Racconti di resurrezione.

Scritto da MARIA NISII.

 

“Mi pare che si possa parlare, in una prospettiva anche solo terrena, del ricordo, di ogni ricordo come di una resurrezione: l’esistente scomparso risorge in noi. Risorge ogni giorno, ogni domenica del cuore, ogni minuto, dunque è vivo, vive in noi” (Paolo di Paolo, Perché non sono ancora, Effatà, 2014, pag. 55)

La memoria è qui oggetto, mezzo e luogo del risorgere, un tornare alla vita grazie al richiamo del ricordo. È un tentativo, anche questo tra i tanti possibili, di dire la resurrezione in termini comprensibili, esperienziali, umani.

Sebbene coinvolto nel progetto Scrittori di Scrittura, Di Paolo non ha riscritto i racconti evangelici in una nuova narrazione, ma ha scelto la modalità della meditazione selezionando alcune parole (“noli me tangere”, “non sono ancora”, “Maria!”), gesti (lo spezzare il pane, il lasciarsi toccare da Tommaso e il non consentirlo a Maddalena) e immagini (l’interpretazione iconografica di quattro artisti).

Ci si potrebbe allora chiedere come si possano riscrivere i racconti di apparizione (salvo poi valutare quanto riusciti siano gli esiti), ricordando che il primo tentativo è stato l’apocrifo Vangelo di Pietro,uno scritto della prima metà del II secolo, giunto fino a noi in un solo frammento, contenente la narrazione della passione e della resurrezione. Secondo questo antichissimo testo, davanti alla tomba vengono poste alcune guardie che assistono, testimoni privilegiati, all’evento:

“Ma durante la notte, in cui cominciò la domenica, mentre i soldati facevano la guardia, a due a due per ogni turno, una gran voce venne dal cielo. Ed essi videro i cieli spalancarsi e due uomini scendere di là, avvolti in una grande luce, e avvicinarsi al sepolcro. E quella pietra che era stata spinta contro l’apertura rotolando da sola, si ritirò da un lato e il sepolcro fu aperto e ambedue i giovinetti entrarono dentro. Allora quei soldati, vedendo ciò, svegliarono il centurione e gli anziani: infatti erano anche loro presenti, per fare la guardia. E mentre stanno raccontando ciò che hanno visto, di nuovo vedono uscire dal sepolcro tre uomini: due sostenevano l’altro, e una croce li seguiva. La testa dei due giungeva fino al cielo, mentre quella di colui che era condotto per mano da loro oltrepassava i cieli. E udirono una voce dai cieli che diceva: “L’hai annunziato ai dormienti?”. E si udì rispondere dalla croce: “Sì!”. Essi pertanto si consigliavano tra di loro se andare a riferire queste cose a Pilato. E mentre stavano ancora discutendo, si vedono di nuovo i cieli spalancarsi e un uomo discendere ed entrare nel sepolcro. Vedendo ciò, coloro che erano presso il centurione accorsero, la notte stessa, da Pilato, abbandonando il sepolcro a cui stavano facendo la guardia, e raccontarono tutte le cose che avevano visto, grandemente agitati, e dicendo: “Veramente era il figlio di Dio!”(35-45)

Una voce, i cieli che si squarciano e alcuni uomini in grande splendore che scendono dal cielo per penetrare nella tomba. E questi angeli sono tanto alti che la loro testa tocca il cielo– segno sì di appartenenza a quel mondo, ma pure frutto di un gusto retorico che amplifica per segnare la distanza tra gli uomini della terra e gli uomini del cielo.

I racconti evangelici sono invece molto sobri quanto a “effetti speciali” e la resurrezione resta fuori campo. Quando le donne si recano al sepolcro, l’evento si è già consumato e quello che vedono è una tomba vuota. Negli incontri con il Risorto però alcuni dettagli si sono maggiormente prestati all’immaginazione, specie la sua non riconoscibilità o la fisicità nella richiesta di mangiare. È così il momento del riconoscimento quello che più di altri apre lo spazio della riscrittura – su tutti il gesto dello spezzare il pane e il pronunciare le parole di benedizione nella locanda, in cui i due di Emmaus siedono a tavola con il pellegrino incontrato lungo la strada.

“I due chiedono allo straniero di restare a mangiare con loro: è tardi, si è fatta sera, resta con noi. L’uomo accetta, si siede a tavola, pronuncia una benedizione e fa un gesto. Un gesto semplice, un gesto da niente, se fatto da un uomo qualunque. Spezza il pane. Scrive Luca: ’Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero’. Qui non è la voce, ma un gesto umile e quotidiano a innescare il riconoscimento. Ricordano. Pensano: non può che essere lui. Non fanno in tempo a dire una sola parola che lui si dissolve. Scompare. Di nuovo: devono fidarsi, fidarsi di un ricordo.” (Paolo di Paolo, Perché non sono ancora, pag. 53-54)

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1599-1601
Caravaggio, Cena in Emmaus, 1599-1601

Quel gesto riattiva il ricordo e dopo di quel ricordo dovranno continuare a fidarsi. Non il volto, non le parole, ma un gesto particolare e a suo modo unico, sebbene tipico della tradizione ebraica. L’unicità nella ripetizione.

“I viandanti ascoltano l’uomo che si è aggiunto a loro e che non riconoscono. Cosa glielo impedisce? Il diverso aspetto. Quando a qualcuno viene il pensiero randagio di una propria resurrezione, immagina di ritornare identico a riabbracciare i rimasti in vita. Si figura di rientrare nel mondo tale e quale a prima, reintegrato in se stesso. Gesù riappare in altro corpo e in altra voce da non poterlo riconoscere, abbracciare al volo. I due di Emmaus si accorgeranno di lui solo nel dettaglio di un gesto, l’atto di spezzare il pane e farne parti. Doveva essere speciale quel suo modo di trattare il cibo. Del resto fu il solo a dire che quel pane era carne sua, da dare in pasto ai suoi. Ma fino a quel punto di rivelazione Gesù resta sconosciuto ai due viandanti. Eppure ha fatto con loro la cosa consueta e preferita: andare a piedi e spiegare la scrittura sacra” (Erri De Luca, La faccia delle nuvole, Feltrinelli, p. 73)

f8f17943748472bdf61f56fdf2677a11
Rembrandt, La cena in Emmaus ,1628

Va molto più in là, quanto a immaginazione, il racconto di Emmanuel Carrèrein cui il narratore identifica il discepolo senza nome che accompagna Cleopa in Filippo e amplia il tempo del riconoscimento affinché non si risolva nella brusca scomparsa di Gesù, per soffermarsiinfine sullostato di stupore dei due:

