La forza della parola libera (2)

25 Giugno 2022Lorenzo Cuffini

Scritto da MARIA NISII.

La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su questo blog in data 18/6/22.

 

Contro l’Unione degli Scrittori e coloro che si piegano alle ragioni del partito, Mandel’štam ricorre alla forza della parola libera, che gli costerà la vita. La letteratura è “sale dei congiurati”, le sue armi sono le parole e le immagini (tra cui il gelo e le stelle, già presenti nella poesia precedente). Nel 1930 scrive quindi Quarta prosa, testo polemico contro l’establishment letterario che, inedito fino al 1988, circola in forma di samizdat negli anni sessanta.

La razza degli scrittori professionisti emana un odore ripugnante (…) però è sempre vicina alle autorità, che trovano rifugio ai propri membri nei quartieri a luci rosse, come le prostitute. Perché la letteratura adempie a un’unica funzione: aiuta i capi a mantenere la disciplina tra i soldati, e i giudici a massacrare i condannati. Lo scrittore [autorizzato] è un miscuglio di pappagallo e di pope, un loreto nel più alto senso della parola. Parla in francese se francese è il suo padrone, ma, venduto in Persia, dirà in persiano “loreto-cretino” o “loreto vuole lo zucchero”. Il pappagallo non ha età, non conosce giorno né notte. Quando viene a noia al suo padrone, questi lo copre con un panno nero, che serve alla letteratura come surrogato della notte.

 

 

 

 

Mandel’štam morì poco prima del suo quarantottesimo compleanno in un campo di transito vicino a Vladivostok. La moglie racconta il modo in cui le fu data la notizia:

Mi inviarono un avviso che mi invitava a recarmi all’ufficio postale di Porta Nikita. Qui mi fu restituito il pacchetto che avevo spedito a M. al campo. «Il destinatario è morto», mi informò la ragazza allo sportello. Sarebbe abbastanza facile stabilire la data in cui mi fu rispedito il pacchetto – era lo stesso giorno in cui i giornali pubblicarono il lungo elenco dei riconoscimenti governativi – i primi in assoluto – agli scrittori sovietici.

Se il suo corpo non è mai stato trovato, dobbiamo gran parte delle sue poesie alla moglie, Nadežda, che le ha apprese a memoria per preservarle clandestinamente. Di seguito un testo di Mandel’štama lei dedicato, ove sembra intuire quello che sarà:

Quanto vorrei, oh quanto

– non visto, non sentito –

volare dietro a un raggio

là dove non esisto.

 

E tu nel cerchio irradia –

non c’è altra beatitudine –

e da una stella impara

che significhi luce.

 

Ciò che ti voglio dire

è che sto bisbigliando

e sottovoce affido

te, mia bambina, a un raggio.

La coppia Mandel’štam è sopravvissuta al tempo storico grazie alla forza che vivere in quei tempi ha risvegliato in Nadežda, che si è fatta carico di preservare il lavoro del marito e la sua biografia.

“La consapevolezza di Nadežda era assoluta, ma veniva sopportata alla luce di una coscienza sana. Improvvisamente divenne una guerrigliera dell’immaginazione, votata alla causa della poesia, alla conservazione dell’opera di suo marito e, in particolare, alla conservazione dei suoi manoscritti. Alcune parole della condanna commutata che intendeva «isolare» e «proteggere» il poeta potrebbero applicarsi anche al compito che Nadežda si assegnò istintivamente e religiosamente – la parola non è troppo forte dal momento in cui la polizia segreta penetrò nel loro appartamento. Da allora in avanti, fu come un prete perseguitato all’epoca dei campi di prigionia, spostandosi rischiosamente insieme all’altare della fede proibita, sistemando i manoscritti al sicuro presso gli adepti segreti. E inevitabilmente, essendosi consacrata custode, era destinata a diventare testimone…”

