La questione della “legatura” di Isacco (3). Padri e figli

Scritto da Maria Nisii

 

“Ho cominciato le mie considerazioni mettendo in rilievo l’analogia tra la storia di Agar e di Ismaele mandati nel deserto e quella di Abramo che si allontana insieme a Isacco convinto di doverlo sacrificare. Volevo dimostrare che in realtà Abramo è chiamato a sacrificare entrambi i figli, e che in tutt’e due i casi il Signore manda un angelo che nel momento cruciale interviene per salvare il figlio” (M. Robinson, Gilead, Einaudi, 2008, pag. 134)

 

Il pastore John Ames, protagonista del romanzo di Marilynne Robinson, cerca nelle Scritture un senso ai propri timori. Anziano e consapevole di aver poco da vivere, teme per la giovane moglie, sposata in tarda età, e il figlio piccolo. Il sapere che li lascerà con pochi mezzi e senza la protezione di una famiglia richiama alla sua memoria il racconto di Agar e Ismaele. Come Abramo, Ames sente di star abbandonando la propria famiglia nel deserto. Come Abramo, Ames è vecchio e quel figlio gli è tanto più prezioso. Come Abramo, Ames deve confidare nella provvidenza divina, perchè: “cedere il figlio richiede una grande fede, la convinzione che Dio rispetterà l’amore dei genitori nei suoi confronti assicurando che ci saranno davvero angeli in quel deserto”.

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Paolo Veronese, Agar e Ismaele nel deserto, 1585

In Gilead i padri delle tre generazioni di pastori narrati al figlio nel diario-testamento che è questo romanzo devono in misura diversa attraversare lo spazio del deserto, dentro e fuori la metafora. Il paesaggio americano in cui la vicenda è ambientata lo contiene, appena oltre la prateria in cui gli uomini hanno tirato su insediamenti urbani più o meno stabili nel tempo. Così Gilead – nuova Galaad biblica, città di profeti (1Re 17,1) e del balsamo di guarigione (Ger 8,22) – fondata dall’entusiasmo dei padri per la causa antischiavista, si sta trasformando in un nuovo deserto, abbandonata da chi non prova più quell’antico coraggio, dimentico del suo passato glorioso. Prima il nonno e poi il padre di Ames hanno lasciato Gilead, come inevitabilmente sarà pure il destino del pastore: i padri vecchi, alla fine, devono “consegnare il figlio al deserto”.  Come Abramo era stato mandato nel deserto, abbandonando la casa del padre, così la vicenda di ogni generazione riproduce quel motivo primigenio, che dice separazione e sacrificio. Per separarsi e costituirsi, per lasciare che il figlio si separi e si costituisca, quel sacrificio dell’abbandono è indispensabile e fondante.

 

“Ho chiesto perché il Signore avrebbe ordinato al mite Abramo di compiere due gesti all’apparenza tanto crudeli: mandare un figlio e sua madre nel deserto, e prenderne un altro e legarlo su un altare come per immolarlo” (135). Se la narrazione biblica ci appare oggi tanto crudele è solo perché, erroneamente, la riteniamo avulsa dalla realtà. Attestazione di una pratica che voleva contribuire a debellare, il sacrificio di Isacco non smette di parlarci nella misura in cui vi riconosciamo la violenza e i soprusi di cui i bambini sono sempre stati e continuano a essere vittime, come Ames suggerisce ricordando che la Bibbia non approva proprio in quanto “il figlio è affidato alle cure provvidenziali di Dio” e ancor più per le parole di Gesù: “Se qualcuno offende questi fanciulli, sarebbe meglio per lui che una macina gli fosse legata intorno al collo e fosse gettato in mare” (Lc 17,2; Gilead, pag. 136).

Ma dice ancora Ames: “Il Signore può chiedere: “Quale uomo di voi se il figlio gli chiedesse pane, gli darebbe una pietra?” E si tratta di una domanda retorica. Tutti sanno per esperienza che tra noi ci sono parecchi padri che maltrattano i figli o li abbandonano” (pag. 135). Ames, pastore esegeta, indica una via per superare l’impasse iniziale: l’affidabilità di un Dio che esige il sacrificio del figlio e di un padre che accetta di compierlo, una mancata affidabilità che sembra a suo modo fondare la dissoluzione della figura paterna per i figli dei nostri giorni. È allora possibile comprendere il volto di Dio che appare in quel brano senza le parole di Gesù? È possibile comprendere il gesto di Abramo senza tenere conto che, se ci turba, è proprio perché quei figli siamo sempre e ancora disposti a sacrificarli?

