Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (7).

Riscrittura a puntate per l’estate.

Scritto da MARIA NISII.

Mentre tutti vanno a festeggiare la fine della guerra, Mendel decide di rallegrarsene a modo suo e mette sul piatto un disco appena arrivato. Questa musica però lo commuove. E appena torna l’amico gliene chiede il titolo, per scoprire che si chiama “La canzone di Menuchim”: Mendel si sente mancare e piange per la prima volta dopo tanto tempo (163).

Arriva anche il tempo dei preparativi per la Pasqua. In Mendel qualcosa è cambiato e solo l’amico collega quel cambiamento alla nuova musica. Nulla poteva ancora mortificarlo perché era stato umiliato dal cielo (166), eppure si offende per il gridare della moglie del suo ospite e ancor più quando si accorge che per molto tempo tutti lo avevano chiamato “solo” Mendel per umiliarlo (171) – “ora invece si ridono di me i più giovani di me in età”(30,1); “Così son diventato ludibrio dei popoli, sono oggetto di scherno davanti a loro”(17,6).

Mentre progetta di ritornare in patria, dopo aver ripreso possesso dei risparmi della moglie nascosti sotto l’asse della sua vecchia casa, alcuni vicini gli danno la notizia che un nuovo genio della musica, un certo AlexejKossak (il cognome di sua moglie) lo sta cercando. Mendel ne vede la foto e non lo riconosce, ma quegli occhi lo rendono allegro, “tutto sapevano, il mondo vi si rispecchiava… Li ha già visti… erano gli occhi dei profeti. Uomini ai quali Dio stesso ha parlato, hanno questi occhi. Tutto sanno, nulla tradiscono, la luce è in loro” (174).

Durante la celebrazione della Pasqua Mendel si lascia trascinare dalla melodia che tutti cantano, che in qualche modo lo ridispone favorevolmente verso il cielo, “come se fosse quasi riconciliato con il suo piccolo destino” (176) – sta iniziando il suo riavvicinamento a Dio.Arriva infine il momento di aprire la porta per far entrare il profeta Elia, ma subito dopo averla chiusa tutti sobbalzano per un suono improvviso:qualcuno bussa alla porta.E’ lo straniero che cercava Mendel e che viene invitato a sedere.

Tra i commensali aleggia l’attesa di un miracolo, ma la celebrazione deve andare avanti e i padroni di casa la accelerano – con fretta poco solenne – per lasciare spazio al nuovo venuto. Non appena possibile gli si dà la parola e lui, con lentezza tra il solenne e la suspence, risponde alle domande rivelando qualcosa di sé solo dopo aver chiesto degli altri familiari. Le sue parole “aleggiano” – come spirito – nella stanza, dove si sta facendo buio – segno del mistero che l’uomo porta con sé.

Mendel non ha il coraggio di chiedere notizie di Menuchim; ci pensa per lui l’amico. Si, è vivo – risponde infine dopo una pausa. Il ritmo rallenta – Roth è maestro dei ritardi -, Mendel viene preso dal riso e poi dal pianto. La rivelazione avviene però improvvisa con la risposta alla domanda: dov’è ora? “Io sono Menuchim” (185)[1], le candele vacillano e il padre gli cade in ginocchio, iniziando a baciarlo ovunque e tastandone il volto come un cieco. Il figlio gli dice “Alzati!” (il verbo della resurrezione), lo solleva e se lo mette sulle ginocchia come un bambino. Non è un riconoscimento, ma una rivelazione, di cui “La canzone di Menuchim” era stata vera annunciazione. Sulle ginocchia del figlio, Mendel bisbiglia la profezia del rabbi a Deborah: Mendel è stato risuscitato dal figlio, a sua volta un rinato – con la musica, una sinfonia che si portava dentro e che ora suona nelle sue parole che, come spirito, aleggiano sui presenti.

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Marc Chagall, Giobbe, particolare

La riabilitazione di Mendel. La moglie di Showronnek prende improvvisamente a trattarlo con tutti i riguardi che aveva perduto – richiamo a Gb 42,11. Showronnek corre a chiamare gli altri amici, che erano andati a consolarlo nel tempo dell’afflizione e tutti ora gioiscono con lui: “grandi sono i miracoli che l’Eterno compie ancora oggi, come alcune migliaia di anni fa. Lodato sia il suo nome!” (186-7), dice lo stesso Menkes che ne aveva già sostenuto l’impossibilità (152) – anche qui, come in Giobbe, gli amici fanno una magra figura.

Prima di partire con il figlio, Mendel stacca dal chiodo il sacchetto con gli oggetti per la preghiera. E quando Menuchim gli chiede se può compiere quel viaggio in giorno di festa, Mendel dimostra una nuova saggezza e, come Giobbe confessava “riconosco che tutto tu puoi…” (42,1ss), ora Mendel dice: “gravi peccati ho commesso, il Signore ha chiuso gli occhi… E’ così grande, che la nostra cattiveria diventa piccolissima” (187). Così di fronte al mare sfida anche la proibizione di togliersi il berretto dalla testa.

“Giobbe morì vecchio e sazio di giorni”(42,17) – “Mendel Singer, dopo una lunga vecchiaia passerà nella braccia della buona morte, circondato da molti nipoti e “sazio di vita”, come sta scritto in Giobbe” (193), pensa Mendel di fronte al mare, dove l’ha portato il figlio.

L’unico ricordo che è rimasto a Menuchimdegli anni vissuti in famiglia è il padre che batte contro il bicchiere e la canzoncina che gli cantava;della madre il senso di calore. Ora è sposato e ha due figli – Mendel ne benedice la foto come Giacobbe i figli di Giuseppe.

Menuchimdichiara di volersi occupare di Mirjam e delle ricerche di Jonas – ha infatti saputo che è vivo. A Mendel sembra che ormai ogni miracolo sia possibile e si addormenta tranquillo: “si riposò dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli” (195).

Marc Chagall, Il violinista verde
Marc Chagall, Il violinista verde

(Fine.)

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[1]“io sono” è l’autoaffermazione divina tipica del quarto vangelo che richiama il nome divino di Es 3,14

  • In copertina:  Marc Chagall, Giobbe.
  • Testo di riferimento: Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 [ed. or. 1930].

 

Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (6).

Riscrittura a puntate per l’estate.

Scritto da MARIA NISII.

