La legge del tre

Scritto da  Gian Luca CARREGA.

 

Le tecniche narrative della Bibbia sono per loro natura essenziali perché si tratta di un libro che raccoglie delle storie prevalentemente didattiche e quindi non si soffermano su dettagli che possano distogliere l’attenzione o su trame troppo complesse che perdano di vista l’obiettivo catechetico. I narratori adottano spesso quelle regole basilari che normano anche i racconti orali più semplici e tra queste c’è senza dubbio la legge del tre. È un procedimento molto elementare che prevede una sequenza di tre esempi: il primo rappresenta una posizione, il secondo la conferma e il terzo la smentisce. Chiunque di noi si è imbattuto da bambino nella famigerata serie delle barzellette del francese, dell’inglese e dell’italiano. Il tema della barzelletta poteva variare, ma la struttura era sempre la medesima: un problema che né il francese né l’inglese riuscivano a risolvere veniva brillantemente superato dal genio dell’italiano. La narrazione biblica conosce diversi esempi di questa struttura ternaria già nei racconti più antichi. All’inizio del secondo libro dei Re il sovrano di Israele, Acazia, vuole consultare il profeta Elia e lo manda a prendere attraverso un comandante con cinquanta uomini che gli riferisce la convocazione in modo arrogante. La reazione del profeta è l’invio di un fuoco dal cielo che incenerisce tutta la delegazione. L’episodio si ripete tale e quale con una seconda delegazione. Quando il re invia una terza ambasciata, il comandante “cadde in ginocchio davanti a Elia e lo supplicò” (2Re 1,13). Con un po’ di pazienza e la carbonizzazione di cento persone il profeta riuscì a insegnare le buone maniere.

Anche nelle parabole di Gesù è frequente imbattersi nella legge del tre. Si prenda la parabola dei talenti (Mt 25,14-30) o delle mine (Lc 19,11-27). Un padrone affida una prebenda a tre servi, due dei quali la fanno rendere, sebbene in maniera diversa, mentre il terzo non combina nulla. Oppure si esamini la parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-9 e paralleli), dove per due volte vengono inviati dei servi per riscuotere l’affitto e dopo il loro fallimento il padrone decide di inviare un ambasciatore di altro genere, il proprio figlio. Ma l’esempio più significativo si trova nella parabola del Buon Samaritano (Lc 10,30-35). Sulla strada da Gerusalemme a Gerico sfilano tre persone davanti a un moribondo, due personaggi legati al culto e un samaritano, ma soltanto una si ferma a soccorrerlo. Il terzo personaggio, ovviamente.

Ultima cena di Gesù

Scritto da  NORMA ALESSIO

 

Il racconto dell’ultima cena di Gesù è riportato nei vangeli sinottici (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,15-20) come una cena pasquale ebraica che ricorda la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù sotto il faraone nell’antico Egitto, con i preparativi della cena, l’annuncio del tradimento di uno dei dodici e l’istituzione dell’Eucaristia, memoriale e chiave del mistero, mentre nel vangelo di Giovanni (13,1-20) non è descritta in modo esplicito l’istituzione dell’Eucaristia. Le prime rappresentazioni dell’ultima cena nelle chiese raffigurano presenti i discepoli che i quattro vangeli menzionano, sebbene nessuno ne riporti il numero; anche se nell’arte è usualmente dodici, successivamente iniziano a comparire altri soggetti o elementi che vogliono attualizzare l’avvenimento o mettere in risalto l’istituzione dell’Eucaristia.

Si portano qui a confronto tre raffigurazioni dell’ultima cena di Gesù dipinte tra il XIV e XVI secolo nell’ambito piemontese: quella di Giovanni Botoneri di Cherasco, nell’ampliamento cinquecentesco della cappella Allemandi del Santuario di San Magno; quella di Martino Spanzotti nella chiesa di San Bernardino di Ivrea e quella di Gaudenzio Ferrari nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Varallo.

Giovanni Botoneri di Cherasco - Santuario di San Magno
Giovanni Botoneri di Cherasco, “Ultima Cena” – Santuario di San Magno – Castelmagno
Martino Spanzotti
Martino Spanzotti, “Ultima Cena” – Chiesa di San Bernardino – Ivrea
Gaudenzio Ferrari - " Ultima Cena" - Chiesa di Santa Maria delle Grazie - Varallo
Gaudenzio Ferrari – ” Ultima Cena” – Chiesa di Santa Maria delle Grazie – Varallo