Ames non risponde. E forse è ben che certe domande restino inevase, sospese, perchè ciascuno se ne impossessi e le porti dentro come traccia di un’inquietudine capace di dare frutto. Come ogni domanda, anche la riscrittura si fonda e a sua volta crea una nuova apertura, una breccia in cui altri possano trovare ispirazione. Chiudiamo così questo affondo attorno a Gen 22 con la riscrittura di Francesco De Gregori di Story of Isaac di Leonard Cohen, segno del potenziale inesauribile delle narrazioni bibliche.

 

Francesco De Gregori, La casa di Hilde

https://www.youtube.com/watch?v=-oC7YGEgaBo

degregori

L’ombra di mio padre due volte la mia, 
lui camminava e io correvo,
sopra il sentiero di aghi di pino,
la montagna era verde.
Oltre quel monte il confine
oltre il confine chissa
̀,
oltre quel monte la casa di Hilde.

Io mi ricordo che avevo paura,
quando bussammo alla porta,
ma lei sorrise e ci disse di entrare,
era vestita di bianco.
E ci mettemmo seduti ad ascoltare il tramonto,
Hilde nel buio suonava la cetra.
E nella notte mio padre dormiva,
ma io guardavo la luna,
dalla finestra potevo toccarla,
non era piu
̀ alta di me.
E il cielo sembrava piu
̀ grande
ed io mi sentivo gia
̀ uomo.
Quando la neve scese a coprire la casa di Hilde.

Il doganiere aveva un fucile
quando ci venne a svegliare,
disse a mio padre di alzare le mani
e gli frugo
̀ nelle tasche.
Ma non trovo
̀ proprio niente,
solo una foto ricordo.
Hilde nel buio suonava la cetra.
Il doganiere ci strinse la mano
e se ne ando
̀ desolato,
e allora Hilde apri
̀ la sua cetra
e tiro
̀ fuori i diamanti.
E insieme bevemmo del vino
ma io solo mezzo bicchiere.
Quando fu l’alba lasciammo la casa di Hilde.

Oltre il confine, con molto dolore,
non trovai fiori diversi,
ma sulla strada incontrammo una capra
che era curiosa di noi.
Mio padre le ando
̀ più vicino
e lei si lasciò catturare,
così la legammo alla corda e venne con noi.

 

Leonard Cohen, Story of Isaac

https://www.youtube.com/watch?v=Zp3K6Dtpjgw

cohen

The door it opened slowly,
my father he came in,
I was nine years old.
And he stood so tall above me,
his blue eyes they were shining
and his voice was very cold.
He said, «I’ve had a vision
and you know I’m strong and holy,
I must do what I’ve been told».
So he started up the mountain, 
I was running, he was walking, 
and his axe was made of gold.

Well, the trees they got much smaller,
the lake a lady’s mirror,
we stopped to drink some wine. 
Then he threw the bottle over.
Broke a minute later
and he put his hand on mine.
Thought I saw an eagle
but it might have been a vulture,
I never could decide.
Then my father built an altar,
he looked once behind his shoulder,
he knew I would not hide.

You who build these altars now
to sacrifice these children,
you must not do it anymore.
A scheme is not a vision
and you never have been tempted
by a demon or a god.
You who stand above them now,
your hatchets blunt and bloody,
you were not there before,
when I lay upon a mountain
and my father’s hand was trembling
with the beauty of the word.

And if you call me brother now,
forgive me if I inquire,
«Just according to whose plan?»
When it all comes down to dust
I will kill you if I must,
I will help you if I can.
When it all comes down to dust
I will help you if I must,
I will kill you if I can.
And mercy on our uniform,
man of peace or man of war,
the peacock spreads his fan.

 

La questione della “legatura” di Isacco (2). Padri sacrificatori.

Scritto da Maria Nisii.

 

 

” Ma Isacco, padre catechista,

cosa ha combinato?

Ha rotto giocando un vetro del vicino?

Ha strappato i pantaloni nuovi

Passando attraverso lo steccato?

Ha rubato le matite?

Ha spaventato le galline?

Ha suggerito?”

(Wislawa Szymborska, “Notte”

da La gioia di scrivere, Adelphi, Milano, 2009, p. 33)

 

 

È attraverso lo sguardo semplice di una bambina, che la poetessa polacca (premio Nobel per la letteratura nel 1996) ripropone il racconto del sacrificio biblico per antonomasia. Nella leggerezza del tono – sua inconfondibile cifra stilistica – così affronta il nodo cruciale:

 

“Gli adulti continuino stolti a dormire,

io stanotte

fino al mattino devo vegliare.

Questa notte tace,

ma tace contro di me

e ha il color della pece,

come lo zelo di Abramo.