Arrivo degli amici e bestemmia di Mendel. Al rumore e alla vista del fumo accorrono gli amici Menkes, Skowronnek, Rottenberg e Groschel che ricoprono il ruolo dei biblici Elifaz, Bildad, Zofar e Elihu. “Dio voglio bruciare” (149) dice Mendel e, anche se i quattro non sono più devoti come un tempo, “Dio dimorava ancora nei loro cuori”,per cui si ribellano a quella bestemmia. Quello che segue è uno dei momenti che non solo ricalca il libro di Giobbe, ma che pure lo cita esplicitamente. A turno infatti gli amici cercano di convincerlo del senso nascosto dei colpi di Dio, della colpa di aver lasciato Menuchim a casa, del fatto che Dio non abbia più la possibilità di fare miracoli nel mondo attuale e di una possibile riabilitazione, come già avvenuto per Giobbe. Ma Mendel, come Giobbe, rifiuta le spiegazioni degli amici. E tuttavia l’accusa di aver abbandonato Menuchimdeve aver punto sul vivo e identificandosi con Giobbe, leva il proprio grido: perché Menuchim era malato? La sua malattia è stato il primo dei colpi di Dio contro un uomo che non l’aveva meritato…

Assereto Gioachino (Genova 1600-1649), Giobbe
Assereto Gioachino (Genova 1600-1649), Giobbe

Dopo la notte passata insieme per non lasciarlo solo in quello stato, gli amici portano Mendel nella bottega di Showronnek.

Mendel in lotta con Dio. Da quel momento Mendel vive nel retrobottegadel negozio di dischi di Showronnek e si dà da fare come può,facendo piccoli lavoretti per la famiglia e per la gente del quartiere. La lotta ingaggiata con Dio è nota a tutti, ma gli ebrei parteggiano per lui perché “troppo duramente Geova l’aveva trattato” (155) e lo ritengono un santo folle (156).

Già Giobbe aveva ingaggiato la sua battaglia, chiamando Dio a processo:“voglio solo difendere davanti a lui la mia condotta!” (13,15b); “Oh, potessi sapere dove trovarlo… Esporrei davanti a lui la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni…” (23,3a.4)

Inutilità della preghiera. Mendel non prega più ma quella sua ira lo addolora; ricorda con nostalgia alla leggerezza di un tempo quando, svegliandosi, la preghiera lo accompagnava nel nuovo giorno. È come se, nonostante tutto, qualcosa in lui fosse rimasto – un probabile ecodi: “ah, potessi tornare com’ero ai mesi di un tempo… quando l’Onnipotente era ancora con me e i miei giovani mi stavano attorno”(29,2-5). È in lite con lui, ma deve riconoscereche è ancora Dio a reggere il mondo (157).

Era stato un inganno, si dice – “Dio non presta attenzione alle loro preghiere”(24,12). Così quando è presente alla preghiera di altri per fare il decimo[1] viene percepito come un estraneo, ma c’è sempre qualcuno che prega anche per lui. Mendel sente quel pregare come espressione di paura e lui non ha più paura: gli è già stato tolto tutto.

 

“La tragedia è dominata da due inspiegabili enigmi: Menuchim e Dio. Ambedue sono ossessionanti, irriducibili presenze segretamente legate l’una all’altra. Menuchim è la pietra d’inciampo del creato… Eppure non lo si può cancellare: egli è, ed è la vita e la malattia del mondo… Impossibile però comprendere Menuchim… egli è un patetico, resistente, orrido, bellissimo, inspiegabile mistero. Suo compagno è Dio, che lo ha creato… Se tutto viene fatto risalire a Dio, è di lui che sempre si dovrà dibattere. Ma anche di lui non si potrà mai venire a capo…. Come non è possibile uccidere Menuchim, così non è possibile bruciare Dio… Menuchim e Dio costituiscono i due lati estremi, opposti e complementari di ciò che è inscrutabile, dell’insondabilità ultima dell’essere. Abbandonare l’uno significa perdere la fede nell’Altro… Essi sono legati dall’attesa che destano… e finora vana del Wunder, del miracolo” (Piero Boitani, Riconoscere è un Dio,pag. 326-7).

(continua.)

[1]La preghiera pubblica (d’obbligo solo per gli uomini) richiede il minjan, il numero minimo di 10 maschi adulti, ovvero di almeno 13 anni – cftDt 1,15

  • In copertina: Antonio de Pereda, Giobbe.
  • Testo di riferimento:Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 [ed. or. 1930],

Giobbe.Romanzo di un uomo semplice (5).

Riscrittura a puntate per l’estate.

Scritto da MARIA NISII.

La seconda parte del romanzo segna un nuovo passaggio temporale: dopo alcuni mesi Mendel è ormai di casa a New York, per quell’adattabilità tipica della sua gente – Mendel assume talvolta i tratti dell’Ebreo errante (specie nelle parole del vetturino: “cosa viaggiate sempre per il mondo! è il diavolo che vi spinge da un posto all’altro. Noialtri si resta dove si è nati”, 86). Gli affari di Sam vanno bene, Mirjam ne frequenta l’amico Mac, Deborah ha un bel vestito e va al cinema – anche se non ha perso il vizio di lamentarsi. L’America è God’s own country come la Palestina e New York, la città dei miracoli, come un tempo Gerusalemme (114): sono tutti affascinati (e presto ne saranno anche vittime) dal sogno americano.

Mirjam non sta in casa  più di quanto ci stesse prima, ma almeno lavora nel negozio del fratello, e lei e la madre ora pare si capiscano. Deborah “è una donna, qualche volta ha il diavolo addosso” (115) e la nuora “sia pure stupida! Le donne non hanno bisogno di cervello, che Dio l’aiuti, amen!” (114): Mendel esprime così il suo maschilismo – affine probabilmente alla sensibilità di Roth.

Mendel si compiace dei figli, ma aspetta sempre una lettera che gli dia buone notizie degli altri due lasciati in patria. Marito e moglie pensano sempre a Menuchim e sperano di poter tornare a casa a trovarlo.

È a partire da questo momento che il richiamo alla parabola di Giobbe si fa più evidente, per cui possiamo scandire i tempi del romanzo secondo lo schema del libro biblico.

Il tempo della prosperità. Arriva la notizia di un grande guadagno di Sam e del socio Mac, a cui segue la buona notizia che Menuchim ha iniziato a parlare e che corre persino. Insieme arriva anche una lettera di Jonas, in cui si dichiara felice della sua vita da soldato che intende proseguire dopo la leva. Le buone nuove riavvicinano per quella sera marito e moglie, che festeggiano bevendo idromele. Mendel ringrazia il Signore da cui si sente graziato: “Anche su di lui s’inarcava la grande, ampia, benigna mano di Dio” (124).

Nonostante il benessere conquistato dal figlio, Mendel non vuole cambiare casa e quartiere (rigorosamente ebraico) sebbene nelle notti estive non possa dormire per gli insetti, il rumore e la puzza che arrivano dall’esterno; di giorno per contro si appisola continuamente, sognando di Menuchim, mentre i suoi figli gli cantano le lodi e i “comandamenti” del Nuovo Mondo (“gli americani erano sani, le americane belle, lo sport importante, il tempo prezioso, la povertà un vizio, la ricchezza un merito, la virtù un successo a metà, la fiducia in se stessi un successo completo, il ballo igienico, lo schettinare un dovere, la beneficenza un investimento di capitale…, 127). I figli desiderano per sé quel sogno americano, Mendel invece ci dorme su sognando Menuchim e la Russia.