“Filippo non ricorda più se tutti e tre sono rimasti lì, così, un minuto o un’ora. Non ricorda neanche se hanno mangiato. Ricorda che nessuno ha detto una parola, che Cleopa e lui non hanno fatto altro che guardare lo straniero alla luce della candela che era stata accesa perché non si vedeva quasi più niente. Alla fine lo straniero si è alzato, li ha ringraziati e se n’è andato, e Filippo e Cleopa sono rimasti immobili ancora per un pezzo. Si sentivano bene, non si erano mai sentiti così bene. Soltanto dopo hanno parlato, per tutta la notte.” (Il Regno, Adelphi, pag. 235-6)

È dal ricordo di Filippo che sgorga il racconto. E il ricordo ha in sé il potere di far risorgere a vita nuova. Si racconta e riracconta per non perdere la memoria, per mantenere vivo in noi l’assente.

Smarrire la propria storia è, secondo T.S. Eliot essere condannati a una situazione irredenta: “Un popolo senza storia / Non è redento dal tempo, poiché la storia è una trama / Di momenti senza tempo” (T.S. Eliot, Quattro quartetti, Little Gidding). La resurrezione tesse una trama nuova nella storia. A noi la ricerca, seppur ai limiti del dicibile, di una via per rinarrarla.

MatthiasGrunewald, Altare di Isenheim, Resurrezione (1512-16)
MatthiasGrunewald, Altare di Isenheim, Resurrezione (1512-16)

 

  • In copertina: Piero della Francesca, Resurrezione (1450-63)

Le apparizioni di Gesù risorto.

 

 

Scritto da NORMA ALESSIO.

Se l’avvenimento della resurrezione di Gesù nessuno l’ha visto e gli artisti hanno comunque provato a raccontarlo utilizzando raffigurazioni, non tanto descrittive, ma analogiche, le varie apparizioni del Risorto sono state invece descritte dai quattro evangelisti seguendo uno schema o modello fisso. Gesù che si manifesta, compie alcuni gesti per farsi riconoscere e prende la parola; non sono presentati né l’aspetto del volto, né la condizione del corpo di Gesù.
Nei racconti dei Vangeli di Luca e Giovanni, si pone l’accento sull’identità del Signore con Gesù crocifisso, ma non si descrive la sua figura. Per farsi riconoscere dai discepoli come il “crocifisso”, Gesù mostra loro le mani e i piedi o le mani e il fianco.
Nell’arte cristiana tre sono le apparizioni che troviamo maggiormente rappresentate: “noli me tangere”, la rivelazione a Maria di Magdala (Gv. 20,15-17); “la cena in Emmaus”, l’incontro avvenuto con due discepoli lungo la strada verso Emmaus (Lc. 2,29-31) e ”l’incredulità di Tommaso”, l’apparizione agli apostoli, quando Gesù invitò Tommaso a sincerarsi della realtà del suo nuovo stato toccando con mano le sue ferite (Gv 20, 19-25).

Nel territorio piemontese abbiamo due interessanti esempi di questi soggetti nei cicli di affreschi di fine quattrocento , che si discostano da quelli più noti di epoca più tarda. Il primo è nell’Oratorio della SS. Trinità che sorge poco lontano da Momo, nella provincia di Novara, lungo l’antico tracciato della via Francisca che da Novara, attraverso Borgomanero e il lago d’Orta, portava ai valichi alpini dell’Ossola, importante percorso dei pellegrini che si recavano in visita alla Sede di Pietro. Il secondo esempio è nell’Oratorio di San Sebastiano, poco fuori dell’abitato di Arborio nella provincia di Vercelli.

Sia nell’Oratorio di San Sebastiano che in quello della SS. Trinità troviamo inseriti gli stessi episodi in sequenza nel racconto della passione di Gesù, ma non nello stesso ordine. In entrambi i luoghi si hanno le stesse impostazioni iconografiche, ma purtroppo in uno di essi non sono tutti ben conservati e chiaramente leggibili.

La prima scena, come riporta Giovanni nel suo Vangelo, si svolge in un “giardino” dove Gesù appare a Maria (Donna, perché piangi? Chi cerchi?) Ella, pensando che fosse l’ortolano, gli disse: «Signore, se tu l’hai portato via, dimmi dove l’hai deposto, e io lo prenderò».Gesù le disse: «Maria!» Ella, voltatasi, gli disse in ebraico: «Rabbunì!» che vuol dire: «Maestro!» Gesù le disse: «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli, e di’ loro: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro“.

Gesù è raffigurato avvolto in un lenzuolo bianco che regge l’asta di un convenzionale stendardo crociato simbolo di vittoria sulla morte e Maria Maddalena, come viene abitualmente raffigurata con lunghi capelli, sullo sfondo della folta vegetazione.

L’episodio dei discepoli di Emmaus, solo nella chiesa di Momo, viene raccontato nei due momenti, l’incontro (Lc. 24,13-15) e la cena (Lc. 24,29-31).

Il primo, in cui i due discepoli sono in cammino verso Emmaus, con al centro Gesù (Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo).

Il secondo in cui i due discepoli sono seduti al tavolo con Gesù, che spezza il pane (Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero).

Interessante è notare l’abbigliamento dei personaggi: Gesù è il viandante che indossa un vestito “moderno”, camicia, calzamaglia, stivali, cappello, corto mantello e bastone del pellegrino, mentre i discepoli si identificano nell’iconografica classica con le tuniche. Nel riquadro della cena appare anche l’aureola dietro al cappello: il riconoscimento della sua vera identità.