Dove mi andrò a riparare

Quando l’occhio del Dio biblico

Si poserà su di me

Come si posò su Isacco?…”

 

Un Dio che brama sacrifici umani è terribile e temibile, tanto più a occhi innocenti e facilmente impressionabili, che dallo “zelo” del mondo adulto si sentono a questo punto meno protetti:

 

“…E quando domani all’alba

Mio padre mi porterà con sé,

ci andrò, ci andrò

rabbuiata dall’odio.

Non crederò

Né a bontà né ad amore…

Non fidarsi,

nulla merita fiducia.

Non amare,

portare il cuore vivo dentro il petto…”

 

Se Dio e il padre non meritano fiducia, anche quel salvataggio dell’ultimo minuto perde il suo senso, per cui è meglio morire:

 

“Il Signore Iddio attende

e dalle nubi dà un’occhiata

per controllare se alta

dal rogo si leva la fiamma

e  così potrà vedere

come si muore a dispetto,

perché io morirò,

non mi lascerò salvare.”

 

Il sacrificio volontario della vittima innocente diventa grido levato contro quell’immagine deforme di Dio, che richiede una diversa capacità di leggere il racconto – unica possibilità di sopravvivenza del divino.

 

“Da quella notte

oltre la misura di un brutto sogno,

da quella notte

oltre la misura della solitudine,

il Signore Iddio cominciò

a poco a poco

giorno per giorno

il trasloco

dal letterale

al metaforico.”

chagallisacco

L’inconcepibile obbedienza di quel padre biblico preserva, nelle tante riscritture letterarie in cui compare, un’immagine tragica capace di fondare l’inaffidabilità di ogni padre disposto a sacrificare i figli, nonostante l’arrivo puntuale dell’angelo a fermarne la mano. È così che ritroviamo la vicenda biblica anche nei war verses di Wilfred Owen, poeta della prima guerra mondiale, che nella Parabola del vecchio e del giovane (riprodotta in musica nel War Requiem di B. Britten) la rinarra in modo quasi parallelo al testo biblico, salvo alcuni dettagli che fungono da spia del mutato contesto:

 

“Dunque Abramo si levò, raccolse la legna, e partì,

portando con sé il fuoco e il coltello.

E mentre soggiornavano insieme,

Isacco, il primogenito, domandò: “Padre Mio,

tutti questi preparativi, il ferro, il fuoco,

ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”.

Allora Abramo legò il giovane con cinghie e pulegge,

ed eresse in quel punto parapetti e trincee,

e brandì il coltello per scannare suo figlio.

Quand’ecco, dal cielo, un angelo lo chiamò:

“Non stendere la mano contro il fanciullo,

non fargli alcun male. Guarda,

quel capro impigliato nella macchia per le corna;

offri il Capro dell’Orgoglio in vece sua”.

 

Il ferro al posto della legna, cinghie e pulegge per la legatura, ma più ancora l’erezione di parapetti e trincee ritraggono un’ambientazione facilmente riconoscibile. Non per questo il finale sarà meno scioccante:

 

Ma il vecchio non volle saperne, e trucidò il figlio,
e metà del seme d’Europa, uno per uno.

 

Neppure qui vi è garantita possibilità di salvezza ai tanti Isacco sacrificati dalle generazioni che avrebbero dovuto garantirne la sopravvivenza.

caravaggio

In Cosa resta del padre? Massimo Recalcati (Raffaello Cortina Editore, 2011) ricorda che Lacan ha teorizzato il declino della figura paterna come risalente a due periodi storici ben connotati: il “tramonto del padre” negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, che ha fatto da sfondo alla figura onnipotente del padre del totalitarismo e “l’evaporazione del padre” seguita alla contestazione del Sessantotto, che vede la progressiva perdita di autorità della figura paterna. Tuttavia se quest’ultimo ha comportato una critica alla società patriarcale risultata poi feconda, la prima fase ha coinciso con l’emergere delle dittature totalitarie. I padri folli dei grandi totalitarismi, richiamati nei versi di Owen, hanno però fondato il proprio potere normativo sul crimine e la violenza.

Figura indebolita di padre, in quanto defraudato del figlio, è Gershom Wald nel Giuda di Amos Oz (Feltrinelli, 2014), il quale confessa di aver convinto il suo “unico figlio” Micah ad arruolarsi nella guerra arabo-israeliana del ’48: “Io da solo l’ho preso e portato al Monte Moria, come ha fatto Abramo con Isacco” (p. 192). Fin da bambino Micah è cresciuto con i racconti dei martiri di Tel Chai e dei maccabei, ma “forse non si sarebbe buttato, in questa guerra, se non fosse stato per i discorsi di suo padre sulla guerra necessaria” (p. 194).