Il dipinto dello Spanzotti, si discosta molto rispetto alla tradizione iconografica. Esso infatti ricorda proprio la celebrazione della Pasqua ebraica: gli apostoli sono in piedi, alcuni con il bastone come cita Esodo 12, 14, pronti per la fuga dall’Egitto. In primo piano, al centro, c’è un uomo di schiena (il capofamiglia?)  che beve dal primo calice il vino (una delle quattro coppe della celebrazione) con la mano destra, il gomito appoggiato e piegato su un fianco, che dà inizio alla festa. E’ assente il discepolo che Gesù amava, presente negli altri due dipinti che, come narra solo Giovanni (13,25-26), reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». Rispose Gesù: «È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò». Dal confronto dei tre dipinti emergono alcune differenze sui particolari che vengono raffigurati e che fanno riflettere sul modo con cui gli artisti leggono e comprendono le Scritture o  su quanto invece siano influenzati dall’iconografia oppure dai committenti nel comunicare il messaggio evangelico.

Nella scena dell’Ultima Cena di Castelmagno, dipinta nella volta a botte, è rappresentata una mensa apparecchiata intorno cui stanno seduti secondo l’uso occidentale i dodici Apostoli, mentre Cristo occupa, secondo la tradizione iconografica, il centro della tavola e porge a Giuda il pane intinto. Qui è presente Giovanni, reclino verso la tavola piuttosto che adagiato sul petto del Signore; il gesto narrato, infatti, sarebbe molto naturale in quella Cena, se i commensali fossero distesi su divani posti attorno ad una tavola semicircolare, (secondo un’usanza grecoromana) meno facile invece stando seduti.

Elemento di novità nella cena di Castelmagno è che, vicino a Cristo, tra i discepoli, c’è l’apostolo Paolo, non presente certamente alla Cena, ma che il pittore inserisce, forse perché per primo, nell’anno 55 (1Cor 11,23-29), riporta quell’evento fondante e le stesse parole dell’Istituzione Eucaristica. Singolare nel dipinto, è anche Giuda, individuato solo da Giovanni, collocato in una posizione isolata nell’altro lato della tavola, con i denari come solitamente viene rappresentato, ma anch’esso con l’aureola come tutti gli altri discepoli, che normalmente non gli viene apposta in quanto traditore; la spiegazione  potrebbe essere che  solo dopo il boccone, Satana entrò in lui (Gv 13,27). Nella scena appare anche, all’estrema destra, una donna con un bambino, personaggio assente nei racconti evangelici, ma introdotto dall’artista dando un senso realistico a quello poteva essere accaduto.

Altro affresco singolare è quello di Gaudenzio Ferrari, dove la scena si apre su Giuda come punto focale, che riceve il boccone da Gesù, come riportato da Giovanni (6,26) in risposta alla domanda di chi fosse il traditore. Anche in questo caso non ci sono riferimenti all’iconografia classica, ma ciò che accomuna i tre artisti è il voler dirigere l’attenzione dell’osservatore verso aspetti specifici del racconto biblico e  adeguare e rendere accessibili le immagini secondo l’interpretazione del periodo in cui hanno operato.

Perché la parabola non è una favola

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

Gli studi biblici si avvalgono spesso degli schemi comparativisti, cioè cercano all’interno di altre tradizioni gli elementi che possano aiutare a fare luce sull’origine e le dinamiche di ciò che si trova all’interno della Bibbia. È naturale, perciò, che in ambito narrativo si esplorino i testi della cultura greco-romana per trovare un parallelo a quella forma assai particolare di narrazione simbolica che troviamo diffusa nei vangeli sinottici e a cui diamo il nome di “parabola”. Di per sé il concetto di parabolè, intesa come similitudine, è conosciuto anche da Aristotele, ma questo non ci è di grande aiuto per capire come funziona una parabola evangelica. Più interessante può essere il confronto con un’altra espressione tipica della narrazione simbolica greco-romana, la favola. Qui abbiamo degli autentici campioni nel genere, basti pensare a Esopo, Fedro, Babrio. Si tratta nella maggior parte dei casi di brevi racconti aforistici che mettono in scena animali parlanti che diventano protagonisti di una vicenda allegorica da cui viene tratto un insegnamento morale. Il grammatico Teone definì la favola: “Lógos pseudès eikonízon aléthiean”, ovvero “Un racconto fittizio che mette in luce una verità”. Questa definizione potrebbe adattarsi benissimo anche alla maggior parte delle parabole evangeliche: Gesù racconta vicende verosimili che hanno come scopo evidenziare un comportamento da seguire o evitare oppure indicare il modo in cui si compie quella realtà così complessa e misteriosa che è il Regno di Dio. Ma rispetto alle favole, i racconti di Gesù hanno delle caratteristiche differenti. Il realismo delle situazioni è accentuato dal fatto che protagonisti sono sempre degli esseri umani e non animali od oggetti animati, una situazione che accentua il realismo e favorisce il processo di identificazione da parte del lettore o ascoltatore. Inoltre la favole rispondono ad un meccanismo universale, sono presenti nel patrimonio culturale di quasi tutti i popoli e si tramandano e si contaminano tra loro proprio perché il messaggio che esse trasmettono è di natura generica, adatto a tutti i tempi e a tutte le latitudini. Generalmente, invece, lo scopo delle parabole di Gesù è trasmettere un insegnamento specifico collegato alla sua persona e alla sua predicazione, difficilmente esportabile senza il contesto che l’ha originato.

