Jesus’ Twelve

 

I discepoli nei vangeli rappresentano un personaggio collettivo difficile da classificare ma di importanza straordinaria per la funzionalità della trama. In un certo senso si può dire che siano i garanti degli avvenimenti, i testimoni degli eventi in grado di riportarli. Non per nulla la narrazione di Marco sembra subire una battuta d’arresto quando Gesù invia i Dodici in missione (Mc 6,7-13). L’evangelista è costretto a ricorrere a un riempitivo, il flash-back dell’arresto ed esecuzione di Giovanni Battista, che gli permette di prendere tempo e far ritornare i missionari ad accompagnare Gesù nei suoi viaggi. La valutazione dei discepoli cambia sensibilmente nei diversi vangeli. Marco è quello più ostile nei loro confronti, li mostra palesemente inadeguati al compito per il quale sono stati scelti, stare con Gesù e andare a predicare (Mc 3,14): quando nel Getsemani si daranno alla fuga sarà la certificazione ufficiale della loro débâcle. Matteo è meno drastico nella valutazione e sebbene l’esito della loro sequela sarà il medesimo, il Gesù di questo vangelo li chiama “gente di poca fede” (Mt 8,26 e 16,8). L’espressione pare volutamente ambigua perché ciascuno è libero di pensare che quella fede sia ritenuta insufficiente oppure meglio che niente. Luca presenta un quadro leggermente più positivo, ma non tace l’inopportuna discussione che sorge durante l’ultima cena, quando nell’imminenza della morte di Gesù litigano su chi di loro sia il più grande (Lc 22,24).
Infine nel vangelo di Giovanni troviamo i discepoli vittime del fraintendimento delle parole di Gesù, sebbene la cosa non ci sorprenda dato che in questo testo i discorsi di Gesù sono particolarmente criptici e prima di ricevere lo Spirito i discepoli non sono in grado di comprenderli. Inoltre nel Getsemani non sono loro ad abbandonare Gesù, ma è lui che li congeda per salvare le loro vite (Gv 18,8-9). Anche qui, però, è lecito domandarsi perché siano così poco reattivi dinanzi al tradimento di Giuda e perché dopo l’annuncio della risurrezione di Gesù da parte di Maria Maddalena continuino a barricarsi in casa.
L’onore degli altari (tranne che per Giuda, ovviamente) li riabilita dal punto di vista della religione, ma non certo sotto il profilo letterario, dove rimangono fino alla fine personaggi secondari e ignavi.

 

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Gli spazi bianchi

 
Presentando il suo romanzo Un’annunciazione nell’ambito degli eventi di Torino Spiritualità, Elena Loewenthal ebbe a sottolineare come la rinarrazione si collochi all’interno degli spazi bianchi lasciati dal racconto primitivo. Questa è un’osservazione valida per qualsiasi tipo di narrazione, ma lo è in modo particolare per quella biblica, tenuto conto che la maggior parte dei suoi testi si è sviluppata e ha circolato a lungo in forma orale, con la possibilità quindi di implementare e arricchire il contenuto a seconda delle circostanze e in relazione all’uditorio specifico. Questo tipo di esercizio è stimolato indirettamente dallo stesso racconto biblico che, come ha giustamente osservato Robert Alter, si mostra sovente laconico nella descrizione dei suoi personaggi e delle loro motivazioni.
 
Tradizionalmente questa estrema sinteticità descrittiva è stata interpretata come un desiderio del narratore di non perdersi in dettagli e di mirare al significato (edificante) dell’episodio in sé. Ma questo punto di vista non regge a un esame più approfondito. L’impressione, invece, è che il narratore taccia su alcuni elementi ma si dilunghi abbondantemente su altri. Ci sorprende, ad esempio, che l’evangelista Marco si soffermi sulle traversie di una donna che da dodici anni aveva perdite di sangue e pur consultando molti medici non ne avesse tratto alcun giovamento, salvo poi tacere il nome di questa donna, nonostante abbia tramandato il nome del personaggio protagonista della storia ad essa intrecciata, vale a dire Giairo. Significa, quindi, che i silenzi – gli spazi bianchi – non sono tutti uguali e vanno in qualche modo interpretati. Qui può tornare utile la distinzione, nota tra gli studiosi, tra gaps e blanks. I primi sono da intendersi come dei vuoti di informazione che in qualche modo devono essere riempiti. A volte avviene da parte dell’autore stesso che colma nel prosieguo della trama alcune lacune create ad arte. L’evangelista Giovanni descrive doviziosamente il miracolo della guarigione del cieco nato in Gv 9,1-7, ma soltanto al v.14 veniamo informati che quella guarigione è avvenuta in giorno di sabato, quando cioè non sarebbe stato lecito curare un malato. L’informazione temporale era importante per la prosecuzione della trama, ma è stata differita al momento in cui sarebbe stata presa in considerazione dagli avversari di Gesù come capo d’accusa. Viceversa, il nome dell’uomo che ha ricevuto il beneficio della guarigione non viene mai riportato. Né la sua origine. Né la sua età (sebbene i suoi genitori dicano che ha raggiunto l’età della ragione, cfr. Gv 9,21).
 
Il lettore è chiamato a prestare attenzione ai gaps, soprattutto quando tocca a lui riempirli con le sue cognizioni previe (sempre in Giovanni non abbiamo nessuna presentazione di Giovanni Battista, segno che l’evangelista presupponeva che il personaggio fosse noto ai lettori). Al contrario, i blanks sono considerati irrilevanti: Giovanni Battista era sposato? Aveva figli? ecc. Ma quando si entra nell’ottica della rinarrazione entrambi i vuoti possono essere importanti. Per lo scrittore che intende approfondire la storia di un personaggio biblico i blanks sono una manna che gli permette di dare libero sfogo alla fantasia, di aggiungere dettagli che lo rendono più simpatetico al lettore e focalizzato più da vicino. Nessuno si scandalizza se un autore contemporaneo decide di dare un nome alla vedova di Nain o inserisce un cane nella famiglia di Lazzaro che tiene compagnia al padrone. Ma quando uno scrittore si avventura nei gaps la faccenda si complica parecchio. Ci sono vuoti narrativi che sono lasciati aperti ad arte, come ad esempio la cosiddetta parabola del figliol prodigo del vangelo di Luca. Il figlio maggiore entra o non entra alla festa per il fratello perduto? L’evangelista non lo dice e lascia che sia il lettore a dare la sua risposta. Se un narratore volesse descrivere l’abbraccio tra i due fratelli non si porrebbe più nell’ambito della riscrittura, ma dell’interpretazione.