“Una voce mi ha chiamato e sono andato” traduce l’”eccomi” biblico di Abramo, che qui è il nuovo Isacco a pronunciare. Ma questo padre sacrificatore, sopravvissuto al figlio nel corpo deforme e patetico, riconosce infine di essere morto con lui quel giorno: “sono o non sono un uomo non vivo? Un logorroico che parla da morto?”. Al giovane ucciso e al padre mutilato del figlio sopravvive la parola – una parola alla ricerca di pace, speranza, perdono. Ancora una volta per preservare l’esistenza si rende necessario un trasloco dal letterale – la sopravvivenza di un padre al figlio – al metaforico e quindi il linguaggio – poetico e narrativo, unica possibilità di esorcizzare l’orrore del sacrificio.

 

 

La questione della “legatura” di Isacco (1). Un sacrificio inaccettabile.

Scritto da Maria Nisii.

 

La liturgia cattolica propone il brano del tentato sacrificio di Isacco (Gen 22,1-19) durante la veglia pasquale, leggendola come prefigurazione del sacrificio della croce. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (Gv3,16): ma l’atto d’amore per il mondo da parte di Dio è una giustificazione inadeguata nella società contemporanea, culturalmente distante dall’idea di sacrificio ritualmente inteso. E se, inevitabilmente, non può comprendere un Dio che ha bisogno del sangue per salvare il mondo, mostra ancora più fatica con un Dio che chiede a un padre di sacrificare l’unico figlio per dimostrargli fedeltà – “il signore non [è] gente di cui potersi fidare”, commenta infatti il caustico narratore del Caino di José Saramago (p. 66), introducendone il racconto. Quanto comprensibile resti allora quel padre, Abramo, che accetta di compiere il sacrificio del figlio è una questione che tento di abbozzare in prospettiva letteraria, grazie alla lettura di due voci del nostro tempo.

Margherita Oggero, uno degli autori di “Scrittori di Scrittura”, decide di riscrivere la storia di Isacco, personaggio da lei stessa definito uomo da “tragedia greca”. Sceglie quindi di ritrarlo negli ultimi giorni di vita, quando il patriarca si ritrova solo e stanco di vivere, a rievocare il passato con lo sguardo duro e impietoso di chi non trova pace. Segnato per sempre da quel sacrificio mancato, si arrovella attorno al dubbio di un Dio incomprensibile e di un padre, disposto a trattare per Sodoma e Gomorra, ma non per il proprio figlio. Nel tormento del dolore rivissuto emerge allora la grande domanda rivolta a Dio – perché? -, segno di un’inquietudine che accomuna gli uomini e le donne tutti, credenti o meno che siano. L’Amen, che dà il titolo al racconto e con cui si conclude il monologo del protagonista, chiude la sua scommessa su Dio con l’opzione negativa, consegnando l’ultima parola allo scetticismo e al suo timore.

Un altro autore contemporaneo, anch’egli non credente, ne propone un’interpretazione di tutt’altro tenore: la “legatura” è infatti per Erri De Luca il vincolo tra padre e figlio, per cui “Isacco si lega da solo alla volontà del padre” (E disse, p. 56). Da solo e volontariamente, si lega a quella promessa paterna a Dio e non compie atti che potrebbero svilirne l’ “eccomi”. Questa sua fede “seconda” è più grande di quella del padre, sostiene in un altro testo in cui aveva già commentato il racconto (Penultime notizie circa Ieshu/Gesù, p. 65). Una sola cosa desidera Isacco mentre sale su quel monte: che il padre sia disposto a esprimere anche a lui quella disponibilità. E quando la riceve – «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio» (Gen 22,7) – sorride, compiendo in questo modo la profezia che è il suo nome, Isacco, ovvero risata.

 

Erri De Luca, E disse, Feltrinelli, Milano, 2011

Margherita Oggero, Amen. Memorie di Isacco, Effatà, Cantalupa (Torino), 2014

José Saramago, Caino, Feltrinelli, Milano, 2012

«…sarebbe stato grasso». La Passione secondo Mazzacurati

Scritto da Matteo Bergamaschi

Fiorano, Toscana. Usuale Sacra Rappresentazione in occasione della Passione. A pochi minuti dall’inizio, l’attore scelto per impersonare Cristo si infortuna comicamente, e non può prendere parte all’evento. Palpabile lo scompiglio del regista, Gianni Dubois (Silvio Orlando). Tale il culmine de La Passione, film del 2010 di Carlo Mazzacurati. Si tratta di una commedia, che ospita generosamente scorci del paesaggio, delle tradizioni e dei costumi italiani, insieme agli stereotipi del mondo dello spettacolo e in generale dello star system. Al contempo, al cuore della trama, emerge un interrogativo piuttosto attuale: come si può rappresentare il personaggio di Cristo senza per questo omogeneizzarlo al mondo dello spettacolo e alle leggi dello schermo? Come rappresentare il Figlio di Dio – manifestatosi come «figlio del falegname» – senza farne un supereroe che ne snaturi il volto e lo stile? Possiamo farcene un’immagine che rimanga «icona», e non si perverta in «idolo»?