Una notte guarda sua moglie che dorme e si chiede il perché di quella convivenza, visto che il loro piacere è finito da così tanto tempo; la risposta è naturalmente biblica: sta scritto che non è bene che l’uomo sia solo, e perciò viviamo insieme” (129).

Apice di questa fase di benessere è l’offerta di Mac di andare in Russia a prendere Menuchim, ma purtroppo quando arriva il momento l’Europa entra in guerra e il progetto non può andare in porto. Mendel prega, ma la sua fiducia vacilla e dice a se stesso che cantare i salmi è troppo poco per salvare i suoi figli.

Le prime disgrazie. Anche l’America entra in guerra e Sam, che dalla Russia è partito disertore, ora s’arruola perché l’America è una patria (135). Solo quando è ormai partito, Mendel si rammarica di non aver detto nulla per convincerlo a restare – non è l’uomo delle decisioni, lui. E adesso vive aspettando la domenica, il giorno in cui arrivano Mirjam, la nuora e il bambino. Un giorno le due donne portano con loro un uomo, il signor Glück, che a Mendel dà l’impressione di intendersela con entrambe – “un altro cosacco”(137), commenta tra sé. Di Jonas si viene a sapere che è disperso.

Altre disgrazie. Improvvisamente arriva Mirjam. È un giorno e orario insolito, così si capisce subito che deve essere successo qualcosa; Mendel sente di sapere già tutto: l’ha sognato. E la notizia è che Sam è morto – Mac ne ha riportato l’orologio (non era più Schemarjah e di lui torna indietro un simbolo di successo di quel che è stato Sam): Deborah inizia a strapparsi i capelli e muore cantando una ninna nanna per bambini morti. Se ne va con una delle sue tante scene madri: il dolore è vissuto in una rappresentazione di rinuncia-sconfitta definitiva di se stessa (della bellezza che è stata, di cui i capelli sono segno) e del suo essere madre (ninna-nanna).

William Blake, Satana punisce Giobbe con piaghe infuocate.
William Blake, Satana punisce Giobbe con piaghe infuocate.

Mendel trascorre i giorni del lutto, quasi immemore degli amici che passano a fargli visita, discorrendo con la defunta: “…piena di travaglio e senza senso è stata la tua vita. Nella giovinezza ho goduto della tua carne, più tardi l’ho sdegnata. Forse è stato questo il nostro peccato” (141). Sempre in cerca della colpa da cui deriverebbero le disgrazie di famiglia, Mendel pensa che da una parte la fine del desiderio tra marito e moglie e dall’altra il desiderio quasi ossessivo di Mirjam per gli uomini – ragione per cui sono partiti (152) – siano i peccati di famiglia. La colpa, secondo Mendel, è una questione di desiderio.

Ma di Deborah almeno il Signore ha avuto pietà, “di me non ha compassione. Perché io sono un morto e vivo ancora” (141) – eco di Gb 3,21: “a quelli che aspettano la morte non viene, che la cercano più di un tesoro”; 6,9: “volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Ciò sarebbe per me un grande conforto”; 10,1a.2: “stanco io sono della mia vita!… Dirò a Dio: Non condannarmi! Fammi sapere perché mi sei avversario”.

Improvvisamente un’altra infausta notizia: Mirjam è impazzita e nel suo vaneggiamento ammette di aver tradito Mac con Glück e ora che Mac è tornato, la tresca è venuta a galla. I medici dell’ospedale dicono che si tratta di un caso che non sanno curare: “psicosi degenerativa” o “dementia”, ma neppure dei nomi sono tanto sicuri. Dicono a Mendel di pregare, già che lui è un uomo pio.

A differenza di Giobbe, che reagisce contro Dio solo quando viene colpito nella sua carne, Mendel è stato toccato negli affetti – nemmeno nei beni – e dunque il suo sarebbe il livello delle prime disgrazie bibliche.

Improvvisamente Mendel sembra trasformarsi: prende in mano la situazione, dice alla nuora di sposare Mac (non l’altro uomo) per dare un padre al bambino e sistemarsi. Vuole restare solo e sciolto da ogni legame, ma gliene resta ancora uno. Per questo accende un fuoco e prende il sacchetto con i filatteri, il talèd e i libri di preghiera: “non ha figlio, non ha figlia, non ha moglie, non ha patria, non ha denaro. Dio dice: ho punito Mendel Singer; di che cosa lui, Dio, punisce?” (148) – eco, tra gli altri, di “se ho peccato, che cosa ti ho fatto?”(7,20). È come impazzito, ma non riesce a buttare il sacchetto nel fuoco: “il suo cuore era in collera con Dio, ma nei suoi muscoli albergava ancora il timore di Dio” (148). Le mani si rifiutavano di obbedire per un “sacro riflesso condizionato” (PB 323), ma non bocca e piedi. Per cui inizia a gridare e pestare rumorosamente il pavimento.

(continua)

 

  • In copertina:  Marc Chagall, L’ebreo errante
  • Testo di riferimento : Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 (ed. or. 1930)

Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (4).

Riscrittura a puntate per l’estate

Scritto da MARIA NISII.

Nella mente della madre risuonano ancora le parole del rabbi: “non abbandonarlo!”.“Ci sono almeno un paio di settimane prima della nostra partenza, prima d’allora Dio farà sicuramente un miracolo” (89), si dice Deborah, rammentando le parole del rabbi di non abbandonare suo figlio. Ma solo un miracolo potrebbe salvarlo dall’abbandono in patria deciso dal padre. “I morti nell’aldilà non aiutavano, il rabbi non aiutava, Dio non voleva aiutare” (89): Dio al terzo posto, dopo i morti e il rabbi, un Dio che può ma non vuole aiutarli. I miracoli capitavano solo nei tempi antichi -pensa Deborah – quando gli ebrei vivevano in Palestina; capitano anche oggi ma ci vuole fortuna e i figli di un maestro non ne hanno. Per lei la colpa è l’essere miserabile del marito.

Mendel rifiuta di andare dal rabbi: “io non ci credo. Nessun ebreo ha bisogno di un intermediario col Signore. Egli esaudisce le nostre preghiere se non facciamo niente di male. Se però facciamo del male, ci può punire” (90). Nelle parole di Mendel torna la ferrea legge della retribuzione che nel libro di Giobbe è sostenuta dagli amici; nelle parole di Deborah risuona invece la voce della moglie di Giobbe: Per che cosa ci punisce ora? Abbiamo fatto del male? Perché è crudele?” (90) e come Giobbe, Mendel risponde: “Tu lo bestemmi, Deborah”.

