L’adorazione dei Magi

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

 

Adorazione dei Magi di Martino Spanzotti - Ivrea
Adorazione dei Magi di Martino Spanzotti – Ivrea

I Vangeli della Natività hanno sempre suscitato notevole interesse anche dal punto di vista artistico. Nel medioevo erano normalmente inseriti nei cicli della passione, quali episodi significativi della venuta di Gesù.

Gli artisti del passato hanno saputo esprimere la loro fede in Dio attraverso la pittura rendendola una forte testimonianza spirituale, corrispondente al livello della cultura biblica del loro tempo. L’episodio su cui ci soffermiamo è quello dell’Adorazione dei Magi dipinto da Martino Spanzotti nel ciclo di affreschi del 1485 nel tramezzo della chiesa conventuale di San Bernardino di Ivrea.

Questa scena, come le prime raffigurazioni di questo soggetto, è molto semplice e vuole sottolineare il carattere simbolico del viaggio dei Magi verso il Bambino: infatti comprende solo la Madonna con il Bambino sulle ginocchia, ormai non più in fasce e i Magi corrispondente alla descrizione dell’evangelista Matteo, l’unico che descrive l’arrivo dei Magi: “Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra” (Mt 2,11).

Il testo ci parla della casa, non più quel luogo generico dove Gesù è nato, non è nominato Giuseppe né tantomeno la mangiatoia, il bue e l’asino, raffigurati dagli artisti solo raramente in questo episodio per la loro rilevanza teologica. Infatti, sulla scorta della profezia di Isaia 1,3 che dice «Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone, ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende», il teologo Origene ricollega questo brano alla nascita di Cristo, perché interpreta il bue, animale ritenuto puro, come simbolo degli ebrei e l’asino, ritenuto impuro, come simbolo dei pagani: solo questi ultimi sapranno riconoscere la greppia del loro padrone.

Nello schema iconografico consolidato delle Adorazioni, dietro Maria è sempre presente Giuseppe che invece manca nel dipinto di Martino Spanzotti, così come nell’Adorazione dei Magi del pittore tedesco Albrecht Dürer.

Adorazione dei Magi di Albrecht Dürer – Firenze
Adorazione dei Magi di Albrecht Dürer – Firenze

Questa tavola d’altare del 1504, forse parte di un polittico, conservata nella Galleria degli Uffizi di Firenze, attualmente esposta a Milano nel complesso museale dei Chiostri di Sant’Eustorgio fino al 5 febbraio 2017, è citata in alcune fonti scritte con la presenza di San Giuseppe, descritto in piedi, dietro alla Madonna, accanto all’asino, che non trova riscontro neanche nella copia della Biblioteca Universitaria di Erlangen eseguita all’inizio del XVI secolo. Sembra che Dürer non abbia realmente dipinto San Giuseppe, ma che la sua figura potrebbe essere stata inserita nel periodo della Riforma cattolica (fine del XVI – inizio XVII secolo), poi nuovamente cancellata.

In origine, nell’iconografia paleocristiana di questo episodio, era presente un uomo, il profeta che indica la stella, in riferimento al profeta Balaam: «Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24,17) che poi dal V secolo viene identificato con la figura di Giuseppe.

Di grande importanza è l’origine orientale dei Magi, ricordata già in Mt. 2,1 “Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all’epoca del re Erode. Dei magi d’Oriente arrivarono a Gerusalemme”, ma

nell’affresco di Spanzotti sono di aspetto occidentale e contemporanei dell’artista. Il numero dei magi non è precisato nel vangelo di Matteo: il numero tre è stato fissato da Leone Magno nel V secolo, in funzione del numero dei doni. I doni dei Magi a partire dal II secolo hanno anche un significato simbolico, indicano la divinità di Gesù e il suo rango regale; tale contenuto per i cristiani del IV secolo era più importante della raffigurazione della nascita di Cristo con mangiatoia e relativi attributi, che infatti appaiono molto più raramente in questa scena.