Ma torniamo al film. La scena dell’Ultima Cena è ormai allestita, il pubblico è radunato. Gli apostoli sono raccolti attorno alla tavola, quand’ecco che compare al centro la corpulenta figura di Ramiro (Giuseppe Battiston), ex-detenuto e ricercato dal disarmante accento veneto. Quest’uomo grasso e impacciato, ingenuo attore della domenica, rischia il carcere per non abbandonare al fallimento l’amico, il regista Dubois. Ma ecco che, dopo le prime battute, lo sgabello su cui siede cede sotto il suo peso, e Ramiro rovina a terra tra le risate generali, senza riuscire ad alzarsi. Lo soccorre Dubois, e tra i due avviene un commuovente dialogo: « – Sei stupendo, sei un Cristo perfetto: sei povero, sei ricercato, tutti ridono di te. – Ma sono grasso… – Anche Cristo lo sarebbe oggi, sai?».

Qui si cela il potenziale riflessivo della pellicola, di estrema attualità per le riscritture cinematografiche della storia sacra. Il corpulento attore, infatti, si riprende, e sudato e paonazzo proclama nel suo marcato accento che non c’è amore più grande che dare la vita per un amico; egli afferma di essere la via, la verità e la vita attraverso i propri discepoli (ovvero gli abitanti di Fiorano). Questa la portata veritativa della scena: l’inetto Ramiro si offre quale unica icona credibile della trascendenza evangelica. Nel mondo del successo e dell’efficienza, nell’universo dello spettacolo e dei corpi perfetti, il solo personaggio in grado di indicare in direzione di un senso «eccedente», «trascendente» simile contesto, è il fallito, l’incapace, il sempliciotto, l’uomo grasso – sinonimo moderno del povero biblico, se si vuole. Costui infatti permane nel mondo, è un elemento reale, che appare, che si dà a vedere; e tuttavia non è «appariscente» (non è «mondano»), si sottrae alla logica «immanente» dei riflettori e dello show business («Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi»), e in tal modo sprigiona un potenziale di senso in grado di indicare in direzione di un «oltre», alla volta del divino. Ciò che nel mondo non funziona, ciò che è «stolto» e «debole», «ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato», è l’icona credibile di ciò che è oltre il mondo.

Jesus’ Twelve

 

I discepoli nei vangeli rappresentano un personaggio collettivo difficile da classificare ma di importanza straordinaria per la funzionalità della trama. In un certo senso si può dire che siano i garanti degli avvenimenti, i testimoni degli eventi in grado di riportarli. Non per nulla la narrazione di Marco sembra subire una battuta d’arresto quando Gesù invia i Dodici in missione (Mc 6,7-13). L’evangelista è costretto a ricorrere a un riempitivo, il flash-back dell’arresto ed esecuzione di Giovanni Battista, che gli permette di prendere tempo e far ritornare i missionari ad accompagnare Gesù nei suoi viaggi. La valutazione dei discepoli cambia sensibilmente nei diversi vangeli. Marco è quello più ostile nei loro confronti, li mostra palesemente inadeguati al compito per il quale sono stati scelti, stare con Gesù e andare a predicare (Mc 3,14): quando nel Getsemani si daranno alla fuga sarà la certificazione ufficiale della loro débâcle. Matteo è meno drastico nella valutazione e sebbene l’esito della loro sequela sarà il medesimo, il Gesù di questo vangelo li chiama “gente di poca fede” (Mt 8,26 e 16,8). L’espressione pare volutamente ambigua perché ciascuno è libero di pensare che quella fede sia ritenuta insufficiente oppure meglio che niente. Luca presenta un quadro leggermente più positivo, ma non tace l’inopportuna discussione che sorge durante l’ultima cena, quando nell’imminenza della morte di Gesù litigano su chi di loro sia il più grande (Lc 22,24).
Infine nel vangelo di Giovanni troviamo i discepoli vittime del fraintendimento delle parole di Gesù, sebbene la cosa non ci sorprenda dato che in questo testo i discorsi di Gesù sono particolarmente criptici e prima di ricevere lo Spirito i discepoli non sono in grado di comprenderli. Inoltre nel Getsemani non sono loro ad abbandonare Gesù, ma è lui che li congeda per salvare le loro vite (Gv 18,8-9). Anche qui, però, è lecito domandarsi perché siano così poco reattivi dinanzi al tradimento di Giuda e perché dopo l’annuncio della risurrezione di Gesù da parte di Maria Maddalena continuino a barricarsi in casa.
L’onore degli altari (tranne che per Giuda, ovviamente) li riabilita dal punto di vista della religione, ma non certo sotto il profilo letterario, dove rimangono fino alla fine personaggi secondari e ignavi.

