Volti di Cristo nella settima arte
Scritto da MARIA NISII.
In Gesù e la macchina da presa (2005), Dario Viganò recensisce 168 titoli che trattano il tema evangelico a partire dagli esordi del cinema (1895) fino al 2004. Dopo di allora ricordiamo almeno Io sono con te di Guido Chiesa (2010), il sardo Su re di Giovanni Columbu (2012) e Maria Maddalena di Garth Davis (2018). Una produzione quantitativamente rilevante, che non può non sollevare qualche domanda.
Avendo attinto a piene mani dalla letteratura per i suoi soggetti, il cinema ha mantenuto un rapporto costante con i vangeli grazie anche alla loro diffusione e riconoscibilità. Il personaggio Gesù di Nazareth è infatti tra i più rappresentati della storia del cinema, tanto che si può parlare di “genere cristologico”. Indubbiamente nessuna pellicola offre mai un Cristo pienamente soddisfacente, né è mai stata esente da critiche (da parte della chiesa e dal mondo laico). Con la sagacia che li caratterizza i fratelli Coen in Ave Cesare! mostrano le difficoltà a conciliare le diverse visioni di Cristo in un ipotetico tavolo interreligioso, in cui si riesce a rendere cinematograficamente attraente persino un dibattito teologico!
Senza entrare ancora troppo nei contenuti, persino la scelta dell’attore chiamato a interpretare Cristo offre motivo di riflessione. Chi scegliere: un divo o uno sconosciuto? Nei Vangeli Gesù non è mai descritto e come sappiamo anche l’arte ha trovato un suo “canone” a partire dall’immagine acheropita (non fatta da mani d’uomo), in cui Gesù è ritratto con la barba e i lunghi capelli, divisi al centro da una scriminatura, che gli cadono simmetricamente sulle spalle.
Il cinema però è una macchina condizionata da esigenze di mercato per i grandi capitali che muove; per questo l’uso del divo è apparsa spesso la carta vincente. E tuttavia, anche questa scelta richiede ricerche particolari, legate alla cura dell’aspetto (costumi, trucco e illuminazione devono essere studiati fin nei minimi dettagli) e della sua rappresentazione (è fondamentale, ad esempio, il momento in cui appare il divo), senza dimenticare che, quando nota, la sua immagine deve trovare collocazione nella storia nel modo più naturale e verosimile possibile.
È Il re dei re di Nicholas Ray (1961) a creare una sorta di iconografia classica: Gesù (Jeoffrey Hunter) è bello, biondo, ha gli occhi azzurri, non è povero (i vestiti sono colorati e molto belli), è sempre sereno, spesso contento, mai realmente sofferente, oltre ad apparire pienamente convinto della sua divinità; per lo più incorniciato in uno splendido panorama, è ripreso nel modo migliore con i mezzi a disposizione.
Ne La più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965), oltre alla scenografia grandiosa, vi è un cast di grandi attori (il Mosè di Cecil de Mille, Charlton Heston, è Giovanni Battista, il tenente Kojak interpreta Pilato, la signora in giallo Jessica Fletcher Claudia Procula, John Wayne il centurione, Sidney Poitier il cireneo) con Gesù interpretato da Max von Sydow, attore bergmaniano per eccellenza (Settimo sigillo, Il posto delle fragole, Luci d’inverno…), esaltato negli abbondanti primi piani e giustamente definito “un Cristo dagli occhi tristi”.
Per il suo Gesù ne Il vangelo secondo Matteo (1964) Pasolini opta invece per un non attore, il 19enne studente catalano e antifranchista Enrique Irazoqui, che a suo avviso meglio incarnava la forza rivoluzionaria che lo aveva affascinato nella lettura del vangelo, trovato nella stanza di Assisi dove alloggiava come ospite di un convegno. L’adozione di attori non professionisti è una scelta registica precisa che si rifà al neorealismo, qui adottata per tutti i personaggi (contadini del sud incarnano la rudezza e sofferenza dei palestinesi, amici intellettuali interpretano gli apostoli, rappresentanti della borghesia i farisei) sui cui volti la cinepresa indugia a lungo, a sottolinearne bruttezza, atipicità, asimmetria. Lo stesso Gesù ha il mono sopracciglio e non possiede i tratti angelici che l’iconografia aveva fino a quel momento tramandato.