Intanto Mirjam è presa dal pensiero degli uomini e dalla fretta di vivere quell’estate prima del raccolto, ovvero fintanto che può ancora nascondersi in mezzo al grano. Ma in America ci sarebbero stati ancora più uomini! (77-9). Nella ragazza emerge fortissimo il desiderio per il maschile: a turno frequenta tutta la caserma e spesso si trova anche con due o tre soldati insieme. Sarà proprio questa la causa della sua follia, come il padre sosterrà dicendo che nella figlia era entrato un demone e che lui l’aveva capito vedendola quella prima sera col cosacco – una pazzia interpretata come forma di possesso demoniaco.

Roth ne ha fatto esperienza nella sua vita, prima con il padre e poi con la moglie. Nell’ambiente ebraico ortodosso della Galizia, la pazzia era considerata un castigo di Dio – anche Menuchim è chiamato l’idiota. La malattia della moglie aveva provocato in Roth una profonda crisi. Non era preparato ad accettare la disgrazia, sperava in un miracolo e si incolpava della malattia.

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Deborah sente la paura per l’abbandono imminente di Menuchim, fatto che significa lasciare il figlio ma anche contravvenire alle parole del rabbi. La casa “comincia a sfasciarsi… era marcia e non si sapeva” (95) – è la classica immagine personalizzata della casa, segno esterno e visibile di quanto avviene nei suoi abitanti. Mendel la cede ai vicini perché tengano con loro Menuchim – quella famiglia povera sembra a Mendel felice, immeritatamente fortunata.

Il piccolo “idiota” diventa irrequieto, come consapevole di quello che sta per succedere: “chi può dire quale tempesta di paure e ansie avesse da sostenere l’anima di Menuchim in quei giorni, l’anima che Dio aveva nascosto sotto l’impenetrabile manto dell’imbecillità” (97). Dio è naturalmente sempre impenetrabilmente responsabile di ogni cosa, come se affermarne l’esistenza, la presenza e la fede implicasse attribuirgli la responsabilità di quanto di male e di bene avviene. La parabola di Mendel è anche la messa alla prova di questo volto di Dio: “Dio è così grande, che la nostra cattiveria diventa piccolissima” (187), capisce infatti Mendel solo alla fine.

Deborah culla il figlio e aspetta il miracolo fino all’ultima notte, ma “la forza che dà la fede, non la trovava più, e a poco a poco l’abbandonavano anche le forze di cui l’uomo ha bisogno per reggere alla disperazione” (98). L’America ha perso tutto il suo fascino e appare improvvisamente una sventura. Il mattino della partenza la donna ha una crisi isterica e scende di nuovo dal carro per riabbracciare il figlio. La fede già debole di Deborah ha una nuova battuta d’arresto.

Durante il viaggio Mendel prega: “pregava a memoria, meccanicamente, non pensava al senso delle parole, il loro suono da solo bastava, Dio capiva che cosa significavano” (101). Di fronte agli altri viaggiatori nei giorni successivi appare ridicolo: “sorrisero dell’ebreo che saltellava e traballava nell’angolo, dondolava il busto avanti e indietro, eseguendo una misera danza in onore di Dio” (103) – forse misera, ma pur sempre una danza. Mendel perde il senso, ma continua ad aggrapparsi a Dio.

Nel frattempo la figlia si stringe al vetturino che si immagina delizie per la notte a venire – sono scappati dai cosacchi per trovarne subito molti altri.

Mendel ha paura dell’acqua che dovrà attraversare, ma sulla nave in partenza la osserva e ne trae conforto: “Eterna era. Mendel riconobbe che Dio stesso l’aveva creata… Giù sul suo fondo si attorcigliava Leviatano” (103-4) – il richiamo al Leviatano è richiamo a Genesi e a Giobbe (40,25ss), ma il mostro è la paura che è entrata in casa loro dopo la visita del dottore. Ma infine l’uomo si tranquillizza e mormora la benedizione per l’occasione: Mendel ha riconosciuto il Creatore e la sua opera, come Giobbe nell’ultima confessione (42).

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Gustave Doré, La distruzione del Leviatano

In territorio americano Mendel vede negli uomini in uniforme i nuovi cosacchi di sua figlia. Il figlio Sam invece gli pare sdoppiato in due, tra quello che era in Russia e quello che è ora in America, dunque ancora irriconoscibile. Nel giro turistico sul camion che il figlio fa fare ai suoi all’arrivo, Mendel si sente assalito da odori, suoni e immagini insopportabili – irriconoscibili ed estranee, per cui perde i sensi: “un fitto velo intessuto di fuliggine, povere e calore. Pensò al deserto, attraverso il quale i suoi padri avevano vagato quarant’anni. Ma almeno loro erano andati a piedi” (108). Il richiamo qui è all’Esodo e, come le prime generazioni di padri pellegrini che arrivavano in America, anche Mendel si rifà a quella memoria biblica, ma invece di vedere l’America come la “Terra Promessa”, per lui si tratta ancora di attraversare il “deserto”.

Ripresosi dallo svenimento, vede la sua immagine nello specchio ma riconosce se stesso solo dopo aver visto attorno a sé i familiari (109), perché sente di aver lasciato se stesso in Russia con Menuchim e anche tutti loro gli sono diventati estranei in quella terra straniera.

Roth ha vissuto il tramonto dell’impero asburgico: la perdita della patria è un tema presente in diverse opere.

(continua.)

  • Testo di riferimento: Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 [ed. or. 1930],

Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (3).

Riscrittura a puntate per l’estate

Scritto da MARIA NISII.

Mendel sembra star bene solo in compagnia di Menuchim, dal quale cerca a ogni costo di carpire qualche segno di vita – il che succede solo con il suono forte del cucchiaio sbattuto contro un bicchiere, mentre per il resto il bambino è impassibile (ma sarà anche l’unico ricordo di questo periodo per Menuchim, già sensibile al suono). Mendel prova ripetutamente a cantillare per lui i primi versetti della Bibbia, come fa con i suoi scolari e gli grida: “Menuchim, io sono solo!… Perché taci, Menuchim? Tu sei il mio vero figliolo!” (46).

“Perché sono punito così?”… e si lambiccava il cervello alla ricerca di una qualche colpa e non ne trovava nessuna grave” (46): Mendel come Giobbe cerca una colpa in sé e non la trova – su questo i richiami biblici sono numerosi, tra i tanti: Gb 6,29: “la mia giustizia è ancora intatta” o 7,20: “se ho peccato, che cosa ti ho fatto?”

Con il trafficone Kapturak, Deborah riesce a contrattare per un solo figlio e, tornata a casa con la notizia, Jonas si dichiara pronto a fare il soldato. L’indomani mattina non lo trovano già più a casa e presto sapranno che è diventato stalliere del vetturino (non ebreo) di paese pur di allontanarsi dai suoi. Aspettando di partire come soldato, il giovane si introduce in quel mondo nuovo ubriacandosi e mettendo incinte le ragazze: a casa lo piangono come fosse morto. Più tardi, al culmine della disperazione Mendel ammetterà: “Jonas aveva ragione, Jonas, il più sciocco dei miei figli! I cavalli amava, amava l’acquavite, amava le ragazze… non ti potrò dire che avevi ragione a diventare un cosacco” (145).