Numerosi sono i dipinti di questo episodio e gli artisti normalmente hanno rappresentato Gesù secondo l’iconografia tradizionale con la tunica e i discepoli con abiti contemporanei come nell’immagine dipinta nel Santuario di Vicoforte (CN). L’evangelista Luca non ha descritto nei particolari la scena, ma gli artisti hanno voluto puntualizzare il riconoscimento legato all’eucarestia, il gesto del pane spezzato, come memoriale vivo, di invito ai fedeli a vedere Cristo nel pane offerto sull’altare, e qui a Momo, il momento è particolarmente accentuato dal tavolo sospeso quale segno anch’esso di apparizione.

Oratorio della SS. Trinità a Momo (NO) affreschi attribuiti ai fratelli Sperindio e Francesco Cagnola
Oratorio della SS. Trinità a Momo (NO) affreschi attribuiti ai fratelli Sperindio e Francesco Cagnola

Santuario di Vicoforte – Mondovì (CN) – Cena in Emmaus di Mattia Bortoloni, 1746

Santuario di Vicoforte – Mondovì (CN) – Cena in Emmaus di Mattia Bortoloni, 1746

La scena dell’incredulità di San Tommaso è descritta da Giovanni (20, 26-28:) “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!

Centrale è il gesto di Gesù che afferra la mano di Tommaso dal polso per avvicinarla alle sue ferite e che ritroviamo in molti dipinti con questo soggetto. Ad Arborio la descrizione è più corrispondente al testo evangelico, infatti San Tommaso e Gesù sono in un ambiente chiuso, insieme ai discepoli; mentre a Momo è rappresentato il momento essenziale per evidenziare la fisicità della resurrezione e comunicare la sua universalità.

Scrittura & ri-scritture.

 

 

Si è concluso il 10 maggio, presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Torino, il corso di formazione su : Ri-Scritture: nella Bibbia e della Bibbia (cinema, teatro e letteratura).

Non di una generica riscrittura, ci si  è occupati. In effetti, le riscritture sono tante e  iniziano dentro la stessa Bibbia, che riscrive più volte se stessa: i due racconti della creazione, i Salmi che riscrivono molti episodi dell’Antico Testamento, il prologo di Giovanni che riscrive l’inizio di Genesi e tutto il Nuovo Testamento che riscrive l’Antico con l’intento di compierlo. Fuori dalla Bibbia poi le riscritture sono interminabili, al punto che la cultura dell’Occidente si può dire sia nata da un infinito processo di riscritture delle trame riprese dalla Bibbia. Nella letteratura i tentativi sono innumerevoli: da Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann al Giobbe di Joseph Roth, dalla Commedia di Dante a Saul di Vittorio Alfieri, da Billy Budd di Herman Melville a L’idiota di Feodor Dostoevskij.

Billy Budd

Una categoria sfuggente, tanto  per ampiezza  quanto per  varietà di risultati,  quella delle riscritture. Per questo la parte introduttiva del corso si è prefissata  lo scopo  di tematizzarla. In un secondo momento. si è proceduto  alla presentazione di alcuni saggi esemplificativi sui Vangeli e sul libro dell’Apocalisse. Per quanto riguarda i   Vangeli , ci si è soffermati su tre argomenti in particolare:

  • – la Scrittura riscrive se stessa. Gli evangelisti riscrittori dell’Antico Testamento
  • – Riscritture di non credenti come domanda: narrativa e poesia
  • – Il cinema di Pasolini

 

In riferimento all’ Apocalisse invece, si sono approfonditi quattro punti:

  •   – L’Apocalisse riscrive la Bibbia
  • – L’ampia risonanza dell’immaginario apocalittico dentro e aldilà del significato religioso. Uso dei simboli come chiave di lettura della storia e della società: narrativa e poesia –
  • Saggi cinematografici –
  • La versione teatrale di Lucilla Giagnoni.
Da "Apocalisse" di e con Lucilla Giagnoni
Da “Apocalisse” di e con Lucilla Giagnoni

Infine il corso, in fase di chiusura, ha ospitato per un incontro anche uno degli autori che ha partecipato al Progetto “Scrittori di Scrittura”, promosso dalla Pastorale per la Cultura della Diocesi di Torino . Si tratta di  Margherita Oggero,  autrice, per la collana in questione, di Amen.Memorie di Isacco ( Effatà Editrice).

Margherita Oggero interviene al Corso.
Margherita Oggero interviene al Corso.

Gli ebrei e la croce.

Scritto da MARIA NISII.

“Il mio nome è Asher Lev. Sono io l’Asher Lev di cui avete letto nei giornali e nelle riviste, di cui tanto parlate durante le vostre cene di lavoro e ai cocktail, il famigerato e leggendario Lev della Crocifissione di Brooklin.”

(Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, Garzanti, 1991 [prima ed. 1972], p. 11).

Chaim Potok è cresciuto in un ambiente ebraico ortodosso, sebbene non chassidico, ma attribuisce al giovane pittore talentuoso Asher Lev un’identità da chassid ladover (ebraismo ultraortodosso) e molti dei conflitti che lui stesso ha vissuto. A Potok appassionato di letteratura laica come Lev di pittura, entrambe le famiglie cercano di contrastare le propensioni artistiche. Se l’autore sceglierà di diventare rabbino, lascia tuttavia al suo personaggio la libertà di una via diversa dalla propria: Asher Lev sarà un pittore di successo, ma per una curiosa e drammatica coincidenza raggiunge l’apice della sua carriera con le crocifissioni.

asher-easel

 