Allo stesso modo Rossellini per Il Messia (1975) non si è servito di grandi attori, Gesù compreso interpretato da Pier Maria Rossi, ma anche la sua è una precisa scelta poetica. Mosso da intento documentaristico, propone un film didascalico, eliminando qualunque strategia cinematografica che ne avrebbe favorito il coinvolgimento. Al contrario, con assenza di drammaticità si limita a registrare fatti e dialoghi, riportati quasi alla lettera (pur con alcuni interessanti interventi). Il Gesù di Rossellini vive una vita normale, in mezzo agli altri uomini, predicando mentre lavora, cammina, mangia o riposa. Al contrario del Gesù pasoliniano “arrabbiato”, la parola di questo Gesù non è aggressiva e manca totalmente di carica impositiva.
Resta sul canone cinematografico ormai identificato Ted Neeley per Jesus Christ Superstar (1972), l’hippy-movie nato prima da un album musicale (Rock Opera) e poi dal musical di successo planetario. A differenza degli altri personaggi, questo Gesù da opera rock è l’unico a non indossare un abbigliamento hippy, ma possiede i consueti tratti europei (a differenza, ad esempio, del personaggio della Maddalena di origini orientali e di Giuda di colore), ha capelli lunghi e biondi, barba e occhi azzurri. All’inizio del film, alla sua prima apparizione, assistiamo alla vestizione con una semplice (e classica) tunica bianca (con cuciture). È un Gesù superstar in quanto letto nell’ottica dello star system, esaltato al suo ingresso a Gerusalemme da una folla esultante che poi gli si rivolta contro dopo l’arresto. Una folla volubile, che ben si attaglia al concetto di celebrità qui criticato, che vede la massa osannante trasformatasi fin troppo facilmente in folla ingiuriante.
Sulla preferenza di Zeffirelli per il suo Gesù di Nazareth (1977) caduta su Robert Powell, leggiamo le parole del regista rilasciate in un’intervista:
non poteva essere uno sconosciuto, perché … doveva essere uno capace di impersonare il protagonista del racconto. Poi doveva essere inglese, perché il programma inizialmente veniva girato in inglese, e non si poteva pensare di doppiarlo. Per di più doveva essere un attore qualificato, perché doveva pronunciare le parole più belle che siano mai state concepite. In conclusione, doveva essere un attore inglese di una certa maturità, ma con una età precisa tra i trenta e i trentacinque anni. E allora non poteva essere uno qualunque. Perché un giovane bravo può ancora essere sconosciuto… Ma se uno arriva a trentatrè anni e ancora non si è fatto conoscere, vuol dire che non vale proprio niente. Avevo pensato a Dustin Hoffmann. Certo avrebbe rotto ogni schema, ma sarebbe stato troppo pericoloso per un programma destinato a 700 milioni di persone… e duemila anni di iconografia non sono certo passati invano. E poi ognuno ha il suo Gesù nella testa, quasi sempre derivato da quella iconografia. Robert Powell l’ho trovato setacciando il teatro inglese, dal quale ho sempre preso tutti i miei attori. L’avevo scelto per la parte di Giuda, ma i suoi occhi mi sgomentavano, mi turbavano. Allora gli feci fare un provino per Gesù, anche se tutti cominciavano a sospettare che non avessi le idee chiare. Ma come, lo stesso attore per due personaggi così opposti… Ma io gli feci preparare il trucco da Nazareno classico, e durante il provino il personaggio esplose: un controllo, una voce meravigliosa, una capacità di concentrazione… Durante la lavorazione ha fatto delle cose che non si possono chiedere a un attore, mai. Ha superato tutte le prove con un coraggio e uno stoicismo incredibili. Ma il fatto è che gli succedeva qualcosa dentro. In certe occasioni non basta essere bravi… a lui gli scoppiava una luce, un’ispirazione che ci lasciava sgomenti.
Passato alla memoria collettiva come il Gesù con cui molti di noi (o almeno quelli che erano piccoli o giovani negli anni ’70) sono cresciuti, è bene ricordare come sia stato accolto negativamente dalla gran parte della critica italiana per cui basterà richiamare il severo giudizio del Morandini: “… il Vangelo secondo Zeffirelli è un compromesso tra la messinscena lirica, la passerella delle ‘cammeo performances’ e il film storico hollywoodiano. Non solo fa rimpiangere il sublime poverismo di Pasolini, ma sfigura con il discusso Messia rosselliano…”. Nonostante questo vanta la sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico e Masolino d’Amico, oltre alla collaborazione del biblista Pietro Rossano. E se questo Gesù è invariabilmente divino sin da piccolissimo, aureolato da una dorata cascata di boccoli e uno sguardo ipnotico per gli intensissimi occhi azzurri, alcune sequenze meritano la visione.