“Dopo il secondo arresto di Osip, ad esempio, quando Nadežda faceva il turno di notte in una fabbrica tessile della cittadina di Strunino, si teneva sveglia borbottando i versi tra sé e sé: «Dovevo affidare tutto alla memoria in caso mi avessero portato via i manoscritti, o le varie persone cui avevo dato le copie si fossero spaventate e le avessero bruciate in un momento di panico.» C’è poi questa scena in un solaio occupato da ladruncoli, che fu riferita a Nadežda da un uomo che era passato dall’ultimo campo di transito contemporaneamente a suo marito: Seduto con i criminali c’era un uomo con un’ispida barba grigia che indossava un giaccone di pelle giallo. Recitava versi che L. riconobbe. Era Mandel’štam. I criminali gli offrirono pane e roba in scatola, ed egli si servì tranquillamente e mangiò. Evidentemente era solo timoroso di mangiare cibo offertogli dai suoi carcerieri. Lo ascoltarono nel silenzio totale e ogni tanto gli chiesero di ripetere una poesia.”

(da un saggio di  Seamus Heaney su Osip e Nadežda Mandel’štam)

In Ogni storia è una storia d’amore, Alessandro D’Avenia dedica a Nadežda uno dei racconti: https://www.cislscuola.it/fileadmin/cislscuola/content/Scuola_e_formazione/2018/02_2018/DAvenia.pdf

e il gruppo Marlene Kuntz ha messa in musica la sua storia nel brano “Nella tua luce”:

https://www.youtube.com/watch?time_continue=31&v=JUs8cYFGjxo&feature=emb_logo

 

 

 

 

Il poeta, come il profeta, non può tacere. Una volta sgorgata dal profondo, la parola chiede di essere fissata nella forma scritta. Poesia e profezia sono vissute come un compito a cui non ci si può sottrarre, nonostante i rischi che comporta:

“Voi, togliendomi i mari, la rincorsa, lo slancio, e dando al piede il sostegno di una terra forzata, cos’avete scoperto? Un principio sagace: che il moto delle labbra non può venir sottratto.”

In queste parole sembrano riecheggiare i versi dei profeti biblici:

Le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato.

Le pareti del mio cuore!

Il cuore mi batte forte; non riesco a tacere,

perché ho udito uno squillo di tromba, un fragore di guerra.

Si annunzia rovina sopra rovina:

tutto il paese è devastato (Geremia 4,19-20)

Ero come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che essi tramavano contro di me, dicendo: “Abbattiamo l’albero nel suo rigoglio, strappiamolo dalla terra dei viventi; il suo nome non sia più ricordato” (Geremia 11,19).

Come Geremia, anche Mandel’štam viene “condotto al macello” purché taccia. Ma le sue poesie, come gli oracoli, sono votati all’eternità:

No, non la luna, ma un quadrante luminoso
brilla per me e per quale motivo sono colpevole
di sentire la sostanza lattea delle stelle?

E l’orgoglio di Batjuškov mi repelle:
che ora è? Gli hanno domandato qui –
e lui ha risposto con curiosità: è l’eternità!

(La pietra, 1913)

“Per la beata parola senza senso, io pregherò nella notte sovietica”, e il nome di Dio sembra un tutt’uno con la libertà negata:

La tua immagine, dolorosa e incerta,
non posso tastare nella nebbia.
“Signore!” Dissi per sbaglio
senza pensare io stesso di dirlo.

Il nome di Dio, come un grande uccello,
spiccò il volo dal mio petto.
Dinanzi turbina una fitta nebbia
e indietro una gabbia vuota.

(Tristia, 1922)

 

 

Marc Chagall, L’angelo che cade

 

 

Di lui si racconta che di sera, nel gulag dove trascorse gli ultimi giorni di vita, per consolare i detenuti recitava davanti al fuoco le sue traduzioni di Petrarca (aveva appreso l’italiano per leggere Dante).