La prima volta che ancora ragazzino scopre in un museo quadri di crocifissioni, è con il linguaggio chassidico che Gesù gli viene presentato: “i gojim credono che sia il messia. I gojim credono che sia il figlio del Ribbono Shel Olom. Fanno dei quadri che lo ritraggono perché per loro è sacro” (149)[1]. La madre asseconda la passione del figlio, contrastata dal padre perché “la pittura è per i gojim. Gli ebrei [osservanti] non disegnano né dipingono” (150). Ma Asher prova una strana attrazione per quei quadri, che torna più volte a rivedere e poi a copiare, accorgendosi dello sguardo stupito della gente che vede in lui un bambino con papalina nera e boccoli copiare quadri di Gesù. Quando il padre scopre quei disegni è furioso: com’è possibile che il figlio non sappia quanti ebrei erano stati uccisi per “quell’uomo” durante le Crociate e poi da Hitler “senza grandi proteste del mondo”! (151). Ma quando ormai adulto e pittore di successo, il padre decide di recarsi a una personale dedicata al figlio, il suo orgoglio si tramuta in vergogna e dolore, perché vedere rappresentata la sua famiglia in una crocifissione è qualcosa “al di là di ogni comprensione… La crocefissione era stata in un certo modo responsabile dell’assassinio di suo padre una vigilia di Pesach[2](309). Ad Asher non resta che lasciare la sua famiglia e la sua comunità, esiliato per un talento capace di causare tanto dolore.

viso

I figli, si sa, cercano altre vie spesso opposte a quelle dei padri, come nel Giuda di Amos Oz fa Shemuel, un altro giovane ebreo che porta faticosamente avanti la sua tesi di dottorato intitolata “Gesù in una prospettiva ebraica”. Nonostante il professato ateismo, il ragazzo è affascinato da questa figura: “Non credo neanche lontanamente al fatto che Gesù fosse Dio o figlio di Dio. Ma lo amo. Amo le parole che ha usato, come, ad esempio Se dunque la luce che in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra (Matteo 6,23) o L’anima mia è triste fino alla morte (Matteo 26,38)…” (131). Anche qui il padre, figura assente e dunque irrilevante nel passato e presente del figlio, non può capire questo interesse, che esce dal proprio orizzonte culturale e personale: “Nella mia città natale, Riga, noi ebrei eravamo abituati a voltare lo sguardo dall’altra parte ogni volta che passavamo davanti a un’immagine del crocifisso. Tu una volta mi hai scritto che per te Gesù era uno dei nostri. Faccio molta fatica ad accettare questa cosa: quante condanne, quante persecuzioni, quante sofferenze, quanto sangue innocente hanno versato coloro che ci odiano in nome di quell’uomo!” (116).

 

Come non ricordare allora le crocifissioni di Marc Chagall, ebreo russo trapiantato in occidente, che in quelle tele richiama la persecuzione ebraica, facendo di Gesù l’ebreo martirizzato dagli stessi cristiani. Epurato di ogni elemento iconografico che possa rimandare al mondo cristiano o alle tradizionali rappresentazioni della crocifissione, il Gesù di Chagall indossa il tallit (scialle ebraico per la preghiera) ed è circondato dai simboli della sofferenza universale, e di quella ebraica in particolare, quali la figura dell’ebreo errante (personaggio leggendario che simboleggia l’eterna fuga degli ebrei per l’accusa di deicidio), la menorah (candelabro a 7 braccia), il rabbino che stringe il rotolo della Torah (il Pentateuco, ovvero i primi cinque libri della Bibbia), la scritta sulla croce in ebraico e in lettere gotiche da pamphlet nazista antisemita.

Come Asher Lev, dove è più volte richiamato, anche Chagall è stato criticato dal suo ambiente, ma a queste critiche ha risposto con decisione: “Non hanno mai capito chi era veramente questo Gesù. Uno dei nostri rabbini più amorevoli che soccorreva sempre i bisognosi e i perseguitati. Gli hanno attribuito troppe insegne da sovrano. E‘ stato considerato un predicatore dalle regole forti. Per me è l’archetipo del martire ebreo di tutti i tempi”.

Marc Chagall, Crocifissione bianca (1938)
Marc Chagall, Crocifissione bianca (1938)

 

* * * * *

  • Ancora su Gesù e gli ebrei, un interessante articolo di Joseph Sievers:

http://www.nostreradici.it/sievers.htm

__________________

  • Note:

[1]             I gojim sono i non ebrei, mentre Ribbono Shel Olom significa Padrone dell’Universo ed è una delle tante parafrasi usate per dire Dio, di cui non è consentito pronunciare il nome.

[2]             Pesach è la pasqua ebraica.

  • Le immagini sono tratte da :
  • My Name is Asher Lev – A Theatrical Adaptation  https://macaulay.cuny.edu/eportfolios/artsandculture_theatre/2013/01/15

L’ironia di Emmaus

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

Quando si parla di ironia nei vangeli si pensa a Marco e soprattutto a Giovanni, eppure in Luca non mancano episodi che mettono in luce questa funzione retorica. Prendiamo un testo celeberrimo come è quello dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35).

Ci sono due uomini che, delusi dalle vicende che hanno visto protagonista in negativo il loro maestro Gesù di Nazaret, stanno imboccando contromano la strada dei pellegrini di Gerusalemme, diretti verso il villaggio di Emmaus. Si imbattono in un viandante che, secondo quanto ci rivela l’evangelista, è Gesù risorto, ma i loro occhi sono trattenuti dal riconoscerlo (24,16). Con aria sorniona chiede conto dei loro discorsi e viene dileggiato per la sua ignoranza dei fatti che sono appena accaduti a Gerusalemme. Per fortuna provvederanno loro a renderlo edotto.

Sentirsi raccontare della propria morte è un’esperienza abbastanza particolare, ma non è la prima volta che avviene nella Bibbia. Nel libro della Genesi tocca a Giuseppe, anch’egli non riconosciuto dai suoi, sentire dai fratelli che avevano un fratello, che però adesso era morto… (Gen 44,20). I due discepoli logorroici pensano di sapere, ma di lì a poco emerge che in realtà non sanno nulla di Gesù e che le loro opinioni sul suo conto sono totalmente errate. Volevano fare i saccenti e si scoprono ignoranti.

Luca, poi, è un maestro nel gigioneggiare coi suoi personaggi. Nel racconto dei discepoli viene fuori che altri discepoli (“alcuni dei nostri” 24,24) sono andati al sepolcro, “ma lui non l’hanno visto”. E il bello è che lui è davanti a loro, ma non si accorgono che lo stanno vedendo!