Fin dal IV secolo è rappresentato un Magio inginocchiato; dall’XI secolo i Magi appaiono anche come “Re” per l’accostamento del testo di Matteo al Salmo 72: «I re di Tarsis e delle isole porteranno offerte; i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi. A lui tutti i re si prostreranno, lo serviranno tutte le nazioni» così che alla fine del XIII secolo si diffonde tale raffigurazione e diventa classica l’immagine del primo Magio inginocchiato, a capo scoperto in atto di deporre simbolicamente la corona ai piedi del Bambino.

  • In copertina: A.Durer, Adorazione dei Magi, particolare

Il Natale di Giuseppe.

Scritto da  GIAN LUCA  CARREGA.

Indubbiamente l’annunciazione a Giuseppe (Mt 1,18-25) è un testo meno noto rispetto all’analoga scena che vede invece l’angelo recare l’annuncio a Maria (Lc 1,26-38). Nondimeno questa scena merita attenzione per la sua struttura narrativa, un sogno in cui un angelo porta Giuseppe a prendere una decisione che sarà fondamentale per il prosieguo del vangelo. Oggi, poi, siamo più attenti alle questioni psicologiche e, dato che il testo non riporta alcuna emozione da parte dell’interessato, è naturale che ci chiediamo almeno quanta consapevolezza avesse degli eventi che lo riguardavano.

 

Il lettore qui pare in una condizione privilegiata, perché già all’inizio della scena gli viene comunicato che Maria era incinta per opera dello Spirito Santo (v.18). Ma Giuseppe è a conoscenza di questo fatto? Qualcuno sostiene di sì. Per esempio l’esegeta francese Xavier Léon Dufour ritiene che nel messaggio dell’angelo non c’è la rivelazione di qualcosa che Giuseppe ancora non conoscesse. In tal modo il senso della comunicazione sarebbe: “Giuseppe, figlio di Davide, non avere paura di prendere con te Maria tua moglie, sebbene ciò che è generato in lei provenga da Spirito Santo” (v.20). Léon Dufour pensa che l’esitazione di Giuseppe non provenga da dubbi sulla moralità di Maria, ma che si senta imbarazzato dall’indegnità di partecipare ad un mistero tanto grande. Di conseguenza, Giuseppe già dall’inizio sarebbe sullo stesso piano cognitivo del lettore. Ma come faceva a saperlo?

 

Qui è difficile sottrarsi al sospetto concordista, cioè di riempire questo vuoto di Matteo con quello che dice Luca: Maria ha ricevuto questo messaggio dall’angelo e lo ha detto a Giuseppe. Il quale, a sua volta, avrebbe architettato l’escamotage di licenziarla in segreto per mettere tutto a posto e farsi da parte. È un’ipotesi ingegnosa e sintatticamente possibile nel testo greco, ma non priva di conseguenze. Se Giuseppe conosce già il mistero della nascita verginale, i suoi dubbi sono quelli di un uomo scrupoloso e non più quelli di un giusto tormentato dalla necessità di fare la scelta opportuna in una situazione intricata.

A Giuseppe sono già state tolte molte cose, lasciamogli almeno i suoi dubbi, che lo rendono un uomo di statura elevatissima.

 

In copertina: Giotto, Cappella degli Scrovegni (PD), ” Particolare della natività”

Il quadro nella sua cornice

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA

Una parabola è un racconto che, di per sé, potrebbe anche vivere di vita autonoma, come un aforisma. E in effetti ci sono brevi parabole che funzionano benissimo anche prescindendo dal contesto in cui vengono riportate. “Può un cieco guidare un altro cieco?” (Lc 6,39). Chiunque si rende conto a prima vista, è il caso di dirlo, che il senso di questa metafora è invitare a guardarsi da presunti maestri che non hanno una conoscenza superiore ai loro discepoli e per tale motivo rappresentano un pericolo. Si può applicare alla situazione dei discepoli di Gesù come a infinite altre senza snaturare il senso della metafora e senza perderne l’efficacia. Ma altre storie ugualmente brevi corrono il rischio di essere alquanto criptiche. “Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e afferrare i suoi beni se prima non lo lega” (Mc 3,27). Il senso generale è abbastanza palese, ma qui viene subito il dubbio di quale possa essere il contesto di applicazione. Ed è soltanto leggendola dopo alcuni episodi di esorcismo che comprendiamo il riferimento all’azione di Gesù che, dopo aver sconfitto Satana, può restituire la libertà e la dignità agli uomini che erano stati da lui posseduti.