Tutti ciechi…

Scritto da Maria NISII

 

“Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco” (José Saramago, Cecità, p. 276)

Il cielo bianco che compare al termine di uno dei più noti romanzi del premio Nobel portoghese José Saramago fa da specchio al “male bianco” che ha colpito l’umanità in un racconto dai toni apocalittici – tra le altre, la percezione che “il tempo sta per concludersi” (p. 251) sembra infatti richiamare Ap 10,6: Non vi sarà più tempo!

In un’atmosfera da fine dei tempi, improvvisamente tutti gli uomini e le donne uno a uno perdono la vista. Tale perdita però non implica una caduta nell’oscurità, ma al contrario il permanere dello sguardo in una fissità luminosa che tutto avvolge. Il capovolgimento cromatico dal nero (tradizionalmente associato al male) al bianco (che invece connota la purezza) non è un caso isolato nella letteratura e su tutti il nostro immaginario riporta indubbiamente alla celeberrima immagine di terrifico biancore che è la balena del Moby Dick di H. Melville.

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Dunque in Cecità anche il cielo, se bianco, porta con sé gli stessi caratteri del male che ha afflitto gli uomini. E figurativamente si colora di quella stessa cecità al culmine degli eventi, quando i protagonisti stanno cercando di intravvedere un senso in quanto accaduto. Ma apice, e forse origine del mistero, questo cielo cieco compare dopo un’altra rivelazione che l’unica donna misteriosamente preservata dal male bianco ha in una chiesa, là dove tutte le immagini sacre presenti nei dipinti e nelle statue sono state bendate. Forse è stato un prete, pensa la non cieca e quell’ipotesi le piace: “è l’unica che possa conferire una certa grandiosità alla nostra miseria” (p. 268).

Così il cielo, specchio e immagine dell’umano, non può che essere cieco, imperterrito e impassibile, eppure una presenza stabile nell’orizzonte di questo autore sempre orgogliosamente dichiaratosi ateo, per rabbia e convinzione. E questo cielo persiste anzitutto nell’orizzonte linguistico, che prende a prestito dalla Bibbia immagini e citazioni, in una riscrittura estraniante ma sempre riconoscibile: “riuscivano a stento a reggere le lance, come chi si è portato una croce sulle spalle” (p. 177) oppure: “nessuno vuol essere la pecora smarrita perché fin d’ora sanno che nessun pastore li andrà a cercare” (186) o ancora: “tutti i racconti come sono quelli della creazione dell’universo, nessuno c’era, nessuno vi ha assistito, ma tutti sanno cosa è accaduto” (224). Le stesse categorie con cui si narra la vicenda appartengono al mondo religioso tanto aspramente rifiutato: “i primi ciechi messi in quarantena sono stati capaci, più o meno consapevolmente, di portare con dignità la croce della natura prevalentemente escatologica dell’essere umano” (p. 117).

cireneo

Grazie anche la potenza delle immagini bibliche, l’ateo Saramago propone la sua morale: “Eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi” (p. 116), “la cecità è anche questo, vivere in un mondo dove non ci sia più speranza” (p. 180), “siamo già morti, siamo ciechi perché siamo morti” (p. 213), fino alla più citata interpretazione finale: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono” (p. 276). Una morale ancora una volta curiosamente mediata dall’immagine evangelica di Mt 13,15-16: il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca! Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!

Recentemente proposto come reading nel nutrito cartellone di Torino Spiritualità (edizione 2016 http://www.torinospiritualita.org/cecita/), con la brillante lettura di Angela Finocchiaro, tutto questo scompare. La necessaria sintesi ha epurato tutti i caratteri problematici di questo testo duro ma importante, rendendo quasi impossibile cogliere il significato di questo mal bianco che ha prima prostrato e poi ridotto gli uomini a uno stato di primitiva animalità. E’ rimasta la storia, comunque gradevole e che ha garantito gli applausi a interprete e regista. Ma forse è troppo poco.