 

06-Resurrezione-Gesu-discepoli

“La crocifissione di Gesù” nella Chiesa di Santa Maria Assunta di Elva (CN)

 
Le immagini dipinte all’interno di un edificio religioso del passato sono state una forte forma espressivo-comunicativa dei contenuti della religione che aiutavano e possono ancor oggi far riflettere i cristiani sui contenuti di fede.
La scena della crocifissione (1496-1503) di Hans Clemer nella chiesa Santa Maria Assunta di Elva ripete uno schema iconografico utilizzato da vari artisti fino al XVI secolo; generalmente sono un insieme di combinazioni di dettagli ricavati dai diversi racconti evangelici della morte in croce di Gesù, avvalendosi di azioni tipicamente teatrali e introducendo spesso scene o particolari tratti dai vangeli apocrifi.
 
ElvaCrocifissione
 
Lo schema della composizione di questa rappresentazione è costituito dal crocifisso centrale con ai lati i due ladroni, ai piedi della croce la Maddalena, un teschio, a sinistra la scena delle pie donne, a destra i soldati che si spartiscono la tunica; i soldati romani sul fondo e quello che con la sua lancia trafigge il costato di Gesù.
Analizzando le singole scene e confrontandole con le scritture si possono trarre i riferimenti e farne i confronti.
La scena del centurione romano, a destra della croce, identificato con la bandiera con il simbolo SPQR ha il cartiglio che riporta la scritta in latino dal Vangelo di Marco (15,39) vere filius dei erat iste (veramente questi era figlio di Dio). Questa frase si differenzia nei vari vangeli: in Matteo (27,51) “davvero costui era figlio di Dio” e in Luca (23,47 ) “veramente quest’uomo era un giusto”. Così come è espresso da Marco il centurione romano riconosce Gesù come il Figlio di Dio, perché da pagano ha compreso in profondità il Messia.
È Luca (23,39-43) che segnala il differente comportamento dei due malfattori: il “buon” ladrone riconoscendosi peccatore, dà la sua testimonianza all’innocenza di Gesù e nel dipinto è raffigurato un angelo che porta la sua anima in paradiso, mentre il ladrone “cattivo” ha il diavolo che lo porta agli inferi.
La scena del soldato che trafigge il costato di Gesù con il colpo di lancia è solo di Giovanni (19,31-37), che vede nel gesto del soldato il compimento di importantissime profezie. Questo fatto avviene nel momento in cui i soldati vanno a spezzare le gambe ai corpi dei crocifissi. La piaga del costato sarà per tre volte mostrata da Gesù come segno di riconoscimento dopo la resurrezione.
Ai piedi della croce, oltre la madre di Gesù che sviene dal dolore e a Giovanni, ci sono altre due donne “la sorella di sua madre, Maria di Cleopa, e Maria Maddalena e il discepolo che egli amava”, riportato solo da Giovanni (19,25-26). La Maddalena è però rappresentata dall’artista discostandosi dal racconto evangelico, aderendo all’iconografia di questo soggetto: è in ginocchio e abbraccia la croce, probabilmente per riprendere il gesto di devozione compiuto durante la cena in casa del fariseo a Betania. Così anche il teschio posto al piede della croce presente nella maggioranza delle crocifissioni, sta ad indicare il luogo (il Golgota) dove è avvenuto il fatto.
I soldati che fanno rissa per la spartizione delle vesti di Gesù è una scena estranea ad ogni racconto evangelico, ma che fa cogliere bene l’azione compiuta.

Una settimana di grandi appuntamenti

 
La settimana che coincide con la nascita di questo nuovo blog vedrà, al contempo, il nostro progetto protagonista di due importanti appuntamenti, che segnaliamo con grande piacere.

Andando con ordine, il primo celebra il ritorno a Roma di Scrittori di Scrittura, grazie alla partecipazione di CHRISTIAN RAIMO e alla disponibilità della Pontificia Università Gregoriana, che ha promosso l’inserimento di un nostro incontro all’interno del ciclo Bibbia e letteratura del  Centro Fede e Cultura “Alberto Hurtado”. Ecco le informazioni complete:

martedì 10 maggio, ore 18
Pontificia Università Gregoriana
Centro Fede e Cultura “Alberto Hurtado”
Aula C008
piazza della Pilotta 4, ROMA

Dio ci ha dato la Parola per raccontarla.