Per la discussa pellicola L’Ultima tentazione di Cristo (1988), Martin Scorsese ha selezionato il cast tra attori hollywoodiani noti e riconoscibili, dando al suo Cristo inquieto i tratti di Willem Dafoe. Un vangelo sempre sopra le righe, ipersimbolico e ridondante, ma non senza spunti di valore, oltre a una colonna sonora d’autore (il rock di Peter Gabriel arricchito dalle note etniche di Youssoun’Dour) e trovate gustosissime (come il Pilato di David Bowie).
È di nuovo su un volto noto e riconoscibile che punta la pellicola italiana di Alessandro D’Alatri I giardini dell’Eden (1998) con Kim Rossi Stuart, che con D’Alatri aveva già lavorato in Senza pelle. Questo Gesù dal volto nostrano non esce troppo dall’iconografia tradizionale, ma al contrario la storia narrata ne copre gli anni della vita privata e ignota, con una ricostruzione del contesto storico-culturale dal taglio moderno (sensibilità pacifista ed ecologista). Una versione di “romanzo di formazione” che assimila Gesù al Budda, come lui sensibile alle sofferenze umane prima di iniziare la predicazione sulla pace e l’amore.
Analoga opzione vede Jim Caviezel (La sottile linea rossa di Malick) assumere il volto del Gesù di Gibson nella contestatissima The passion of Christ (2004), anche se in gran parte della pellicola i suoi tratti sono raramente riconoscibili, a parte i brevi flashback. Il volto tumefatto, ridotto a maschera horror, vuole forse scuotere lo spettatore, ma ottiene piuttosto l’effetto di spostare l’attenzione sulle derive di ogni lettura fondamentalista, tradizionalista, dolorista che non deturpa solo il volto dell’attore di turno, ma la bellezza del vangelo.
All’opposto Joachin Phoenix offrirà un Gesù intenso e molto meno tormentato di tanti precedenti in Maria Maddalena (2018) di Garth Davis. L’attore è in ogni caso volto conosciuto, dalle performance apprezzate (Il gladiatore, Joker), e che qui duetta splendidamente con Rooney Mara, una Maddalena estranea (per una volta, per fortuna!) all’iconografia tradizionale che la vuole prostituta penitente. Di conseguenza anche Gesù non potrà che essere meno naïf, non necessariamente bello, ma non meno carismatico. Non convenzionale e dunque naturalmente (ahimé) criticato dal mondo tradizionalista che non vi ha trovato gli abituali punti fermi (ma per questo resta sempre Zeffirelli, che si può recuperare facilmente su Raiplay).
Caso a parte rappresenta il Cristo di Fiorenzo Mattu (Su re, 2012), gonfio e livido per le percosse, che parla in sardo e, alla maniera di Pasolini, è accompagnato da altrettanti volti comuni e disarmonici di attori non attori su cui campeggia il protagonista “brutto” e reso deforme dal dolore – sul modello del servo sofferente
In conclusione possiamo dire che gli attori che hanno interpretato il ruolo di Gesù hanno soprattutto gli occhi azzurri e i capelli sulle spalle. Inoltre sono belli – a parte quest’ultima interessante eccezione che vuole associare il Gesù della passione al servo sofferente. La bellezza, oltre a ben attagliarsi al figlio dell’uomo (Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, perciò Dio ti ha benedetto per sempre. – Sal 45,3), offre una curiosa (e terribile) possibilità: l’effetto di vedere sfigurato un volto bello (una tesi enunciata proprio da Gibson in tempi non sospetti, ovvero occasione di un precedente film: L’uomo senza volto) – come non può che capitare nelle immagini della passione e crocifissione, per quanto anche qui non vi sia accordo, con pellicole che quella sofferenza evitano di mostrarla.
Se ogni volta, per trovare il volto adatto al personaggio Cristo, si è trattato di adottare un modello o rifiutarlo, per lo spettatore nessuno sarà mai pienamente soddisfacente. E tuttavia ogni pellicola contiene elementi di valore (persino quella di Gibson) sui quali vale la pena fermarsi a riflettere. Quando è possibile visionare le scene in modalità “sinottica” emerge il dato specifico, la modalità narrativa adottata, l’intuizione arguta o la problematicità interpretativa. Come il redattore biblico, anche il lettore di riscritture non dovrebbe buttare via niente. Ma data la varietà irriducibile, scegliere si può e si deve. A ciascuno il suo volto. E voi, chi scegliete?