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Il Cristo «proletario» di P.P. Pasolini

Scritto da Matteo BERGAMASCHI

 

Quale artista è considerato più controverso di Pasolini? Il suo rapporto con il Cattolicesimo non fa certo eccezione, anzi. Ci piace ricordare il suo Vangelo secondo Matteo, di una bellezza rara, ma il meno noto La Ricotta è forse ancor più enigmatico. Si tratta di uno dei quattro episodi che compongono Ro.Go.Pa.G., il cui titolo è ricavato dalle iniziali dei registi delle parti che lo compongono (oltre a Pasolini, Rossellini, Godard e Gregoretti); esso veda la luce nel ’63, un anno prima del Vangelo. Inutile dire che il rapporto con la censura è travagliato.

La trama è presto detta. Alla periferia di Roma, una troupe con tanto di regista (Orson Welles) sta girando delle scene per una sorta di kolossal, dedicato agli episodi evangelici. Il sottoproletario Stracci (Mario Cipriani), squassato dalla fame, fa la comparsa, così da rimediarsi il pranzo. Gli attori tuttavia non ce la fanno a rimanere seri: le scene solenni, tableau vivant che richiamano le deposizioni manieriste di Pontormo e Rosso Fiorentino, con tanto di versi di Jacopone e musiche di Gluck e Scarlatti, restano loro perfettamente estranee, tanto che si mettono a ridere, e occorre sospendere le riprese.

L’intento tuttavia non è affatto dissacrante: ci obbliga piuttosto a prendere le distanze da tutto un cerimoniale «barocco» con cui circondiamo il divino, allontanandolo da noi. C’è un modo di raffigurazione solidale con l’apparato di consumo e di spettacolo, che neutralizza il portato autenticamente trascendente del religioso, riducendolo a fatto di costume, a trovata «esotica», a moda innocua. Proprio come nella pellicola pasoliniana: quando il produttore romano compare sul set delle riprese, si sospende la scena della Passione, e le croci restano mute sullo sfondo, mentre tutti si affaccendano con i «pezzi grossi».

E Pasolini come reagisce all’industria culturale? Su una delle tre croci è appeso Stracci, nel ruolo del buon ladrone, reduce da un’abbuffata a base di ricotta, durante la quale è stato umiliato dagli altri attori e ha dovuto addirittura contendere il pasto con il cane della diva miliardaria. L’indigestione gli è fatale: dopo aver recitato la sua battuta («Quando sarai nel Regno dei Cieli, ricordami al Padre tuo»), reclina il capo e muore, ma nessuno se ne accorge fino alla fine. L’effetto è sorprendente: l’unico personaggio credibile per la raffigurazione del religioso non è altri che il poveraccio Stracci. L’unico che non ha niente a che vedere con l’industria dello spettacolo è il solo che può rappresentare la presenza «qualcosa d’Altro».

Stragi di innocenti

Scritto da Maria NISII

 

Nascerà in una stiva tra viaggiatori clandestini…

Niente della sua vita è una parabola,

nessun martello di falegname gli batterà le ore dell’infanzia,

poi i chiodi nella carne.

Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei

Che non hanno portato manco un vestito e un nome

I marinai li chiamano Gesù.

Perché nascono in viaggio, senza arrivo.

 

Nasce nelle stive dei clandestini,

resta meno di un’ora di dicembre.

Dura di più il percorso dei Magi e dei contrabbandieri.

Nasce in mezzo a una strage di bambini.

(Erri De Luca, Natale in Opera sull’acqua, p. 33)

immigrati

In queste estati calde di barconi di immigrati e di sbarchi che quasi non fanno più notizia tornano alla mente i delicati versi del napoletano De Luca, non credente eppure appassionato lettore della Scrittura. Tra i suoi temi più ricorrenti vi è quello del Natale di Gesù associato alla nascita dei tanti piccoli clandestini di tutti i tempi: “nascesse oggi, sarebbe in una barca di immigrati, gettato a mare insieme alla madre in vista delle coste di Puglia o di Calabria. Forse continua a nascere così, senza sopravvivere, e il venticinque dicembre è solo il più celebre dei suoi compleanni. Dopo di lui nessuno è residente, ma tutti ospiti in attesa di un visto. Siamo noi, pasciuti di occidente, la colonna di stranieri in fila fuori all’ultimo sportello” (Penultime notizie, p. 51).

( Tintoretto )
( Tintoretto )

Appena nato Gesù scampa il pericolo di una strage di innocenti voluta da Erode, di cui solo il Vangelo di Matteo (Mt 2,13-18) dà conto. Non entriamo qui nella questione della storicità dell’evento, adatta ad altri approfondimenti. Invece ci interessiamo del valore simbolico o se vogliamo delle ricadute antropologiche, più affini alla sensibilità letteraria che infatti non ha mancato di interrogarsi su questioni forse meno rilevanti all’indagine storica ed esegetica, ma estremamente convincenti per il lettore contemporaneo. “L’angelo avvisò in sogno solamente suo padre. Mancavano angeli per visitare pure qualcun altro, in sogno o in veglia? Mancava di personale specializzato o di volontà, il cielo? A volte la salvezza di uno solo è un’avarizia della provvidenza. Poteva spendersi, sprecarsi per qualcuno in più, tanto per non lasciare solitario il povero scampato, troppo raccomandato” (Penultime notizie, 45).