Per le storie più elaborate, che presentano anche un abbozzo di trama, la situazione si presenta simile. Esistono racconti che hanno in sé un valore esemplare e che permettono all’ascoltatore una facile identificazione perché i personaggi incarnano o sono rappresentanti di valori universali. Nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,19-31) ci sono alcuni aspetti che possono sfuggire a chi non abbia dimestichezza con l’ambiente del tempo di Gesù, espressioni enigmatiche come “seno di Abramo”, ma la dinamica è abbastanza chiara: la mancanza di compassione verso il bisognoso in questa vita viene punita nell’aldilà. Se però prendiamo la parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-12). È una storia apparentemente irrazionale, dove un padrone che ha inviato i servi a riscuotere dagli affittuari e se li vede tornare malconci pensa di mandare il suo figlio unico in mezzo a quella masnada. Quale padre si comporterebbe in questa maniera? Eppure la parabola gioca proprio su questo aspetto paradossale. Dio è un padre pronto a sacrificare il Figlio pur di riportare alla ragione coloro a cui ha affidato il suo popolo (la vigna), ma data la reazione a quest’ultima opportunità toglierà loro questo privilegio. Lo scopo della parabola è raggiunto perché l’evangelista commenta a proposito delle autorità religiose: “Avevano capito che aveva detto quella parabola contro di loro” (Mc 12,12). Naturalmente una parabola come questa può parlare anche agli uomini del nostro tempo, ma occorre stare molto attenti da indebite attualizzazioni.

Giuseppe il giusto

Scritto da MARIA NISII

I giusti
Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del sud giocano in silenzio agli scacchi.
Il ceramista che premedita un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.
(Jorge Luis Borges)

   giuseppe

La riscrittura può essere anche rilettura e riposizionamento di un personaggio o di una vicenda già nota in una nuova modalità per scoprirne l’effetto, altri possibili itinerari, riprese nell’oggi di chi legge, semplice slittamento del punto di vista. Il racconto di Silvana De Mari, Giuseppe figlio di Giacobbe, fa propria la possibilità di rinarrare un personaggio, a cui la storia biblica non ha lasciato molto spazio, in una riscrittura che si potrebbe definire “classica”, per il fatto di essere essenzialmente tesa a integrare il non detto delle Scritture, centrandola sulla figura di Giuseppe prima e dopo la notizia della gravidanza di Maria.

Il personaggio del padre putativo di Gesù ha stimolato l’interesse e la fantasia di molti autori, proprio per l’esiguità delle informazioni che lo riguardano, racchiuse in pochi versetti in soli due vangeli. A partire dagli apocrifi, la fioritura della letteratura che lo ha riguardato, ha persino contribuito a farne oggetto della devozione popolare. Le riscritture più recenti (Pasquale Festa Campanile, Ferruccio Ulivi, JanDobraczynski, Erri De Luca) invece ne ritraggono soprattutto la normalità, quasi estranea e inconsapevole alla vicenda a cui dà il proprio assenso. Il Giuseppe ritratto da De Mari è così un giovane innamorato – come giovane è pure detto nell’introduzione esegetica, sebbene dell’età di Giuseppe non si possieda alcuna informazione e gli apocrifi lo presentino come vedovo e anziano.

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Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, 1595-6

Dunque riletture senza fine, l’una dentro l’altra, che ogni tanto sembrano persino richiamarsi, come il riferimento al supplizio della croce (presente sia in De Mari che in De Luca), la cui immagine riaffiora più volte nella mente tormentata di Giuseppe.

“Giuseppe era un giusto. Si aggrappò a quello. Aveva solo la Legge. Gli restava il rispetto della Legge. Tutto il resto ea annientato, di tutto il resto era orfano, ma il rispetto della Legge restava sempre.” (De Mari, Giuseppe figlio di Giacobbe, 44).