Il poeta OsipMandel’štam fu visto l’ultima volta
in un campo di smistamento prigionieri
presso Vladivostok nel dicembre del trentotto
mentre cercava resti commestibili in un
cumulo di immondizie. Morì prima ancora che finisse l’anno

I suoi assassini a quei tempi amavano parlare
del “cumulo di macerie della storia
sopra il quale
sarà gettato il nemico”

E dunque questo era il nemico: il poeta in fin di vita
e questo il cumulo di macerie (come già disse Lenin:
“La verità è concreta”) Se l’umanità avrà fortuna
gli archeologi delle macerie della storia porteranno alla luce
ancora qualcosa della nostalgia di una cultura universale

Se l’umanità avrà ancora fortuna saranno uomini
gli archeologi sulle macerie della storia

(Erich Fried, Macerie)

 

 

Marc Chagall, Giobbe

 

 

La luce di Mandel’štam non si è spenta ma ha continuato a brillare negli animi di coloro che hanno ritrovato il suo spirito negli anni bui della repressione, che in quelle terre ha conosciuto varie ondate e non pare si sia ancora esaurita. Ol’ga Sedakova, poetessa contemporanea che ha proseguito la tradizione di questi grandi, ne riferisce un episodio esemplare:

“Racconterò una storia che ho ricevuto di prima mano dal suo protagonista. Si tratta di un dissidente che negli anni settanta era stato incarcerato e per molti mesi interrogato ogni giorno. Da lui esigevano che firmasse determinate dichiarazioni e intervenisse pubblicamente con un pentimento quando sarebbe parso opportuno.

A un certo momento – raccontava lui stesso – mi fu tutto chiaro. Mi addormentai con il sentimento che quel giorno avrei firmato tutto ciò che era necessario. Non per paura, ma perché tutto era indifferente. Niente aveva qualche significato. Ed ecco che improvvisamente affiora alla mente una poesia di Mandel’štam, dall’inizio alla fine: Del greco flauto théta e iota. E anch’io provai in verità ciò che mi raccontava la gente di chiesa, quel che essi sentivano dopo la comunione, e pensai: sicuramente dev’essere la stessa cosa. Il mondo intero, tutto è comunione con Lui. Dopo di che fui saldamente cosciente che non avrei firmato nulla. Ormai era impossibile. Dovettero capirlo, e da quel giorno non mi chiesero più nulla e mi mandarono dove era necessario.” (Ol’gaSedakova, Il nodo della vita”. La poesia come esperienza spirituale in Anna Achmatova e OsipMandel’štam).

Nell’enciclopedia di nuovo non c’è posto
per OsipMandel’štam
di nuovo è senza un tetto
è sempre così difficile trovare un alloggio
registrarsi a Mosca è quasi impossibile
lo chiama il Caucaso echeggia la bassa foresta
dell’Asia quei giorni non sono ancora giunti
altri raccolgono ciottoli sulle spiagge del Mar Nero
continua sempre l’iniqua istruttoria sebbene l’uniforme
mostri un taglio nuovo
e un sarto sempre diverso
senza volto s’inabissi in inchini profondi
Chiudi il libro un fragore di sparo e la polvere
bianca della carta solletica il naso
è sera
cade una neve latina nessuno verrà più oggi
è tempo di dormire quando busserà alla tua porta sottile
aprigli.

(Adam Zagajewski)

Mandel’štam è stato ispiratore e profeta anche fuori dall’ex Unione sovietica. È stato infatti maestro di Paul Celan, che lo ha tradotto in tedesco, nella lingua dei suoi persecutori, per raccontare la shoah alle generazioni che non l’avevano conosciuta. Perché la poesia può dire quello che altre parole non saprebbero esprimere. Per questo può bruciare più del fuoco. Per questo inquieta i potenti di sempre che sanno solo metterla a tacere. Un segno della sua forza, la forza di una libertà che non si può incatenare.

Non si può tacere… Il moto delle labbra non può venir sottratto.

(2) Fine.

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