L’altro figlio, Schemarjah, viene invece prelevato da casa da un messo di Kapturak e quindi accompagnato in terra straniera. Al momento di salutare il fratellino, viene fuori tutto il suo disagio: “fu come se avesse da baciare non un fratello ma un simbolo, che non dà risposta” (52). La partenza per lui è nostalgica, ma per i suoi acuisce il senso di vuoto che si è insinuato nella casa e tra loro: Jonas manda ogni tanto un saluto dalla città dove presta servizio, Mirjam non è quasi mai a casa. Menuchim, “l’unico figlio”, tende sempre le braccia ogni volta che Deborah si avvicina e ne cerca ancora il seno.

Rothgiobbe

Mirjam è sempre descritta come civettuola, ma la sua caratterizzazione è semplice e al limite dello stereotipo; ogni personaggio è connotato in alcuni tratti e poi resta fisso in quelli. L’unico a cambiare è Mendel e -inevitabilmente- Menuchim.

Una nuova cesura segna il trascorrere di un altro tempo non definito – il testo è composto di capitoli di varia lunghezza, ma in genere brevi che non costituiscono un vero e proprio stacco nella storia. La loro funzione sembra necessaria a far avanzare il tempo e dunque far progredire la vicenda familiare. Gli ultimi capitoli conoscono infine un notevole rallentamento, fino all’apice raggiunto nel penultimo, in cui si gioca con l’effetto del ritardo: è come se tutto il romanzo dovesse galoppare velocemente per raggiungere quel finale.

Nel normale scorrere della vita familiare, si presenta a casa Singer uno straniero accolto con tutto il sospetto e la preoccupazione che questa figura porta in sé. In realtà si scopre presto trattarsi di un americano, amico del figlio espatriato: Schemarjah è ora in America (ha fatto fortuna come un novello Giuseppe), è sposato, fa affari e si chiama Sam. Manda dei soldi perché i suoi possano raggiungerlo e alcune foto, in cui i genitori faticano a riconoscerlo.

All’inizio Mendel non ne vuol sapere di partire, ma la sera stessa dopo la preghiera al tempio si ferma casualmente fuori dal paese e vede sua figlia in compagnia di un cosacco – torna quindi la paura di mischiarsi con il mondo non ebreo, una paura che in Mendel sembra assumere i tratti della “colpa” a lungo invocata. Questo nuovo fatto gli fa improvvisamente cambiare idea sul da farsi: i tre partono ma lasceranno lì Menuchim alle cure dei vicini – una decisione di cui non si dà mai alcuna spiegazione.

“L’America è un paese benedetto… la Russia è un paese triste” (73): i pensieri di Deborah seguono una nuova fonte di eccitazione (là dove Mendel è pauroso e timoroso) e si esprimono quasi come una filastrocca (“Mendel non sarà più un maestro, padre di un figlio ricco sarà”). La sua è una modalità infantile e semplice di pensiero – in questo simile al marito, che pensa di andare in America perché lì non ci saranno più cosacchi per Mirjam. Ma sarà sufficiente lasciare il natio borgo per trovarne di nuovi, come lo stesso Mendel capirà.

(continua)

  • In copertina: Georges De La Tour, Giobbe e la moglie
  • Testo di riferimento : Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 [ed. or. 1930], p. 9)

Giobbe. Romanzo di un uomo semplice (2).

Riscrittura a puntate per l’estate

Scritto da MARIA NISII.

Mendel “sorrideva alla fede di sua moglie nel rabbi. Alla sua semplice devozione non occorreva una potenza mediatrice” (21), ma all’arrivo della moglie e al responso del rabbi scatena contro i figli la furia che ha dentro e quasi in trance, si placa solo all’arrivo degli scolari. Mendel è sempre un mite, un uomo modesto e timoroso, anche in famiglia; la sua perdita di controllo è segno della paura che si è insinuata in tutti loro e che si manifesta nella disgregazione delle relazioni familiari: Menuchim li separa, è pietra d’inciampo che non sanno superare insieme.

Pochi giorni dopo Deborah decide che è arrivato il momento di slegare la cesta e affida Menuchim ai fratelli, per i quali il piccolo è solo un peso, per cui non se ne curano. Il bambino resta così negli angoli delle strade, spesso in mezzo all’immondizia e mette in bocca qualunque cosa gli capiti, escrementi compresi. “Come un mucchietto d’immondizia se ne stava accucciato in un canto” (23) – ricordando il Giobbe piagato in mezzo alla cenere (2,8). Un giorno i fratelli lo tuffano più volte in un catino di raccolta dell’acqua piovana pieno di vermi e di ogni genere di rifiuti, sperando di ammazzarlo (eco della storia di Giuseppe e i suoi fratelli – Giuseppe prediletto dal padre, Menuchim dalla madre ma qui la ragione è il supplizio che lui rappresenta). Menuchim però sopravvive, testimone tenace della vita.

La sua sopravvivenza li riempie di paura, “una grande paura del ditino di Dio, che or ora aveva dato un lievissimo cenno” (24), un commento che qui e altrove la voce narrante inserisce quasi a ridicolizzare i suoi personaggi e il loro rapporto con Dio. Riferito ai fratelli si tratta probabilmente dell’unico accenno a un residuo di credenza (ditino, lievissimo).

Marito e moglie smettono di provare piacere l’uno con l’altro, segno della divisione che ormai s’è creata tra di loro, oltre che tra i figli e la madre “visibili… ma distanti” (26). La malattia di Menuchim sembra inoltre aver fatto perdere alla donna floridità e bellezza (25-6) – possibile eco di Giobbe 14,1ss in cui la fragilità umana è detta nei termini di un fiore che spunta e avvizzisce.Tutto quello per cui Deborah vive è il rapporto esclusivo con il figlio.

“Mamma” è infatti l’unica parola di senso compiuto che per molti anni Menuchim sembra capace di pronunciare: “quest’unica parola del bambino disgraziato era sublime come una rivelazione, potente come un tuono, calda come l’amore, clemente come il cielo, vasta come la terra, fertile come il campo, dolce come un frutto dolce” (27). È una rivelazione della voce di Dio (tuono, cielo, amore) e del radicamento alla vita (terra, fertilità, frutto).La madre è l’unica a capirlo (27-8): “a sua madre egli sembrava eloquente come un predicatore ed espressivo come un poeta” (28). Del piccolo minorato sono curiosamente descritti soprattutto i suoni che emette dalla bocca.