Se dello sposo di Maria si sa ben poco, quel poco è sufficiente a condensare il suo essere attorno all’attributo che lo accomuna ai grandi di Israele: Giuseppe è un giusto, come viene sovente ricordato e dunque anche le sue scelte lo saranno, modellate sulla Legge, ultimo baluardo inespugnabile nel momento in cui la terra è stata profanata dall’occupante straniero. Come Giuseppe è “giusto”, Maria è “piena di grazia” e il suo riflesso le si spande attorno, avvicinando misteriosamente a Dio coloro che le sono prossimi. In dono di nozze lo sposo le regala un manto colore del cielo, con il quale l’autrice, assieme agli attributi scritturistici indicati, sembra voler rendere riconoscibili i suoi personaggi rispetto all’immaginario tradizionale, dal quale ogni riscrittura inevitabilmente poco o tanto si discosta. Il lavoro di rielaborazione e ampliamento è qui soprattutto interessato alla reazione del protagonista di fronte la notizia della gravidanza; reazione descritta come uno stato di annichilimento, che interrompe nell’uomo ogni prospettiva di bene e di giusta normalità. Neanche De Mari risparmia le sue domande a Dio, come se si trattasse di un’occasione ghiotta per non lasciarsi scappare il proprio livore contro tutta l’incomprensibilità del mondo, a cui nessuna fede sembrerebbe capace di dare una risposta accettabile.

Ma infine è il deserto il luogo dove si capisce il valore dell’acqua, “il luogo in cui, restando solo con la propria ombra, un uomo trovava la strada” (88). Ed è lì che Giuseppe comprende la propria, rilanciando a noi il valore del deserto nel bel mezzo dell’Avvento – apparentemente fuori tempo (liturgico), eppure spazio per eccellenza nella storia di fede di ciascuno.

 

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(Raffaello, Sposalizio della vergine, 1504)

Da L’infanzia di Maria – De André

… e Zaccaria, il gran

sacerdote, disse a Giuseppe:

“La sorte ti ha affidato la

vergine del Signore, abbine

cura e custodiscila”

E fosti tu, Giuseppe,

un reduce del passato,

falegname per forza

padre per professione,

a vederti assegnata,

da un destino sgarbato,

una figlia di più

senza alcuna ragione,

una bimba su cui

non avevi intenzione.

E mentre te ne vai,

stanco d’essere stanco,

la bambina per mano,

la tristezza di fianco,

pensi “Quei sacerdoti

la diedero in sposa

a dita troppo secche

per chiudersi su una rosa,

a un cuore troppo vecchio

che ormai si riposa”. Secondo l’ordine ricevuto, Giuseppe

portò la bambina nella propria casa

e subito se ne partì per dei lavori

che lo attendevano fuori della Giudea.

Rimase lontano quattro anni.

https://www.youtube.com/watch?v=68HO5EIhBGQ

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(Giotto, Sposalizio della vergine, 1303-5)

In nome della madre

Scritto da MARIA NISII

 

“Dalle mie parti quando si fanno delle porzioni disuguali si usa dire: ‘Tutto a Gesù e niente a Maria’. La frase ha un suo fondamento: le scritture sacre, specie nell’avventura della natività, sono sbilanciate nella distribuzione dei ruoli. Il figlio splende di suo oltre che per la scorta di una stella, Giuseppe prende alcune decisioni difficili ispirato in sogno da opportune istruzioni angeliche; Maria invece è un corpo prestato dalla natura alla provvidenza” (Erri De Luca, Nocciolo d’oliva, 23)

Piero della Francesca, Madonna del parto, 1450-70
Piero della Francesca, Madonna del parto, 1450-70

Con una preoccupazione simile agli apocrifi dei primi secoli della cristianità, la letteratura riscrive la Scrittura in parte anche per riparare a quello che ritiene essere un torto dei testi originari, che nel nostro caso sbilanciano tutta l’attenzione sul figlio, lasciando in disparte la madre. La citazione in apertura suona come una sorta di antefatto del successivo In nome della madre che “riequilibra” i ruoli, concentrando l’attenzione su Miriam/Maria – a partire dall’annunciazione e, a seguire, con la rivelazione a Josef della gravidanza, il matrimonio-scandalo, la partenza a Betlemme per il censimento e infine il parto.