Analoga preoccupazione affligge il sarcastico e irriverente narratore de Il Vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago, che di questa strage scampata dal piccolo Gesù ne fa la grande colpa del padre Giuseppe, venuto a conoscenza dell’intenzione di Erode ma, per l’angoscia, chiusosi in una preoccupazione cieca rivolta al solo figlio suo. Così il diavolo, sotto spoglie angeliche, annuncia a Maria il destino dello sposo: “è la crudeltà di Erode che ha fatto sguainare i pugnali, ma il vostro egoismo e la vostra vigliaccheria sono le corde che hanno legato mani e piedi alle vittime. Disse Maria, Che cosa avrei potuto fare. Disse l’angelo, Tu, niente, ché lo hai saputo troppo tardi, ma il falegname avrebbe potuto fare tutto, avvertire il paese che i soldati stavano andando a uccidere i bambini, c’era ancora tempo perché i genitori li prendessero e scappassero… non c’è perdono per questo delitto” (90).

Le scritture non spiegano e l’esegesi non si sofferma, ma il grido dell’uomo si solleva nelle parole che la letteratura fissa per dare voce ai tanti sofferenti le ingiustizie del mondo.

MADRE

 

Ci pensa invece la madre, preoccupata per questo destino di scampato del figlio, in uno dei due testi delucani che rinarrano i vangeli dal suo punto di vista: “Hanno ammazzato i bimbi per cercare il nostro, hanno versato il più innocente sangue. Che possa ricadere su di loro il fuoco delle nuvole. Questo nostro bambino inizia la sua vita da scampato alla strage. Si porta dietro uno strascico di sangue e il grido di dolore delle madri. Quanto dovrà fare per ripagare il loro strazio? Quanta misura di risarcimento dovrà versare in cambio?” (La faccia delle nuvole, 35).

Nel duetto che qui ricomponiamo, lasciamo rispondere il giovane Gesù di Saramago che, dopo aver appreso la colpa del padre, vive il tormento del suo destino neonatale, a cui non si sottrae: “e adesso io, cui la vita fu risparmiata perché conoscessi il delitto che mi ha salvato, anche se non avrò altre colpe, questa mi ucciderà” (173).

(Chagall )
(Chagall )

Ed è così che, “allo scadere del fiato disse con amore e con rabbia: la volontà tua. E si arrese. All’età di circa trentatré anni pagò tutto in un giorno il debito ai bambini ammazzati al posto suo” (Penultime notizie, 46).

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Erri De Luca, Penultime notizie circa Ieshu / Gesù, Ed. Messaggero Padova, 2009

  • La faccia delle nuvole, Feltrinelli, Milano, 2016
  • Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino, 2002

 

José Saramago, Il Vangelo secondo Gesù Cristo, Feltrinelli, Milano, 2011 [1991]

 

Vangeli ©

Scritto da  Gian Luca CARREGA

 

Chi apre una Bibbia oggi trova quattro testi che portano il nome di “vangeli”. Certo, anticamente erano di più, ma soltanto questi quattro hanno superato l’esame e sono stati accolti nel canone, secondo criteri e modalità che non staremo qui ad analizzare ma che sono reperibili su qualsiasi introduzione al Nuovo Testamento. La domanda che invece ci facciamo è: cosa pensavano di scrivere gli evangelisti? Di fatto, nessuno di loro ha dato alla sua opera il nome di “vangelo” come lo intendiamo oggi. Marco, presumibilmente il più antico dei quattro, comincia con queste parole: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (Mc 1,1). Ma il punto è che con il termine “vangelo” non si riferiva a quella che noi genericamente (ed erroneamente) riteniamo una biografia di Gesù. Per Marco “vangelo” indica con tutta probabilità quello che indicava per Paolo nelle sue lettere che lo precedono di diversi anni, la “buona notizia”, l’evento salvifico realizzatosi in Gesù. Dal momento che neppure sappiamo se esistessero altri vangeli prima di Marco, è improbabile che potesse indicare con questo nome la sua opera. Chi inventa un genere letterario non può presumere che il lettore sappia di cosa si tratti! Prima deve spiegargli cos’è un vangelo. Se, invece, lo usa nel senso adottato da Paolo, era un termine già diffuso e comprensibile. Dopo di lui scrive Matteo, che inizia la sua opera con queste parole: “Libro della generazione di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt 1,1). La parola “libro” è molto generica e sarà la stessa adoperata da Giovanni, che nel finale del suo testo scrive che Gesù “fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro” (Gv 20,30). Quanto a Luca, parlando nel prologo della sua opera si riferisce ad essa come una dieghesis, vale a dire “una presentazione di cose che sono avvenute e che si presume che siano avvenute”. Con questa definizione si entra direttamente nell’ambito storico. La sua opera, infatti, esprime una presa di coscienza storica e una visione diversa della storia.