Rutilio Manetti (Siena 1571–1639)  Giobbe e sua moglie,
Rutilio Manetti – (Siena 1571–1639) – Giobbe e sua moglie

Un’improvvisa cesura fa trascorrere dieci anni: Mirijam diventa attraente e civettuola, Jonas e Schermarjah forti e robusti, dunque adatti alla leva: “ad altri giovani un Dio benigno e provvido aveva dato un’imperfezione fisica che poco li impediva e che li difendeva dal maligno” (31-2) è il commento ironico del narratore – ma noi sappiamo  che Roth era stato valutato inabile al servizio militare e che la sua posizione gli era apparsa vergognosa e penosa.

Deborah inizia allora a interessarsi anche a questi figli, per i quali si reca ancora una volta in pellegrinaggio al cimitero. Mendel invece si rifiuta di andare a chiedere aiuto ad altri come vorrebbe la moglie:“Che aiuto ti aspetti dagli uomini, se Dio ci ha castigato?” (39), un castigo che è evidentemente iniziato con la nascita di Menuchim. Deborah a questo punto esplode in una delle sue scene madri: lancia uno sputo ai piedi del marito, grida ed esce, spalancando la porta di casa. E dopo aver vagato per le strade buie e innevate del paese, si reca al cimitero lamentandosi furiosamente su una delle tombe.

Ripreso il controllo Deborah si rivolge infine a Kapturak, trafficone ben introdotto che può aiutare i figli a salvarsi, in cambio di una ingente somma di denaro. I risparmi della donna però non bastano e Mendel reagisce con il solito senso di impotenza di fronte al volere divino che li punisce: “i poveri sono impotenti, Dio… all’uno Egli dà e all’altro toglie. Io non so di che cosa ci punisce… Bisogna sopportare il proprio destino!… Contro la volontà del cielo non c’è potenza che tenga” (43) e cita un versetto biblico non riconoscibile, come gli ricorda Deborah: “Aiutati che Dio t’aiuta. Così sta scritto, Mendel! Tu sai sempre a memoria i versetti sbagliati. Molte migliaia di versetti sono stati scritti, quelli inutili li tieni tutti a mente!”. L’ironia dell’autore, attraverso la voce di questa popolana, semplice e focosa, è davvero efficace.

Mendel si sente offeso quando la moglie gli rinfaccia il suo essere solo un maestro. Criticarne la professione significa intaccare “la sua stessa esistenza” (44). E così il suo temperamento si fa meno bonario, arrivando a nutrire avversione per la donna, la cui presenza gli è diventata insopportabile tanto da considerare il loro matrimonio come una malattia. La divisione tra i membri della famiglia si fa sempre più acuta: il dolore vissuto come colpa è ribaltato sull’altro e sulla propria inadeguatezza.

  • Testo di riferimento: Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 [ed. or. 1930]
  • In copertina : Sieger Koder, Giobbe

(continua)

Giobbe. Romanzo di un uomo semplice. (1)

Riscrittura a puntate per l’estate

Scritto da MARIA NISII.

(1° parte)

“Molti anni fa viveva a Zuchnow un uomo che si chiamava Mendel Singer. Era devoto, timorato di Dio” (Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, Adelphi, Torino, 2003 [ed. or. 1930], p. 9)

Viveva nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male” (Gb 1,1)

L’intenzione della riscrittura nel romanzo di Joseph Roth è chiara sin dall’esordio, oltre che resa esplicita nel titolo.Entrambi i protagonisti vivono in “terra straniera”: Mendel prima in Russia e poi in America, sebbene alla fine scoprirà che la sua patria (la Russia) è stata la vera Terra Promessa.

Tuttavia non si tratta di una totale sovrapposizione. Infatti mentre il Giobbe biblico “era il più grande tra i figli d’oriente” (Gb1,3), Mendel Singer è un “comunissimo ebreo” e l’incipit ce lo presenta in tutta la sua insignificanza:è maestro e insegna la Bibbia ai bambini a casa sua, come Giobbe è padre, ma solo di quattro figli (contro i dieci dell’antesignano di Uz). Eil linguaggio è ancora una volta biblico: “Dio aveva concesso fertilità ai suoi lombi” (10).

 

Giobbe offre olocausti (1,5) e Mendel prega 4 volte al giorno.“La sua coscienza era pura. La sua anima era casta…amava sua moglie e prendeva piacere alla sua carne” (10), ci viene inoltre detto che mangia con appetito, picchia i figli maschi se disobbediscono e coccola la figlia femmina, giovane gazzella– secondo l’appellativo tipico del Cantico.

L’integrità e la giustizia di Mendel costituiscono quasi un leitmotiv: Mendel è giusto, quasi il giusto equasi da annoverare tra i giusti della Bibbia, come Giobbe dice di sé in 12,4 e 34,5 (appellativo che ricorre per Abele secondo Mt, inoltre per Noé, Tobi, s. Giuseppe, Simeone, Giovanni, Giuseppe di Arimatea, Gesù; in At: Barsabba, Cornelio), sebben il “giusto” sia prima di tutto il Signore – a margine possiamo notare che si tratta di un termine tipicamente sapienziale e profetico, con molte occorrenze nel libro di Giobbe. La giustizia è naturalmente legata all’osservanza della Torah enel romanzo di Roth va applicata allo scrupolo per i precetti (tenere il cappello, non conservare denaro…) e la preghiera rituale. Degli altri membri della famiglia non si dice altrettanto, soprattutto dei figli, mentre la moglie ha una religiosità più di tipo superstizioso e popolare.

Il libro biblico di Giobbe è tuttavia proprio la messa in discussione della tesi classica, che sostiene la prosperità del giusto:“Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto gli appartiene? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda sulla terra”(Gb1,10), dice Satana al Signore che loda l’integrità e la rettitudine di Giobbe.

A differenza di Giobbe, Mendel non vive in prosperità, ma è povero e continua la sua vita modesta anche nel periodo di benessere in America: “lui aveva paura. Non voleva imbaldanzire troppo. Ora che tutto cominciava ad andar bene, non bisognava provocare la collera di Dio” (129). E il testo torna a descriverlo come all’inizio “devoto e timorato di Dio, un comunissimo ebreo” (126).

Roth

Sullo stile biblico, anche la moglie di Mendel si lamenta e rimprovera il marito (eco diGb2,9), anche se Mendel smette di sgridare la moglie dei suoi lamenti dopo la nascita di Menuchim (15), che per il primo anno di vita penzola in una cesta in mezzo alla stanza e il suo gracidio – “suoni profani e sgraziati”(12) – sovrasta la recita dei versetti sacri dei bambini che lì fanno scuola. Il bambino respira affannosamente, geme come un animale e balbetta suoni ridicoli; le sue gambe sono storte e non lo sorreggono.