Una buona dose di ironia si scorge anche nel fatto che nonostante il precipitoso ritorno a Gerusalemme per annunciare in anteprima l’apparizione di Gesù risorto siano stati preceduti dalla notizia che il Signore era apparso a Pietro: come se Fidippide fosse arrivato ad Atene mentre telefonavano da Maratona la vittoria sui Persiani.

Se poi è vera l’informazione di Mc 16,13 che gli Undici non credettero ai due discepoli in cammino verso la campagna, la beffa diventa quasi atroce: quelli che non avevano creduto al racconto delle donne, si ritrovano a non essere creduti a loro volta quando riferiscono di avere visto Gesù risuscitato.

L’importante è esagerare.

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

 

La propaganda si fa anche così, gonfiando i numeri, elaborando immagini elefantiache, adeguando la realtà alla sfera dei desideri. C’è da stupirsi se anche i vangeli canonici, scritti per rafforzare la fede dei credenti e attirarne degli altri, non si sottraggono a questa regola? Se non altro, lo fanno con una certa classe. Anzi, bisognerà riconoscere che rispetto alle goffe amplificazioni di alcuni apocrifi, brillano per un’austera severità nel raccontare i fatti.

 

Ma spulciando qua e là si nota che un po’ di indulgenza all’immaginazione è data anche in questi scritti “ufficiali”. Tecnicamente si chiama “iperbole” ed è definita come una metafora deliberatamente alterata verso l’eccesso. Così in Gv 12,19 leggiamo che i farisei sconsolati debbono ammettere che tutto il mondo è andato dietro a Gesù. Beh, proprio tutto il mondo magari no, diciamo che lo seguivano in tanti. La città di Cafarnao sognava di raggiungere il cielo e invece precipiterà giù giù giù fino agli inferi (Mt 11,23).

 

Ma è nelle parabole che l’esagerazione trova il suo ambiente ideale. Sono racconti fatti per stupire, perciò ogni mezzo pare buono per raccattare l’attenzione del pubblico. E allora si parla del granello di senapa, definito il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra (Mc 4,31) e un botanico aggrotta le ciglia. E si continua dicendo che crescendo diventa più grande di tutte le piante che sono nell’orto (4,32) e il botanico scuote desolato la testa.

 

Qualche volta l’esagerazione ricade nel comico, come quando un giudice menefreghista si spaventa per l’insistenza di una povera vedova e teme addirittura che possa perdere la pazienza e fargli un occhio nero (il significato preciso del verbo ypopiazo in Lc 18,5). E altre volte tocca le corde del drammatico, con un padrone di una vigna che, dopo aver visto maltrattare e uccidere i suoi servitori da dei delinquenti, mette nelle loro mani il suo figlio unico pensando (ma quando mai!) che ne avranno rispetto (Mt 21,37).

 

E poi c’è la magia dei numeri, che sembrano fatti apposta per essere manipolati. Il seme che cade nel terreno buono produce il trenta, il sessanta, addirittura il cento per uno… che nemmeno con le tecniche moderne ci avviciniamo a risultati simili. Ma il capolavoro è quel funzionario che aveva contratto col padrone un debito di diecimila talenti (Mt 18,24), più o meno tutto il denaro in circolazione nel Medioriente!

 

Come i bravi narratori orientali, gli evangelisti hanno il gusto del racconto straordinario e dell’abbellire le loro storie con dettagli eccezionali. A loro scusante si può ricordare che avevano scommesso la loro vita su un fatto ancora più “esagerato”, la morte e risurrezione del loro Maestro…

Il corpo di Cristo morto.

Scritto da MARIA NISII.

“Nel quadro era raffigurato Cristo, appena deposto dalla croce. A mio parere i pittori solitamente hanno l’abitudine di raffigurare Cristo sia sulla croce sia dopo la deposizione con un volto che, nonostante tutto, conserva delle sfumature di insolita bellezza; cercano infatti di conservarla tale anche dopo che ha subito i più terribili supplizi. Invece, nel quadro di Rogozin, la bellezza non trova espressione; si tratta infatti della rappresentazione in tutto e per tutto del cadavere di un uomo che, già prima di essere messo in croce, è stato sottoposto a infinite torture, ferite, percosse dalle guardie, percosse da parte del popolo, mentre portava la croce in spalla e quando cadeva sotto il suo peso, e che aveva sopportato il tormento della croce per sei ore (almeno, questo è quanto ho calcolato). A dire il vero si trattava del viso di un uomo appena tolto dalla croce, che conservava quindi un aspetto ancora assai vitale, caldo; niente aveva fatto in tempo a irrigidirsi, tanto che si poteva notare sul volto del cadavere la sofferenza, come se questi continuasse a sentirla (l’artista ha colto molto bene l’istante); quel viso però non era stato per nulla risparmiato: la natura veniva rappresentata per quella che è, e in verità così deve essere il cadavere di un uomo, chiunque egli sia, dopo aver patito simili torture. Io so che la Chiesa cristiana, fin dai primi secoli, ha stabilito che Cristo ha sofferto non in senso metaforico, ma realmente e che, di conseguenza, anche il suo corpo sulla croce è stato in tutto sottoposto alle leggi della natura. Nel quadro il suo viso è terribilmente sfigurato dai colpi, tumefatto, con tremendi lividi gonfi e sanguinanti, gli occhi sono spalancati, le pupille storte, il bianco degli occhi, vasto e scoperto, ha una specie di riflesso mortale, vitreo, Ma lo strano è che, mentre guardi il cadavere di quell’uomo martoriato, nasce in te un interrogativo singolare e curioso: un cadavere in condizioni veramente tali (e doveva essere proprio in quelle condizioni) lo hanno visto tutti i suoi discepoli, i suoi futuri apostoli, lo hanno visto le donne che lo avevano seguito ed erano rimaste sotto la croce, tutti quelli che credevano in lui e che lo adoravano; in che modo potevano credere, guardando quel cadavere, che questo martire sarebbe risorto? […] Le persone, che circondavano il morto, e che nel quadro non compaiono affatto, devono aver provato, quella sera, un’angoscia e un turbamento tremendi, tali da soffocare all’improvviso tutte le loro speranze e forse anche ciò in cui credevano. Dovettero separarsi, pieni di un dolore terribile, sebbene ognuno portasse in sé un pensiero grandioso che nessuno sarebbe riuscito a strappare mai più. E se il maestro in persona avesse potuto vedere, la vigilia del supplizio, la propria immagine, sarebbe salito lo stesso sulla croce e sarebbe morto come di fatto è avvenuto?” (Fëodor Dostoevskij, Idiota, p. 553-5)