SCRITTORI DI SCRITTURA

con la partecipazione di

don GIAN LUCA CARREGA – Direttore Ufficio per la Pastorale della Cultura della Diocesi di Torino

don FABRIZIO PIERI – Istituto di Spiritualità, Pontificia Università Gregoriana

CHRISTIAN RAIMO – scrittore, insegnante e giornalista
autore di “Rimetti a noi i nostri debiti. Il giovane ricco” (Effatà Editrice)
 

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Giovedì, poi, si inaugura ufficialmente la XXIX edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino e, anche quest’anno, all’interno del suo programma ufficiale vi è un appuntamento dedicato nello specifico al nostro progetto, che vedrà protagonisti due dei “nostri” autori, GIAN LUCA FAVETTO e TIZIANO FRATUS, affiancati dalla speciale partecipazione della teologa LIDIA MAGGI:

 

sabato 14 maggio, ore 10.30
Salone Internazionale del Libro di Torino
Spazio Autori – Lingotto Fiere
 
VISIONI BIBLICHE: LA PROFEZIA AL TEMPO DELLA RETE

A margine del progetto “Scrittori di Scrittura”

con la partecipazione di

don GIAN LUCA CARREGA – Direttore Ufficio per la Pastorale della Cultura della Diocesi di Torino

GIAN LUCA FAVETTO – scrittore, drammaturgo e giornalista, autore di “Un’estrema solitudine. La creazione” (Effatà Editrice)
 
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TIZIANO FRATUS – scrittore, poeta e alberografo, autore di “Geremia voleva diventare un mulino. Visione in sette rotazioni” (Effatà Editrice)

 

Copyright © Paolo Tangari Photographer - All rights reserved

 

LIDIA MAGGI – teologa e pastora battista

 

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A Roma o a Torino, o addirittura in entrambe le occasioni, vi aspettiamo!

Satisfiction e noi

È con nostro grande piacere che, da oggi, possiamo raccontarvi un altro piccolo grande passo in avanti del progetto Scrittori di Scrittura, nato proprio per andare oltre i classici steccati: una nuova collaborazione e, al contempo, una gran bella vetrina di cui non possiamo non essere orgogliosi.

In questi giorni, infatti, all’interno di Satisfiction – la prestigiosa rivista di critica letteraria – sta nascendo una nuova rubrica dedicata al nostro progetto, che in ogni sua uscita raccoglierà estratti dai testi che lo compongono, dalle introduzioni teologiche alle rinarrazioni d’autore, rispettando l’ordine cronologico di pubblicazione editoriale.

Come da descrizione presente sul sito, Satisfiction è la prima rivista di critica letteraria che rimborsa i libri consigliati. Satisfiction è la prima rivista gratuita, ma mai scontata. Ogni giorno, da anni, propone inediti di grandi scrittori classici e contemporanei. Oltre a centinaia di recensioni, sempre aggiornate, e decine di rubriche tenute dalle maggiori firme del panorama critico e narrativo italiano.

soddisfatti

Per ritrovare la rubrica dedicata a Scrittori di Scrittura potete cliccare direttamente qui.

A noi non resta che consigliare di seguirci anche lì e ringraziare tantissimo per la loro disponibilità (e per la loro passione per la letteratura e le grandi storie) coloro che lavorano al progetto Satisfiction: l’ideatore Gian Paolo Serino (tra poco in tutte le librerie con il suo primo romanzo, Quando cadono le stelle, edito da Baldini & Castoldi), il direttore Paolo Melissi e tutti gli infaticabili redattori e autori.

Gli spazi bianchi

 
Presentando il suo romanzo Un’annunciazione nell’ambito degli eventi di Torino Spiritualità, Elena Loewenthal ebbe a sottolineare come la rinarrazione si collochi all’interno degli spazi bianchi lasciati dal racconto primitivo. Questa è un’osservazione valida per qualsiasi tipo di narrazione, ma lo è in modo particolare per quella biblica, tenuto conto che la maggior parte dei suoi testi si è sviluppata e ha circolato a lungo in forma orale, con la possibilità quindi di implementare e arricchire il contenuto a seconda delle circostanze e in relazione all’uditorio specifico. Questo tipo di esercizio è stimolato indirettamente dallo stesso racconto biblico che, come ha giustamente osservato Robert Alter, si mostra sovente laconico nella descrizione dei suoi personaggi e delle loro motivazioni.
 