Uno dei primi autori cristiani che fa uso dei vangeli (o almeno di un paio di essi) è il filosofo Giustino Martire, che nella sua prima Apologia li indica con il termine tecnico di apomnemoneumata (“ricordi”) degli apostoli. Ma il termine non ebbe fortuna, tant’è che nelle soprascritte dei più antichi papiri evangelici di cui disponiamo si trova invece il termine “vangelo secondo…”. Un tempo si riteneva che quest’uso fosse invalso solo quando le opere degli evangelisti erano state raccolte insieme nei codici, per distinguerle l’una dall’altra, ma M. Hengel ha dimostrato che si tratta di una terminologia già nota a Ireneo alla metà del II secolo, quando i singoli vangeli circolavano ancora separati. Dunque chi ha imposto l’uso dell’espressione “vangelo” per indicare l’opera degli evangelisti? Non possiamo saperlo, ma almeno non siamo debitori a nessuno del copyright.

Volto di Cristo

( Rouault )

 

Scritto da Maria Nisii.

“dalla terrazza sopraelevata del giardino, due legionari condussero alle colonne del portico e sistemarono dinanzi allo scranno del procuratore un uomo di circa ventisette anni. Indossava un chitone azzurro, vecchio e lacero. La testa era coperta da una fascia bianca con una cinghia che gli attraversava la fronte, e aveva le mani legate dietro la schiena. Sotto l’occhio sinistro aveva un grosso livido, in un angolo della bocca una scorticatura, col sangue raggrumato. Il nuovo venuto fissava il procuratore con ansia e curiosità” (Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita, p. 21)

Tra i numerosi vuoti lasciati dai vangeli spicca su tutti la mancanza di una descrizione della figura di Gesù, lamentata da sempre e forse ancor più dal lettore contemporaneo, avvezzo all’immagine e per questo forse meno propenso all’immaginazione. Bulgakov lo presenta come visto in quell’apocrifo che è il “romanzo di Pilato”, che intercala la vicenda principale con l’arrivo del diavolo a Mosca. L’aspetto dimesso del vagabondo malmenato dalle guardie è quello che si offre al procuratore romano, tutto preso dal tormento dell’ennesima emicrania per prestargli immediata attenzione.

( dettaglio Caravaggio )
( dettaglio Caravaggio )

Tutt’altro aspetto ha invece l’uomo che si avvicina al Giordano per farsi battezzare ne La gloria di Giuseppe Berto, riscrittura della vicenda evangelica per bocca di Giuda: “coloro che gli stavano vicino lo chiamavano Rabbi, e lui rispondeva a voce molto bassa, se pur rispondeva. Era bello – lui il più bello tra i figli degli uomini – e alto di persona, ma esile” (p. 22). Il traditore per antonomasia riscatta il suo gesto inspiegabile, raccontando il suo amore per l’uomo di Nazaret dal quale è stato scelto come discepolo per un compito che richiede comunione di morte.

(dettaglio Rembrandt )
(dettaglio Rembrandt )

Il tema del volto di Cristo diventa leitmotiv nella vicenda dei missionari gesuiti in Giappone nel XVII secolo raccontata nel bel romanzo di Shusaku Endo, Silenzio, di cui da tempo attendiamo la versione cinematografica di Martin Scorsese. Questo volto amato ha accompagnato il protagonista da sempre, forse ancor più per la mancanza di informazioni: “mentre parlo con loro, spesso mi viene alla mente il volto di colui che pronunziò il Discorso della Montagna, e immagino la gente seduta o in ginocchio accanto a lui, affasciata dalle sue parole. Quanto a me, forse il suo volto mi affascina a dismisura, proprio perché le Scritture non ne parlano affatto. Poiché non ne viene fatta parola, ogni particolare è lasciato alla mia immaginazione” (p. 49).

Durante le persecuzioni contro i cristiani è a quel volto a cui il prete ricorre per sopportare gli affronti: “il volto di quell’uomo lo inseguiva come un’immagine vivida, vivente. Il Cristo sofferente! Il Cristo della sopportazione! Nelle profondità del cuore pregò perché il proprio volto potesse avvicinarsi al volto di quell’altro uomo” (p. 171).