Il mistero di morte raffigurato nel quadro interroga il giovane Ippolit, gravemente ammalato di tisi e con poco da vivere, che lo commenta nel lungo passaggio sopra riportato, ma catalizza anche l’attenzione degli altri personaggi. “Quel quadro! A causa di quel quadro uno potrebbe anche perdere la fede!” (295) afferma infatti il principe Myskin, protagonista “idiota” del romanzo. Entrambi però sembrano fermarsi all’immagine di morte e di fine, tale da sollevare l’interrogativo di fede: “Tu credi in Dio o no?” (395).

crise

 

 

Ippolit indugia nella descrizione dei segni di sofferenza, richiamando i racconti della passione. Ma in questo suo ripercorrere la vicenda di Cristo, l’immagine del quadro ne sembra il punto di arrivo. La resurrezione è ricordata come possibilità inconcepibile di fronte a quel corpo tumefatto (“in che modo potevano credere, guardando quel cadavere, che questo martire sarebbe risorto?”). La resurrezione resta nell’orizzonte di fede, ma è anche quella stessa fede che il quadro sembra mettere in crisi: “in che modo potevano credere?”. Il corpo ritratto suscita interrogativi profondi: quel mistero di morte sembra non trovare risposta e il grido del ragazzo parrebbe quasi rimandare alle lacrime di Giovanni da Patmos quando non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo (Ap 5,4). E se le domande non trovano risposta, pure la sofferenza a sua volta sperimentata dal ragazzo diventa altrettanto fine a se stessa. Per questo egli si sofferma tanto a lungo ad osservare il dipinto: il suo sguardo partecipe lo rende acuto al punto da fargli intravedere in quel corpo una vitalità che si è appena allontanata, quasi la possibilità di un calore che non ha ancora lasciato del tutto quelle membra e soprattutto il volto che ha registrato tutti i patimenti subìti.

 

mano

 

Pittore tedesco influenzato dalla ritrattistica rinascimentale italiana, Hans Holbein il giovane si distingue per la singolare capacità di penetrazione dell’animo umano, che rende mediante lo studio rigoroso e analitico del dettaglio. La sua produzione è particolarmente ricca sul fronte della ritrattistica (lavorerà alla corte di Enrico VIII, i cui tratti sono pervenuti fino a noi grazie al pennello del nostro artista) e questo suo personale talento appare evidente nel quadro al centro de L’idiota, dove campeggia il volto di un uomo dalle fattezze regolari e piacevoli e dai tratti quasi aristocratici. La spigolosità dei lineamenti, evidente soprattutto in mento e naso, colpisce e cattura lo sguardo a differenza della ritrattistica sacra che tende a rappresentare Cristo in immagini di solenne sobrietà. Holbein si pone in netto contrasto con tale tradizione già dalla posizione di profilo che sembrerebbe negarne la santità [1]. Ma ancora maggiormente nella presentazione di una figura esclusivamente umana.

crivo

L’umanità di questo Cristo deposto dalla croce è tratteggiata con la cura dello scienziato più che dell’esegeta. Ai segni dei chiodi e della lancia mancano le tracce della flagellazione e della corona di spine. L’estrema magrezza ne farebbe un eremita del deserto più che l’uomo che si siede a tavola con farisei, pubblicani e peccatori. La barba curata lo ritrae come un galantuomo di corte attento alla moda più che un predicatore errante nella Palestina del I secolo. La rappresentazione appare pertanto più il frutto di un bizzarro gusto dell’epoca e del suo autore rispetto ad una possibile immagine realistica di quello che deve essere stato il corpo di Cristo in quel momento – come invece pare agli occhi di Ippolit. Una sfida che Dostoevskij ci rilancia e che tocca a noi lettori raccogliere, ovvero come possa salvarci questa bellezza. E se sia ‘bello’ questo Dio divenuto uomo, passato dallo stato cadaverico e inconcepibilmente annunciato come il Risorto.

________________________

[1]“nell’iconografia ortodossa classica le uniche figure mostrate di profilo sono i demoni e – a volte – Giuda Iscariota. L’icona cerca di mettere chi la osserva o la venera dinanzi a uno sguardo diretto a cui è la luce divina a dare forma. Ilquadro di Holbein mostra (sebbene ciò non sia descritto esplicitamente nel romanzo) un cadavere visto di fianco per il lungo – non solo un uomo morto, congelato in un dato momento del passato […], ma un uomo morto di profilo, duplice negazione delle convenzioni iconografiche. In senso abbastanza letterale si tratta di una immagine ‘diabolica’” (RowanWilliams, Dostoevskij. Linguaggio, fede e narrativa, Borla, Roma 2011, p. 78)

__________________________

  • DOSTOEVSKIJ, Fedor, L’Idiota, Mondadori, Milano, 2011 (edizione originale, 1869)
  • In copertina : Hans Holbein il giovane, Il corpo di Cristo morto nella tomba, 1528

La passione di Gesù (2).

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

Le rappresentazioni sacre si svolgevano durante le funzioni religiose, con la drammatizzazione delle storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, richiamandosi al contenuto delle Sacre scritture commentate dal sacerdote, a cui lo spirito dell’autore doveva adeguarsi con devota e trasparente semplicità. Dovevano far riflettere sulla vanità del mondo e mostrare le gioie della salvezza ai buoni e gli orrori dell’inferno ai peccatori. In particolar modo, la scena culminante era sempre il Planctus Mariae o “Gran pianto” e dai testi superstiti si può constatare che qui l’appello all’emozione era esplicito: nel prologo di un mistero della fine del quattrocento, ad esempio, troviamo una frase, pronunciata da un attore che dopo aver accennato alle scene della Passione che verrebbero in seguito, si rivolge al pubblico, o meglio, a ogni singolo spettatore, e dice: Si tu non piangi quando questo vedi, non so se a Yesu Cristo vero credi”. Tra esortazione e minaccia, l’ammonimento viene ribadito poco dopo, alla conclusione del prologo, quando l’attore esorta il pubblico, “quando el vederete poi levar di croce, ciascuno divotamente alzi le mani rendendo grande iddio cola sua voce”.