Un testo diviso in “stanze” come una ballata, che dona centralità alla figura della madre nella versione inedita di giovane donna innamorata del suo Josef (“bello e compatto da baciarsi le dita”, 17), dominata da una calma nuova che la rende tanto forte da sopportare le conseguenze del suo stato, ma anche presa da una grande gioia: “una festa per quella nicchia in corpo che mi faceva madre senza aiuto di uomo” (19). Miriam sente che non appartiene più alla legge, che invece inquieta Josef. Ma a dispetto della legge e della tradizione degli uomini, lui le crede, “crede nella versione inverosimile di quella gravidanza. La verità è spesso inverosimile e ha bisogno di entusiasmo per essere detta e creduta. Josef crede a Miriam per amore e in amore credere non è cedere, ma aggiungere manciate di fiducia ardente” dirà in un testo successivo (Le sante dello scandalo, 43-4). Per questa fiducia Josef sfida la legge e la gente del villaggio, suscitando uno scandalo che viene descritto con le tinte forti del dramma napoletano: “le donne sputavano dietro il mio passaggio… ai loro insulti tiravo più dritta la schiena, più in fuori la pancia… avevo paura del loro malocchio” (29). La forza dei due nasce dal grembo di lei, con cui la giovane intrattiene un dialogo intessuto delle note liriche più alte del testo: “sei stato messo dentro di me da un fiato di parole, non da un seme. Sarai pieno di vento” (33).

Sandro Botticelli, Madonna del libro, 1480-1
Sandro Botticelli, Madonna del libro, 1480-1

Come gli invitati a nozze che rifiutano l’invito nella parabola evangelica (Mt 22), al di fuori dei parenti stretti nessuno si presenta alla festa del loro matrimonio – De Luca qui sembra voler costruire un parallelo tra i genitori e il figlio, presente anche ne La faccia delle nuvole: “Il loro figlio un giorno dirà: “Chi è senza errore tiri la prima pietra”. L’ha imparato in famiglia. Josef non l’ha tirata” (12) e sempre Josef, remissivo di fronte alla necessità del censimento, dichiara: “Diamo a questo Cesare il suo e teniamoci quello che non può levarci” (In nome, 50). Un principio che ispira anche il film di Guido Chiesa Io sono con te (2010), in cui Maria è presentata come anticipatrice (o precorritrice) del figlio – come lo è pure nel racconto di De Luca agli occhi di Josef: “per loro tu sei pietra d’inciampo, per me sei la pietra angolare da cui inizia la casa (40). Ma i paralleli tra il testo delucano e il film di Chiesa non finiscono qui – impossibile non richiamare infatti la disarmante sicurezza dipinta sul volto della giovane attrice tunisina, Nadia Khlifi, con quella della Miriam delucana, a proposito del parto che dovranno affrontare da sole durante il viaggio: “Sarà la cosa più facile del mondo, madre mia. Una vita si annida, cresce e poi trova l’uscita” (41).

iostoconte

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Erri De Luca, Nocciolo d’oliva, Edizioni Messaggero, Padova, 2002

  • In nome della madre, Feltrinelli, Milano,2016 (prima ed. 2006)
  • Le sante dello scandalo, Giuntina, Firenze, 2011
  • La faccia delle nuvole, Feltrinelli, Milano, 2016

 

Il giudizio finale

Scritto da NORMA ALESSIO.