Ed è infine l’immagine di quello stesso volto che gli verrà chiesto di calpestare nel gesto di apostasia che solo potrà salvare altri cristiani dalla morte: “vorrebbe premersi sul volto quel volto calpestato da tanti piedi… il prete solleva il piede… ora egli calpesterà ciò che ha considerato la cosa più bella della sua vita, ciò che ha ritenuto più puro, ciò che riempie gli ideali e i sogni di un essere umano” (p. 183). Ma è da quell’immagine che, dopo il lungo silenzio durato tutto il romanzo, Cristo infine gli parla invitandolo a calpestare: “Calpesta! Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Calpesta! Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini! Ho portato la croce per condividere il dolore degli uomini” (183-4).

Dimesso, bello, amato o da calpestare, il volto di Cristo – qui ritratto attraverso brevi saggi di scrittura letteraria – si mostra ancor più inesauribile, indicibile, ineffabile. Ma non per questo si potrà mai smettere di immaginarlo, ritrarlo, raccontarlo.

( Mandylion )
( Mandylion )

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Giuseppe Berto, La gloria, BUR contemporanea, Milano, 2014 (prima ed. 1978)

Michail Bulgakov, Il maestro e Margherita, Mondadori, Milano, 2014, p. 21 (prima ed. 1966)

Shusaku Endo, Silenzio, Corbaccio Garzanti, Milano, 2013 [prima ed. 1966]

 

 

La Resurrezione di Gesù a Ivrea

La Resurrezione di Gesù” affresco di Martino SPANZOTTI nella Chiesa di San Bernardino a Ivrea (TO) -1485

 

Scritto da NORMA ALESSIO

Il momento della Resurrezione di Gesù non è raccontato nelle Sacre Scritture, vengono solo descritti i suoi effetti: la pietra rotolata, la tomba vuota, le apparizioni, così che gli artisti di ogni tempo lo hanno liberamente interpretato oppure hanno eseguito quanto richiesto dai committenti. La Resurrezione probabilmente non viene raffigurata prima del XII secolo, quando compaiono le donne al sepolcro lasciato vuoto, senza Gesù, che invece compare dal XIII secolo; da questo momento si sviluppa il nucleo drammatico e la scena è arricchita di particolari come i soldati posti a guardia, ma addormentati e riversi da una forza soprannaturale.

A differenza degli artisti orientali che hanno rappresentato la resurrezione come significato salvifico in cui Gesù, risorto con il corpo glorioso, scende agli inferi per liberare gli spiriti prigionieri, gli artisti occidentali mettono in luce il momento dell’uscita dal sepolcro, anche se questo non è citato nel Vangelo. Questa scena, soprannaturale in sé, deve trovare dei modi di rappresentazione reale per spiegare quanto è avvenuto senza discostarsi dalla verità: abbiamo così la scena di Gesù che esce dal sepolcro librandosi nel cielo come per una liberazione di energie, la più frequente, oppure Gesù che “emerge” dal sepolcro e appare ancora con corposa fisicità terrena.

Elemento simbolico pressoché sempre presente in tutti i dipinti con questo soggetto è lo stendardo con la croce, sorretto da Gesù risorto e, vicino al sepolcro, i soldati messi a guardia in numero e atteggiamenti diversi. In alcuni casi vi è anche l’angelo che avrebbe rimosso la pietra del sepolcro (Mt 28,2).

Martino Spanzotti a Ivrea raffigura, probabilmente nel 1485, sul tramezzo che separa il presbiterio dall’aula liturgica della Chiesa di San Bernardino, nel ciclo di affreschi sulla Passione di Gesù, in un unico riquadro tre diversi momenti salienti degli ultimi istanti della passione di Gesù. Tutti riconducono al tema della Resurrezione, ma se li confrontiamo con i Vangeli non troviamo la precisa corrispondenza. Infatti quello principale è tratto dal racconto di Matteo (28,4): per lo spavento che ebbero di lui [l’angelo del Signore, che qui non è raffigurato] le guardie tremarono tramortite; al posto dell’angelo però è presente Gesù benedicente, con nimbo cruciforme riferimento dell’evento pasquale (morte e resurrezione) con solo la ferita nel costato, caratteristica tangibile del Risorto accennata da Luca, che non esce del sarcofago, ma è di nuovo “fisicamente terrestre” con i piedi poggiati saldamente a terra ed è davanti ad una roccia, forse il sepolcro. Lo stendardo, completamente bianco, segno della vittoria sulla morte, è privo del simbolo comune della croce, che viene invece ripreso nella raffigurazione delle tre croci sul calvario, sullo sfondo. In lontananza una città con dei campanili o torri, cenno all’attualizzazione dell’avvenimento e le tre donne, che si stanno avvicinando al sepolcro reggenti ognuna un vasetto di unguenti: il loro nome è citato sia in Marco che in Luca: per il primo sono Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome; per il secondo, sono Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo.