I pittori così hanno riprodotto nelle loro composizioni il clima che hanno assaporato, impressionati dalle grandi kermesse popolari, dall’azione scenica che durava più ore ed in alcuni casi anche più giorni. Con l’innato spirito di osservazione carpiscono agli attori atteggiamenti, movenze, vibrazioni d’animo e rivivono l’azione scenica tanto più intimamente quanto più la loro sensibilità ha vibrato durante l’esecuzione del dramma teatrale.

Particolari sono le pareti dipinte con scene della Passione in chiese fondate dai frati minori osservanti fra il 1421 e il 1500 circa, con una tipologia architettonica e decorativa prestabilita dall’ordine che prevede una parete–tramezzo, immaginata come la configurazione architettonica pittorica della celebrazione. Posta a diaframma di due parti distinte della navata interrotta a metà altezza, crea da un lato il luogo alla liturgia della parola e della predicazione proclamata dal pulpito, e dall’altro la chiesa conventuale con lo spazio più interno, per la liturgia eucaristica. Nei tramezzi veniva narrata la vita di Cristo attraverso una serie di immagini e di episodi, secondo un programma iconografico che perdurò per più di mezzo secolo, dal 1475 circa al 1530 circa che, pur ammettendo delle variazioni sul tema, doveva essere rispettato nelle sue linee essenziali da tutti i priori che intendessero far affrescare le pareti diaframma.

Due chiese, erette secondo questo schema in Piemonte a oggi esistenti, sono San Bernardino di Ivrea con il tramezzo decorato da Martino Spanzotti nel 1455 e Santa Maria delle Grazie a Varallo con il tramezzo decorato da Gaudenzio Ferrari nel 1513.

Tramezzo decorato da Gaudenzio Ferrari in Santa Maria delle Grazie - Varallo Sesia
Tramezzo decorato da Gaudenzio Ferrari in Santa Maria delle Grazie – Varallo Sesia

Il prototipo del programma iconografico dei tramezzi era costituito da una grande Crocifissione, dipinta sopra l’ingresso, che conduceva alla chiesa dei monaci, affiancata da venti riquadri che illustravano la vita e la passione di Cristo, insistendo soprattutto sugli ultimi episodi del dramma. Spesso era anche rappresentato il giudizio universale sulla controparete opposta al tramezzo verso l’ingresso/uscita o nella parte inferiore dello stesso, per far rammentare quello che avverrà alla fine.

Tramezzo decorato da Martino Spanzotti - San Bernardino di Ivrea
Tramezzo decorato da Martino Spanzotti – San Bernardino di Ivrea

In altre tipologie di chiese, come la Confraternita di San Francesco a Santa Vittoria d’Alba, i riquadri della Passione sono dipinti sulle pareti perimetrali dell’unica navata e la scena della Crocifissione è riprodotta nella parete di fronte  l’ingresso, così da far cogliere la sua centralità rispetto all’intero racconto.

Il racconto della Passione, oltre ad essere decorato su pareti, era dipinto su teli, Fastentucher, montati nelle chiese nel periodo quaresimale dal medioevo, diffusi in Europa, per nascondere alla vista l’altare dal Mercoledì delle Ceneri fino al momento della liturgia, in cui il celebrante leggeva il passo del Vangelo di Luca (23,45) dove narra che, prima della morte di Cristo, “il velo del tempio di squarciò nel mezzo”; allora venivano calati e messi da parte, dopo che avevano assolto la loro funzione di sostenere i fedeli durante il periodo della penitenza. Erano in lino, monocromi, proprio per il periodo liturgico di penitenza e astinenza che sembrava in questo modo più incisivamente sottolineato. In Italia abbiamo tali esempi in quelli di Genova, originari della chiesa dell’abbazia di San Nicolò del Boschetto, che rientrano a pieno titolo nella vasta produzione europea di tele quaresimali dipinte e forniscono un raro e prezioso esempio cinquecentesco di un genere ancora molto sviluppato nel settecento e nell’ottocento.

cantelami

  • In copertina: Gaudenzio Ferrari, Crocifissione, dalla parete tramezzo in Santa Maria delle Grazie – Varallo Sesia

LA PASSIONE DI GESU’ (1).

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

Uno dei soggetti più ricorrenti dell’arte cristiana del medioevo diventa la rappresentazione della Passione e dei Misteri della vita di Cristo. L’ossessione per le ultime ore di Gesù ha origine nell’Europa settentrionale dove troverà le espressioni più terribili e sublimi e l’oggetto principale della predicazione diventa il dolore affrontato con brutale intensità e con una potenza espressiva tale da coinvolgere e far commuovere gli spettatori, come i dipinti di Hieronymus Bosch.

“Storie della Passione” di Hieronymus Bosch, dipinto su tavola databile al 1489
“Storie della Passione” di Hieronymus Bosch, dipinto su tavola databile al 1489

 

I testi scritturistici solennemente proclamati ogni anno nella settimana che precede la Pasqua cristiana e i riti altrettanto solenni che accompagnano la proclamazione, a loro volta hanno generato una quantità di immagini pittoriche e scultoree come nessun altro dei temi che riguardano Cristo.

La nuova spiritualità promossa dei seguaci di Francesco d’Assisi porta allo sviluppo di una specifica forma di devozione comunitaria denominata “viae crucis” in cui i fedeli, camminando dietro al crocifisso, s’immedesimano psicologicamente col Salvatore che avanza verso la crocifissione.

All’inizio dell’era cristiana non vengono mai rappresentati gli episodi più umilianti della vita di Gesù in quanto uomo e dio; anche quando compare, la croce non è simbolo della Passione e della morte, ma della Resurrezione e del trionfo: infatti viene realizzata in oro e tempestata di pietre preziose come quella di Santa Pudenziana a Roma e in Sant’Apollinare in Classe a Ravenna. Oppure, quando è rappresentato, Gesù ha occhi aperti e vestito di tunica, senza tradire i segni della passione. Anche altre scene inizialmente non vengono mai rappresentate proprio perché non ritenute degne di un dio, come la flagellazione e l’incoronazione di spine.