Uno dei temi più importanti per un cristiano è quello riguardante la morte e cosa troverà nell’aldilà. Il tema è così coinvolgente da aver ispirato la fantasia dell’uomo medievale. Anche nella predicazione di quel periodo viene data concretezza a quello che si può immaginare essere il luogo dove la vita continua dopo la morte. Nel corso del Medioevo si definì una sorta di concetto geografico dell’aldilà, con la considerazione dell’inferno come luogo nel quale si trovano le anime dannate in eterno, e si diffuse la dottrina del contrappasso, secondo cui le pene inflitte rispecchiano le colpe. Gli artisti, inserendoli nel contesto più ampio della rappresentazione del giudizio finale, immaginarono ogni genere di tormento e tortura nelle punizioni irrogate a coloro che si rendevano colpevoli dei cosiddetti vizi “capitali”, in quanto davano origine a tutti i peccati nei quali poteva cadere l’uomo, come ammonisce San Giovanni: “poiché tutto ciò che vi  è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, lo sfarzo della ricchezza, non è dal Padre, ma dal mondo” (1Gv 2,16). Dalla concupiscenza della carne derivano la lussuria e l’intemperanza, della concupiscenza degli occhi l’avarizia, dalla concupiscenza dello spirito (che Giovanni chiama lo sfarzo della ricchezza) derivano la vanagloria, l’accidia, l’invidia e l’ira. In questo modo si voleva provocare il fedele per un incitamento alla conversione e quindi trovare in esso i propri modelli di comportamento.

All’interno della Cappella cimiteriale di San Fiorenzo, in provincia di Cuneo, a Bastia Mondovì, sulla parete a destra è raffigurato un “giudizio finale” risalente al 1472 e attribuito a Tommaso BIAZACI, che si compone di alcune scene ricche di simboli e allegorie di cui, senza la conoscenza del loro significato e senza un confronto alla luce delle sacre scritture, non è possibile comprendere il messaggio.

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La scena a sinistra rappresenta una città, riconoscibile dalle mura merlate e dalle torri, che si associa alla Gerusalemme celeste, città santa, secondo i testi di San Paolo e San Giovanni nell’Apocalisse (21,2): «vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, discendere dal cielo da presso Dio, preparata come una sposa adorna per il suo sposo» ; «la città ha un muro grande e alto, con dodici porte sormontate da dodici angeli e recanti i nomi scritti delle dodici tribù dei figli di Israele » (21,12).

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In questo dipinto la descrizione non è cosi fedele, la porta è in realtà una sola ed è custodita da San Pietro, all’interno delle mura, al centro vi è Maria, inginocchiata con l’atteggiamento di sottomissione e di preghiera come nelle annunciazioni, che viene incoronata per mano di Dio padre e del figlio Gesù. Entrambi sono riconoscibili dai segni: il primo che tiene in grembo il globo crucigero, segno della supremazia di Cristo sul mondo con in testa una tiara, simbolo della sovranità, mentre il secondo chiaramente più giovane con l’aureola crucifera, il segno che sempre lo individua, che trattiene con la mano sinistra una canna d’oro, come lo scettro segno di potere, oppure più verosimile legata alla simbologia del giudizio, citato sempre nell’Apocalisse (21,15-16) che serviva a misurare la città. Attorno vi sono angeli, musicanti, santi, patriarchi, martiri, riconoscibili dalle scritte identificative o dagli attributi.

Al di sotto delle mura merlate in un riquadro è la sequenza delle sette Opere di Misericordia corporali.

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La lista delle sette opere di misericordia venne stabilita probabilmente nel XII secolo, in riferimento al Nuovo Testamento: vestire gli ignudi, dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, mentre la settima quella di seppellire i morti è tratta dal libro di Tobia.. Solo l’evangelista Matteo (25, 35-46) le presenta ” perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”

In questo caso è da notare l’assenza dell’opera di misericordia dedicata a dare ospitalità ai pellegrini, sostituita da una donna che allatta in segno di carità.

Le sette scene delle opere di misericordia evidenziano con il simbolo dell’aureola di Cristo dipinta sui personaggi che ricevono la misericordia, le parole dette da Gesù in Matteo (25, 46)  “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me…. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”

A destra del Paradiso è il riquadro dell’Inferno: è una grande caverna destinata ai dannati.