La preoccupazione dell’artista è stata quella di passare attraverso un linguaggio semplice per comunicare il messaggio evangelico, altrimenti incomprensibile alle menti dei semplici, contribuendo a far diventare la bibbia la “biblia pauperum” ossia di coloro che non avevano ricevuto un’istruzione e che, non potendo leggere, dovevano accontentarsi di guardare le immagini, imparando da esse.

 

Il potere dell’assenza

Scritto da Gian Luca CARREGA

Forse sono passati i tempi in cui Nanni Moretti si chiedeva: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”, ma le assenze continuano ad avere il loro peso. Perché gli assenti potrebbero anche avere torto, ma di certo a volte assumono un rilievo fondamentale nella trama di una narrazione. E i vangeli non fanno eccezione. La centralità di Gesù come protagonista assoluto del racconto è garantita dal fatto che in sua assenza la trama non può procedere. Se ci sono eccezioni, bisognerà considerarle con grande attenzione. L’evangelista Giovanni fa ruotare ogni situazione e ogni dialogo attorno a Gesù, ma si concede una breve pausa nella guarigione del cieco nato (capitolo 9) in un episodio particolarmente prolungato, nel quale Gesù riveste il solito ruolo di mattatore al principio, discutendo coi discepoli sulla teologia del peccato e poi sanando il poveraccio. Da questo momento esce di scena lasciando solo l’ex cieco a vedersela dapprima coi curiosi e poi con le autorità giudaiche, salvo poi ricomparire nel finale per tirare le somme. Diversamente da altri racconti di guarigione, qui il risanamento è solo un aspetto iniziale della vicenda, che poi si dilunga sul significato del gesto e, ovviamente, sulla vera natura di colui che lo ha operato. Ora, tutte le vicissitudini a cui il risanato va incontro (confronto all’americana coi suoi genitori per provare che davvero era cieco, onere di dimostrare che veramente le cose sono andate come ha detto, ecc. ecc.) non potrebbero verificarsi se Gesù restasse nei paraggi. L’uomo avrebbe potuto scaricare su Gesù la “colpa” di essere stato guarito ed esimersi dal prendere posizione. E invece è proprio l’assenza di Gesù a responsabilizzarlo, a fare di lui un uomo che deve riflettere sull’accaduto e schierarsi pro o contro Gesù.

Passiamo a un secondo caso, l’assenza dei discepoli nell’incontro fra Gesù e la samaritana (Gv 4,1-42). Il loro allontanamento per andare a fare provviste sembra secondario rispetto a quello del protagonista, ma in realtà il loro compito è quello di fare da testimoni degli eventi e delle parole della vita di Gesù. Dato che erano assenti, come facciamo a sapere cosa si sono detti Gesù e la samaritana? Certo, la samaritana, divenuta credente in Gesù, potrebbe avere riferito questo dialogo alla chiesa nascente e così se ne sarebbe tramandata la memoria. Ma è una questione che non sembra sfiorare il narratore onnisciente del Quarto Vangelo. Ciò che gli interessava era allontanare dalla scena i discepoli perché la loro presenza risultava ingombrante. L’incontro fra Gesù e la donna di Samaria avviene presso un pozzo, un cliché ben noto alla Scrittura che ambienta spesso in queste circostanze l’incontro tra due futuri sposi. Perché si mantenesse questa connotazione erotica era necessario far sparire i discepoli, che altrimenti avrebbero fatto la figura degli indiscreti e avrebbero messo in imbarazzo i protagonisti.

L’ultimo caso di assenza che prendiamo in considerazione è quella dei familiari di Gesù in occasione della sua sepoltura. Sappiamo che il Quarto Vangelo è meno drastico circa l’abbandono di Gesù da parte dei suoi familiari rispetto ai sinottici, in particolare Marco. Sua madre è presente sotto la croce e il Discepolo Amato pare essere incorporato nella famiglia di Gesù (Gv 19,25-27). Tuttavia né l’una né l’altro sono menzionati al momento della sepoltura di Gesù e questo è un dato abbastanza significativo perché l’onere della sepoltura spettava ovviamente ai familiari del defunto. Anche qui l’impressione è che l’assenza dei familiari sia necessaria per permettere a due discepoli sui generis, Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, di compiere il pietoso ufficio che in un certo modo sancisce il nuovo legame familiare che lega Gesù ai suoi discepoli.