da una certa ripetitività linguistica, è un romanzo a ridonare freschezza e aprire nuovi significati al termine. 

“La nudità agita le fibre più antiche della compassione… Cos’è la misericordia che provo davanti a questa figura? È una spinta improvvisa dentro il sangue… Non la conoscevo prima di ora. La imparo in questo momento… Davanti a questo moribondo nudo si sono commosse le mie viscere. Mi sento un vuoto in petto, una confusione di tenerezza, uno spasmo di compassione. Ho messo la mano sui suoi piedi, per riscaldarli.” (33-35)

Caravaggio, Opere di misericordia
Caravaggio, Opere di misericordia

 

Il protagonista che pronuncia queste parole di commozione di fronte a una statua è un artigiano che intaglia e scolpisce su legno e pietra e che per il fatto di abitare in un sito montano di frontiera si è trovato ad aiutare i clandestini che cercavano di oltrepassare il confine. Da questi ha preso il denaro pattuito, li ha accompagnati e poi ha restituito loro il maltolto. La sua vita semplice non ha bisogno di altri guadagni, come non cerca gli onori che la donna amata avrebbe voluto gli venissero riconosciuti per le sue doti artistiche. Per questa duplice ritrosia perde prima la donna e poi il villaggio di origine quando, divenuta nota la sua liberalità grazie al successo editoriale del romanzo autobiografico di un ex clandestino, entra in rotta con gli altri due che rendevano lo stesso servigio senza restituzione.

È un uomo in esilio – dal suo paese e dai monti che sono la sua casa – quello che,per mantenersi in un paese di mare dove si è infine fermato, viene incaricato del restauro di un crocifisso in marmo. Pur non essendo credente, vive questo lavoro in un vero e proprio atto di identificazione con quel corpo che gli ha suscitato un’immediata compassione. Così spegne il riscaldamento nella stanza di lavoro per sentire sul suo corpo il freddo che quel crocifisso nudo deve aver provato nella primavera palestinese di duemila anni fa – “anche questo contribuisce al desiderio di scaldarlo” (42).I colpi sul marmo rintronano nel suo corpo – “come se scalpellassi il mio bacino” (35): “la piccola opera da eseguire si va impossessando dei miei sensi. Vedo le cose attorno attraverso la sua feritoia… Strofino attorno ai fianchi, ore di attrito muto, mi avvinghio al suo corpo come un rampicante” (47). Si fa persino circoncidere per tentare un ulteriore avvicinamento – “un metodo Stanislavskij estremizzato” (65), commenta infatti un rabbino. Applica per sé la metafora della croce, dicendo di sentirsi “inchiodato” (83) quando si riconosce inadeguato di fronte alla richiesta di aiuto di un ragazzino. Come Gesù da Giuda, anche lui viene tradito, ma fino all’ultimo non riesce a guardar male la donna, pur nella consapevolezza del pericolo in cui lei l’ha cacciato e che per poco non gli è costato la vita.

bridal

Nei tempi di pausa dal lavoro s’incontra con un rabbino, si ritrova a mangiare in taverna con un operaio algerino mussulmano e si confronta spesso con il prete che gli ha affidato l’incarico. L’artista si muove rispettoso e a equa distanza dai tre, un po’ come punto di intersezione e un po’ assumendo il meglio della saggezza delle loro fedi:“Siamo fatti per splendere come fanno i bambini. Dobbiamo manifestare con gratitudine i doni ricevuti” (81) è l’invito dell’operaio-predicatore a fare del restauro il suo capolavoro;“Facciamo così anche noi, quando leggiamo le pagine sacre. Seguiamo lenti, poi ci buttiamo su una parola per approfondirla, non sapendo perché proprio quella. Facciamo i gabbiani, andiamo sulla scia a racimolare” (95) spiega il rabbino, affascinato e meravigliato dall’attenzione all’opera che l‘uomo gli racconta.

L’immagine del crocifisso resta al centro delle discussioni che l’artista intrattiene con i tre e che inevitabilmente per il prete (originario dell’America Latina) implica parlare soprattutto di sé:“Credo nella verità di questa storia perché non poteva essere inventata. Credo alla sua verità che nel culmine è inverosimile e non fa compromessi con l’accettabile. Leggo i massimi scrittori e nessuno arriva alla temperatura della rivelazione. Per accoglierla non basta un lettore, ci vuole una catapulta di amore che va incontro. A quel punto si sperimenta anche il massimo timore” (63-4). Che cosa c’entri il timore con l’amore il protagonista qui sembra non capirlo. Ci arriverà alla fine, quando si avvicinerà alla statua prima togliendosi le scarpe, come Mosé nel roveto ardente, e poi il resto dei vestiti per raggiungere il massimo della mimesi con l’uomo della croce.Ma ora i brividi della nudità non sono più solo il segno della volontà mimetica, bensì del timore e tremore oramai raggiunto, l’unico atteggiamento necessario per accostarsi e compiere l’atto conclusivo. Il capolavoro a cui era stato chiamato e che l’ha segnato fin nella carne ha avuto bisogno di quest’ultimo gesto di compassione, la venerazione del non credente per quell’umanità denudata.

  • In copertina: Salvador Dalì, Le Christ de Saint Jean de la Croix ,1951.

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