Nel mondo orientale la Passione di Gesù è contenuta al momento della Crocifissione, ma è vista con una lontananza ieratica e asettica che ignora il dramma della carne, mentre per la cultura d’Occidente, Cristo comincia, o ricomincia, a essere l’individuo di carne che ha assunto sulle spalle i peccati del mondo, che soffrirà e morirà inchiodato a una croce. Gesù non è più simbolo di verità astratte e lontane, è uomo fra gli uomini, col suo corpo, il suo peso e la sua fisicità. Il racconto della Passione, raffigurato nelle chiese, è narrato attraverso una consequenzialità di immagini e di episodi, che precedono e seguono il momento della crocifissione, con grande abbondanza di dettagli ambientali e di personaggi fortemente caratterizzati all’interno di luoghi noti. La stessa varietà di soggetti specifici risulta più articolata che in altre categorie dell’iconografia cristiana.

 

Briga
Parete decorata da Giovanni Canavesio – Sanctuaire Notre-Dame des Fontaine Briga Marittima

 

Nell’area piemontese, ad esempio il ciclo della Passione di Gesù di Giovanni Canavesio, del XV secolo e originario di Pinerolo, che troviamo al Sanctuaire Notre-Dame des Fontaine a Briga Marittima, ora in territorio francese, i riquadri sono veri e propri palcoscenici in cui viene allestita e rappresentata la vita di Cristo. In questi dipinti emerge la conoscenza della scuola provenzale e dell’arte nordica e i contatti più o meno diretti con il mondo teatrale. La catechesi medioevale, in particolare nel corso del XV secolo, suggerisce al fedele di personalizzare e attualizzare le situazioni narrate nel Vangelo trasferendole nella realtà e negli scenari quotidiani, così come avviene solitamente nelle animazioni teatrali e popolari delle sacre rappresentazioni o mystères, dove si presentavano gli episodi salienti della vita di Gesù, soprattutto gli ultimi drammatici momenti.

  • In copertina: H.Bosch, Storie della Passione, dettaglio

Annunciazione di una nuova era.

Scritto da MARIA NISII

Il 25 marzo 3019 TE (Terza Era) “Frodo e Samvise raggiungono il SammathNaur. Gollum afferra l’Anello e cade nella Voragine del Fato. Crollo di Barad-dur e morte di Sauron” (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli anelli, Appendice B, Il calcolo degli anni).

L’Ombra che a lungo ha oscurato il sole nella Terra di Mezzo è sconfitta dalla distruzione dell’Anello del potere nel Monte Fato, il luogo in cui era stato forgiato. Ma la fine della guerra intrapresa contro le forze del male richiede il ritorno alla Contea, da cui tutto è iniziato e dove c’è ancora Saruman, ultimo nemico da combattere. Eppure neanche dopo quell’ultima vittoria arriva il lieto fine tanto atteso, specie quando si scopre l’aggravarsi della ferita subita da Frodo, il piccolo uomo portatore dell’Anello. All’ eroico hobbit, la cui missione salvifica era tutto subito evidentemente sproporzionata alle sue misure di mezz’uomo, viene offerta la possibilità di trovare riposo nei Rifugi Oscuri – luogo misterioso e sorta di stato intermedio fantastico, in cui alcuni esseri attendono la fine dei tempi senza il passaggio dalla morte corporale. La dipartita di Frodo dal mondo dei vivi segna la fine della Terza Era.

barca

La mitica saga tolkeniana ambienta l’auspicata distruzione dell’Anello nella curiosa data del 25 marzo. Da questo momento, degna conclusione delle tormentate peripezie dei suoi eroi, la vita può tornare a scorrere: la natura riprende vigore e il regno degli uomini rifiorisce grazie all’avvento di un grande re. L’Anello viene quindi distrutto precisamente nove mesi prima la data ideale di inizio dell’era cristiana (ovvero il 25 dicembre dell’anno 0 – lasciando ovviamente da parte ogni considerazione sulla storicità di tale cronologia), che in questa ricca mitologia non trova posto, ma a cui a suo modo apre la strada.

donna

Sono poche le donne che trovano posto in questo mondo in guerra, e chi vi entra spesso lo fa per combattere a sua volta alla stregua di ogni altro eroe della saga. Il 25 marzo però è, curiosamente, anche una ricorrenza cristiana, meglio ancora una delle principali ricorrenze al femminile, dunque dedicate a Maria. In questo giorno infatti si fa memoria dell’Annunciazione del concepimento del figlio dell’Altissimo:

l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». (Lc 1,26-28)

Situata naturalmente in prossimità della Pasqua, questa solennità riceve un’enfasi ridotta in mezzo alla ricchezza del calendario liturgico. E tuttavia segna quell’inizio fondamentale e fondante per il cristianesimo che è l’incarnazione.

 

(Io sono con te, regia Guido Chiesa, 2010)
(Io sono con te, regia Guido Chiesa, 2010)

Il cattolicissimo Tolkien nasconde questo codice ermeneutico della sua saga (la data del 25 marzo) in un’appendice, fuori e a conclusione della amplissima narrazione, a cui può arrivare solo quel lettore mai sazio di dettagli. Una curiosità per pochi, si potrebbe allora dire, quei pochi il cui zelo è premiato da questa chiave esclusiva, fino a quel momento quasi del tutto insospettabile. Arrivati fin qui però si guadagna un altro sguardo: tutto quell’universo fantastico, in cui le forze del bene hanno infine la prevalenza su quelle del male, ha permesso un nuovo inizio. E quel nuovo inizio porta con sé una novità ancora imprevedibile. Ma a quel punto la mitologia della Terra di Mezzo si conclude e la fantasia di Tolkien si arresta di fronte a quel mistero che pure ha voluto “preparare”.

  • In copertina , e altre: immagini da  Il Signore degli Anelli, regia Peter Jackson, 2001-2003