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Al centro è Satana: un essere mostruoso, seduto sui corpi degli uomini della legge, avvocati e procuratori, sacerdoti della giustizia, ma per la gente comune coloro che creano ingiustizia. L’intorno è circondato da demoni che puniscono i dannati che rappresentano i vizi capitali, con lo scopo di rendere chiaro al fedele cosa spetta al peccatore, rivelando infatti l’orrore dei castighi e suscitando la volontà di sfuggirvi e portare il credente sulla retta via della penitenza. In basso sono raffigurati i vizi capitali: sette personaggi allegorici legati da una lunga catena e trascinati nella bocca del Leviatano, un mostro citato nel libro di Giobbe che ostacola il dialogo con Dio, in un’azione simile a quella del diavolo. Il corteo ha inizio con la Superbia, un orgoglioso sovrano, con la corona in testa, a cavallo di un leone; l’Avarizia, vestito da straccione, ma con in mano il denaro accumulato, a cavallo di un bianco levriero con la collottola e un osso in bocca; la Lussuria, a cavallo di un sensuale caprone, impersonata da una donna elegante, con un abito a fronzoli e un curioso copricapo, che si ammira nello specchio e tira su maliziosamente la gonna mostrando le calze rosse e la coscia bianca; l’Invidia, a cavallo di un leopardo, che indica con un dito i vicini, oggetto della sua maldicenza; la Gola, a cavallo di un avido lupo tracanna vino da una brocca; l’Ira che si trafigge la gola con un pugnale e cavalca un lupo; l’Accidia, un uomo a cavallo di un asino indolente. Alla testa del corteo è un diavolo che guida questa danza macabra suonando e cantando con le parole: «O infelices peccatores venite ad choreas Tararirara» e introduce i dannati all’inferno.

Il Purgatorio, che non compare nelle sacre scritture, è immaginato in un luogo intermedio tra Inferno e Paradiso. Sei cavità quadrate mostrano il buio e le fiamme sottostanti dove stanno temporaneamente peccatori che, nel gesto della preghiera a mani giunte sperano nella salvezza. Le anime sono poi accolte in Paradiso da un angelo che si affaccia dalla torre, mentre l’angelo di guardia sulla torre di destra della città celeste pronuncia la sentenza di dannazione: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli.

 

Una “Bibbia apocrifa”

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

 

Nei piccoli libri della collana Scrittori di Scrittura, finora arrivati a dodici, ogni scrittore è  liberamente partito da una suggestione del testo biblico, e le ha dato corpo.  Per fare degli esempi, Silvana De Mari ha riscritto l’annunciazione vista dagli occhi di Giuseppe ; Elena Loewenthal ha affrontato l’annunciazione a Sara, moglie di Abramo. Elena Varvello racconta la storia di un Giobbe contemporaneo, un uomo tartassato dagli eventi che cerca un motivo di ripartenza, mentre Bruno Gambarotta rilegge il personaggio di Saul in chiave umoristica, di un umorismo drammatico. Nel caso di  Gianluigi Ricuperati è stato scelto il tema della ricchezza, raccontando di un prete che ha una comunità di recupero per persone dipendenti dall’uso del denaro.

In questo modo, il testo biblico si mostra un testo attuale, pieno di spunti  interessanti anche per persone di oggi e per non credenti. Prendiamo il caso di Margherita Oggero: si è sempre dichiarata apertamente agnostica, ma non ha avuto nessun problema a lavorare sulla Bibbia. Di Margherita non mi ha stupito la leggerezza di scrittura che ha avuto nel ripensare il personaggio di Isacco – immaginato anziano, vicino alla morte, mentre fa un bilancio di tutta la sua vita – mi ha colpito invece la sua competenza sulla Scrittura. Elena Loewenthal ci ha regalato anche quella sua bella definizione della nostra iniziativa: infilarsi negli spazi bianchi della narrativa biblica. Cioè: partire da un testo sapendo che è volutamente lacunoso perché tu possa interagire con esso. Tutti i volumi sono un tentativo di risposta alla Parola che provoca.

C’è un arricchimento spirituale in questi testi. I volumi di Scrittori di Scrittura sono utili per il credente perché lo aiutano ad avere un approccio differente alla Bibbia. I suoi protagonisti smettono di essere personaggi-tipo, e assumono una loro tridimensionalità. Prendiamo ad esempio il Giuseppe di Silvana De Mari: non è il classico Giuseppe vecchietto e in balìa degli eventi, ma un giovane passionale, innamorato della sua ragazza e anche geloso. Con una lettura di questo tipo sentiamo che la storia sacra è una storia vera. Quando siamo lettori passivi, diventiamo pigri e ronziamo attorno ai soliti concetti e idee. Quando invece proviamo a raffigurarci le scene, scatta un processo d’immedesimazione.