Grazie a un’epidemia di vaiolo, un medico entra anche in casa Singer per obbligare tutti alla vaccinazione. “Mendel Singer, il giusto, non fuggiva davanti a nessuna punizione di Dio” (13): è la descrizione ironica dell’attesa del medico, il quale non appena vede il bambino ne diagnostica l’epilessia. Può guarirlo, madovrà portarlo con sé in ospedale. Mendel però rifiuta: “non c’è dottore che lo possa guarire, se Dio non vuole” (14).In realtà la preoccupazione di Mendel è che il piccolo viva insieme a non ebrei e cresca lontano dalle tradizioni: parole sante e cibo kasher. La giustizia di Mendel è, come detto, osservanza prima e sopra di tutto e il timore di mescolarsi ad altri ne segna tutta la vicenda.

Da quel momento la paura si insinua in casa “come un mostro” (l’estraneo!) e tra i membri della famiglia inizia un lungo processo di separazione, in cui ciascuno decide per sé il da farsi: Mendel digiuna due volte alla settimana (osservanza più rigorosa del prescritto) e Deborah va in pellegrinaggio al cimitero (religiosità popolare).

La madre inoltre finisce col detestare la buona salute degli altri figli e trascura la casa, di cui all’inizio erano state accuratamente descritte le premure. Infine si reca da un rabbi, per ottenerne le parole di benedizione – interessante la descrizione del viaggio sotto la pioggia che ad un certo punto interrompe perché “Dio si rese conto” (16) che la cosa sarebbe costata troppo alla donna. Ma non è lei a invocare Dio, perché non osa più: “le sembrava troppo alto, troppo grande, troppo lontano, infinito dietro cieli infiniti” (17) e al suo posto va in cerca di defunti protettori e della bontà del rabbi.

La fede di Deborah non è mai stata descritta come significativa, ma qui mostra tutta la sua debolezza. Si fa largo davanti alla casa del rabbi con la forza della disperazione – che sembra quasi una rilettura della scena del paralitico con Gesù. Invece della benedizione, Deborah riceve una vera e propria profezia: “Menuchim, figlio di Mendel, guarirà. Pari a lui non ce ne saranno molti in Israele. Il dolore lo farà saggio, la deformità buono, l’amarezza mite e la malattia forte. I suoi occhi saranno grandi e profondi, le sue orecchie limpide e piene di risonanza. La sua bocca tacerà, ma le labbra, quando si apriranno, annunceranno il bene”. Occorreranno degli anni e lei non dovrà lasciarlo mai (19-20).

(cont.)

  • In copertina: Marc Chagall, La preghiera di Giobbe

                                      

La Trinità: Tres vidit, unum adoravit.

Scritto da NORMA ALESSIO.

Uno dei fondamentali misteri della fede per i cristiani di ogni tempo è quello di Dio Trinità: un Dio che si rivela unico in tre persone: ciò che neppure può essere immaginato è anche complesso da comunicare attraverso le immagini.

Il dogma trinitario è talmente complesso che comunemente si rinuncia a capire e lo si accetta per fede.

Nelle sacre scritture non si trova il termine “Trinità”, ma troviamo l’annuncio di Dio, Padre, Figlio, Spirito Santo, fatto da Gesù: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv.10,30); “Chi vede me vede il Padre” (Gv.14,8); “Il Consolatore che il Padre vi manderà nel mio nome…” (Gv.15,26); “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1); “Andate e battezzate tutte le genti nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt.28,16). Paolo nella lettera ai Corinzi dirà: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano su tutti voi” (Cor.13,13)

I primi testi espliciti che nominano simultaneamente le tre Persone si trovano nella narrazione del Battesimo del Signore (Mt. 3,13-17; Mc. 1,9-11; Lc. 3,21-22; Gv. 1,32-34). In questi passi, si attesta che Gesù è figlio di Dio in senso reale e pieno, si nomina il Padre, la cui voce risuona dal cielo e appare lo Spirito Santo che discende su Cristo. Qui le tre Persone si manifestano come distinte.

La raffigurazione della SS. Trinità variò molto nel corso dei secoli, diffondendo immagini di tipo simbolico e antropomorfico.

A Castelletto Cervo (BI) nella Chiesa dei SS. Pietro e Paolo, sono raffigurate ad opera di autore ignoto del XV secolo le Tre Persone, uguali, che con la destra fanno il gesto della benedizione e con la sinistra reggono tre libri aperti; su ciascuno una scritta: talis Pater, talis Filius, talis Spiritus Sanctus. Dinanzi a loro, su una tavola coperta da una bianca tovaglia, sono collocati tre calici uguali, alla cui sommità sono poste tre ostie, con impresse tre piccole croci. Questa rappresentazione trinitaria secondo uno schema orizzontale è la cosiddetta Trinità Eucaristica, vi sono cioè insieme sia il tema trinitario che quello eucaristico, perché attraverso la comunione col corpo e col sangue di Cristo si entra in comunione con Dio e con la Trinità. Essa ha origine nell’episodio biblico in cui Abramo con la moglie Sara accoglie tre misteriosi ospiti alle querce di Mamre e provvede a nutrirli (Gen. 18,1 ss).

Durante il medioevo però la scena comincia a perdere questo riferimento, per diventare, sia in Occidente che in Oriente, una vera e propria rappresentazione trinitaria e le tre figure uguali alludono e rimandano alla triplicazione della figura umana del Cristo.

Melle (CN), Antico Ospizio di Carità, TRINITA' , Fratelli Biazaci - sec. XV
Castelletto Cervo (BI) , Chiesa dei SS. Pietro e Paolo, Trinità , Sec XV

A Melle (CN) sulla facciata dell’antico ospizio di Carità è dipinta una Trinità del secolo XV, ad opera dei fratelli Biazaci, con la variante in cui le tre persone sorgono da un unica origine, altro tentativo di spiegare il Dio uno e trino.

Chiesa Parrocchiale di Armeno (NO) - TRINITA' - Secolo XVI
Melle (CN), Antico Ospizio di Carità, TRINITA’ , Fratelli Biazaci – sec. XV

 

Nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta ad Armeno, in provincia di Novara, troviamo una delle poche immagini cinquecentesche superstiti della rappresentazione della Trinità come figura umana tricefala, ovvero costituita da un solo corpo e da tre teste, per indicare che in una sola sostanza si manifestano tre volti diversi, che si andò affermando dal secolo XII, ma che in seguito fu censurata perché contraria alla dottrina cattolica.

Chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta ad Armeno (NO) _ TRINITA' - Sec. XVI.
Chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta ad Armeno (NO) – TRINITA’ – Sec. XVI.

 

Tra le rappresentazioni che seguono uno schema verticale c’è il cosiddetto Trono di Grazia, che compare all’inizio del XII secolo, dove sono espressi visivamente i concetti teologici. Questi assurgono a maggiore popolarità e diffusione, anche perché comunicano lo stesso messaggio senza quegli elementi di ambiguità e di incertezza contenuti nella tipologia della Trinità Eucaristica.