Tradizionalmente questa estrema sinteticità descrittiva è stata interpretata come un desiderio del narratore di non perdersi in dettagli e di mirare al significato (edificante) dell’episodio in sé. Ma questo punto di vista non regge a un esame più approfondito. L’impressione, invece, è che il narratore taccia su alcuni elementi ma si dilunghi abbondantemente su altri. Ci sorprende, ad esempio, che l’evangelista Marco si soffermi sulle traversie di una donna che da dodici anni aveva perdite di sangue e pur consultando molti medici non ne avesse tratto alcun giovamento, salvo poi tacere il nome di questa donna, nonostante abbia tramandato il nome del personaggio protagonista della storia ad essa intrecciata, vale a dire Giairo. Significa, quindi, che i silenzi – gli spazi bianchi – non sono tutti uguali e vanno in qualche modo interpretati. Qui può tornare utile la distinzione, nota tra gli studiosi, tra gaps e blanks. I primi sono da intendersi come dei vuoti di informazione che in qualche modo devono essere riempiti. A volte avviene da parte dell’autore stesso che colma nel prosieguo della trama alcune lacune create ad arte. L’evangelista Giovanni descrive doviziosamente il miracolo della guarigione del cieco nato in Gv 9,1-7, ma soltanto al v.14 veniamo informati che quella guarigione è avvenuta in giorno di sabato, quando cioè non sarebbe stato lecito curare un malato. L’informazione temporale era importante per la prosecuzione della trama, ma è stata differita al momento in cui sarebbe stata presa in considerazione dagli avversari di Gesù come capo d’accusa. Viceversa, il nome dell’uomo che ha ricevuto il beneficio della guarigione non viene mai riportato. Né la sua origine. Né la sua età (sebbene i suoi genitori dicano che ha raggiunto l’età della ragione, cfr. Gv 9,21).
 
Il lettore è chiamato a prestare attenzione ai gaps, soprattutto quando tocca a lui riempirli con le sue cognizioni previe (sempre in Giovanni non abbiamo nessuna presentazione di Giovanni Battista, segno che l’evangelista presupponeva che il personaggio fosse noto ai lettori). Al contrario, i blanks sono considerati irrilevanti: Giovanni Battista era sposato? Aveva figli? ecc. Ma quando si entra nell’ottica della rinarrazione entrambi i vuoti possono essere importanti. Per lo scrittore che intende approfondire la storia di un personaggio biblico i blanks sono una manna che gli permette di dare libero sfogo alla fantasia, di aggiungere dettagli che lo rendono più simpatetico al lettore e focalizzato più da vicino. Nessuno si scandalizza se un autore contemporaneo decide di dare un nome alla vedova di Nain o inserisce un cane nella famiglia di Lazzaro che tiene compagnia al padrone. Ma quando uno scrittore si avventura nei gaps la faccenda si complica parecchio. Ci sono vuoti narrativi che sono lasciati aperti ad arte, come ad esempio la cosiddetta parabola del figliol prodigo del vangelo di Luca. Il figlio maggiore entra o non entra alla festa per il fratello perduto? L’evangelista non lo dice e lascia che sia il lettore a dare la sua risposta. Se un narratore volesse descrivere l’abbraccio tra i due fratelli non si porrebbe più nell’ambito della riscrittura, ma dell’interpretazione.
 

Fin qui tutto bene

 

Con la presentazione di Amen di Margherita Oggero presso il Circolo dei Lettori di Torino, il 21 gennaio del 2014 prendeva ufficialmente il via il progetto Scrittori di Scrittura, patrocinato dalla Diocesi di Torino (Ufficio di Pastorale della Cultura e Facoltà Teologica) e da Amici di Torino Spiritualità, con la gestione tecnica di Dinoitre Eventi (nella persona di Stefano Gobbi) e di Effatà Editrice.

 

Locandina - 12 libri

 

Ad oggi la collana ha visto la pubblicazione di 12 volumetti, avvalendosi della collaborazione di scrittori reclutati non più soltanto nell’area torinese, conferendo al progetto un respiro più ampio su scala nazionale. Le presentazioni dei volumi sono state allargate anche a sedi prestigiose quali la Galleria Sabauda di Torino, l’Università Pontificia Gregoriana in Roma, Palazzo Rinaldi a Treviso. Il progetto ha poi partecipato al Festival Biblico di Vicenza e a più edizioni del Salone del Libro di Torino e Torino Spiritualità.

 

SdS_FestivalBiblico

 

L’interesse suscitato dalle presentazioni e la consapevolezza che i temi affrontati allargano la riflessione sull’argomento della riscrittura biblica ci ha spinto ad aprire una sezione “blog” su questo sito in cui fare confluire ulteriori approfondimenti e attualizzazioni sulle tecniche di riscrittura biblica e sulle applicazioni nelle arti. Ci auguriamo di fare cosa gradita non soltanto ai nostri fedeli lettori, ma anche di riuscire ad avvicinare al progetto nuovi utenti per condividere la gioia e le scoperte di un viaggio che continua a rivelarsi affascinante tra le pieghe del testo biblico.

 

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