Un esempio tra i tanti è a Scarnafigi (CN) nella cappella della Santissima Trinità, un affresco sull’abside della fine del XV secolo attribuito a Pietro da Saluzzo in cui Cristo crocifisso è sorretto dal Padre che alita su di lui lo Spirito Santo sotto forma di colomba.

Il soggetto della Trinità, oltre ad essere raffigurato all’interno delle chiese nel presbiterio al di sopra dell’altare proprio perché rientrante nella liturgia eucaristica, lo si trova sulle facciate di edifici medievali posti su percorsi di pellegrinaggi soprattutto nelle valli cuneesi. Una delle motivazioni della scelta di questo soggetto è da attribuire alla volontà di incrementare la fede trinitaria ed eucaristica del popolo e non per ultima devozionale, con intento catechetico e pedagogico delle immagini usate.

 

Scarnafigi (CN) ,Cappella della Santissima Trinità, fine del XV secolo attribuito a Pietro da Saluzzo
Scarnafigi (CN) ,Cappella della S.S.Trinità, Affresco di fine del XV secolo attribuito a Pietro da Saluzzo

Artigiani di parole.

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

La storia del ragazzino che riesce a far riconoscere dall’Accademia della Crusca la creazione dell’aggettivo petaloso è indicativa della difficoltà di crescita, almeno ufficiale, della nostra lingua. Il patrimonio cresce di anno in anno, certo, ma con un tasso proporzionalmente inferiore agli sviluppi di altre lingue e altre epoche. Nel suo saggio divulgativo Il mondo è un teatro Bill Bryson sostiene che William Shakespeare abbia introdotto nella lingua inglese non meno di duemila parole (seicento soltanto con Amleto!). A un esame più ravvicinato scopriamo anche qualche trucco: circa trecento di questi nuovi lemmi è ricavato con l’aggiunta del prefisso un- che permette di dare vita a verbi come unlock (aprire), unveil (svelare), ecc.

La modalità mi ha colpito perché è molto simile al modo in cui l’apostolo Paolo coniò nuovi verbi nel suo epistolario attraverso un’altra preposizione, il greco syn- (con) che utilizzò con inusitata creatività. Promotore di una teologia di comunione con Cristo, Paolo esprime questa nuova realtà anche attraverso il linguaggio, dando vita al verbo syzaō che letteralmente significa convivere (ironia del destino, Paolo dà il nome ad una forma di vita di coppia alternativa al matrimonio suo malgrado…). La vita di comunione con Cristo è conseguenza dell’essere stati “consepolti” con lui nella sua morte (synthaptō, Rm 6,4). Ma il neologismo che più incarna lo spirito dell’apostolo è il verbo systauroō (essereconcrocifisso), che mette insieme il mistero di comunione con quello della croce. Paolo potrebbe benissimo averlo mutuato da racconti orali sulla Passione (il verbo è presente nei racconti della Passione dei vangeli canonici che sono di poco più tardi delle sue lettere) ma il significato con cui lo usa è senza dubbio innovativo.

Frammento di papiro con testo in greco di Matteo.
Frammento di papiro con testo in greco di Matteo.

Capita, poi, che gli evangelisti possano creare delle parole a loro insaputa. Il verbo greco euanghelizō  (portare buone notizie) era abbastanza diffuso nel greco profano e abbiamo attestazioni di questo significato anche nell’Antico e nel Nuovo Testamento, ad esempio l’angelo Gabriele che porta il lieto annuncio della nascita di Giovanni Battista al padre Zaccaria (Lc 1,19). Ma esiste anche un senso più tecnico che ritroviamo nello stesso vangelo quando i discepoli mandati in missione da Gesù attraversano i villaggi euanghelizomenoi (9,6). Possiamo dire che erano semplicemente latori di buone notizie o forse dobbiamo ammettere che l’oggetto della loro predicazione era qualcosa di più specifico, cioè quello che più tardi verrà appunto indicato come vangelo? Curiosamente gli evangelisti hanno creato il vangelo, inteso come racconto della vita di Gesù, ma non il termine con cui lo si indica comunemente: ogni artigiano crea solo quello che gli serve.

  • In copertina: Jacob Jordaens (1593-1678) I quattro Evangelisti -1625.

 

 

Un’altra Maria.

Scritto da DAVIDE BRACCO.

Negli ultimi anni due autori italiani si sono cimentati in una riflessione sugli estremi del percorso esistenziale di Maria di Nazareth, poco trattati dalle scritture, quali la sua giovinezza e la vecchiaia. Due momenti che, proprio per l’oscurità storica, concedono agli artisti una buona libertà con un elevato carico di responsabilità di fronte ad una figura così carismatica e simbolica, trattata spesso in chiave oleografica da tanti artisti (su tutti lo Zeffirelli di Gesù di Nazareth) impauriti dal difficile compito.

Michela Cescon ne " Il Testamento di Maria", Teatro Stabile Torino,regia di M.T.Giordana.
Michela Cescon ne ” Il Testamento di Maria”, Teatro Stabile Torino,regia di M.T.Giordana.

Marco Tullio Giordana, regista capace di spaziare dal cinema alla tv (La meglio gioventù) al teatro ha portato sui palcoscenici pochi anni orsono, Il testamento di Maria, dal monologo dello scrittore irlandese Colm Toibin: il tormento di una madre (splendidamente interpretata da Michela Cescon) che, per quanto lo desideri, non riesce a capire fino in fondo la vita alla quale il figlio, il suo unico figlio dal corpo mortale, ha rinunciato. La messa in scena teatrale era spoglia di ogni orientalismo e tuttavia risultava visivamente affascinante nella esplicita intenzione di riprendere il lavoro del videoartista Bill Viola (in questi giorni in mostra a Firenze) che a sua volta tanto deve alle oscurità e ai tagli di luce caravaggeschi.

Immagine da "Io sono con te", film di Giulio Chiesa.
Immagine da “Io sono con te”, film di Giulio Chiesa.

Tanto il teatro riesce per la sua natura “claustrofobica” a rinunciare alle seduzioni del “tutto mostrare” quanto invece il cinema ha, per necessità naturale, l’obbligo artistico della rappresentazione del reale. A questo si piega Guido Chiesa nel suo film del 2010 Io sono con te basato su una libera interpretazione della giovinezza di Maria. Un lavoro autoriale che, girato nel nordAfrica, assume quasi un taglio etnografico nella rappresentazione della vita quotidiana dell’epoca e della dominazione romana, per poi liberamente veicolare una personale visione di Maria e Giuseppe, soggetti attivi con la loro tolleranza e libertà di fronte alle regole ebraiche. Quasi un equivalente degli scienziati ellenisti che, a far le veci dei canonici “magi”, visitano la sacra famiglia proclamando il loro sapere contrario alle regole prefissate in nome della libertà di conoscenza.

  • In copertina: scena da Il testamento di Maria, dal monologo dello scrittore irlandese Colm Toibin, messo in scena da M.T.Giordana  per lo Stabile di Torino.