La Scrittura ci parla anche attraverso questo. La storia sacra ci dice che anche la nostra storia è sacra, che noi viviamo un’esperienza in continuità con la Scrittura. Scherzando, abbiamo chiamato il nostro progetto una “Bibbia apocrifa”, e lo è, come di fatto lo è anche la vita stessa delle persone. Anche le nostre vite fanno parte di un progetto che non si è concluso con l’ultimo libro della Bibbia. Noi continuiamo a vivere vicende che sono guidate dallo stesso Spirito che ha animato la Scrittura. Le nostre esperienze sono un bacino per lavorare su ciò che il Signore ci ha detto tramite la Parola. Scrittori di Scrittura, oltre a dirci quello che il brano ha suggerito allo scrittore, mostra che ognuno di noi può riscrivere il testo biblico applicandolo alla propria vita.

In copertina:  Albrecht Dürer ,”Gesù tra i dottori” (dettaglio)

Una “Bibbia in uscita”.

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA

 

Alcuni anni fa, la Diocesi di Torino  aveva regalato ai preti giovani un anno di formazione con la scuola di scrittura Holden. Vi partecipai e ne venne fuori un tentativo di ri-narrazione di testi biblici che il regista Leo Muscato, responsabile del corso, aveva apprezzato. Mi spronò a proseguire, e il risultato fu che nel 2007 uscì un libretto intitolato Un tempo per ogni cosa, che metteva insieme  quaranta riscritture di brani dei Vangeli sinottici. Poi accantonai la cosa. Quando, tre anni fa,  mi fu affidata la Pastorale della Cultura della Diocesi, l’esperienza di quel libretto mi tornò in mente e pensai: “Se questo tentativo di riscrittura lo affidassimo a dei professionisti?”» Ne nacque il nostro progetto Scrittori di Scrittura.

 

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A ben vedere, Scrittori di Scrittura è il tentativo di metterci in ascolto gli uni degli altri: la Chiesa in ascolto dei “laici”, e viceversa. Ad alcuni è sembrato che volessimo svendere il patrimonio della Scrittura trattandolo come un libro qualunque. Il nostro punto di vista, invece, è accettare un confronto su dei testi che, siamo convinti, dicono qualcosa a tutti. La Scrittura può essere quel ponte su cui ci incontriamo grazie al suo valore narrativo. Io, da credente, farò vedere come essa aiuti la mia vita di credente. In quella parola c’è la Parola di Dio rivolta alla mia vita. Per il non credente è diverso. Da questo punto di vista penso che davvero il progetto svolga un servizio ecclesiale. Nel portarlo avanti siamo sereni, perché siamo consapevoli della forza della Scrittura. Non temiamo che possa essere “profanata”, anzi: in questo modo può trovare nuove vie che non avrebbe trovato se l’avessimo custodita troppo gelosamente. Nell’ottica della Chiesa in uscita, noi proponiamo una  Bibbia in uscita : in questo senso direi che è normale andare più verso chi è ai margini o fuori dalla Chiesa. Sono molte le persone curiose di sentire che cosa ha da dire la Chiesa, e che rimangono favorevolmente impressionate  sia da questo atteggiamento di dare carta bianca agli scrittori, senza condizionarli, sia da una Chiesa che non vuole tanto dettare norme quanto mettersi in dialogo.

Vale la pena ricordare come  il fenomeno della ri-scrittura sia esteso, soprattutto all’estero. In Italia si fa un po’ di fatica in più perché non c’è una vera cultura della Scrittura. Un piccolo contributo in questo senso il nostro progetto lo dà: quando uno legge il libro di Gambarotta su Saul, per dire, è  magari spinto a leggere il testo originale nel Primo libro di Samuele. C’è un vero e proprio “approccio narrativo” alla Bibbia: un metodo tra molti, buono sia a livello tecnico, per gli esegeti, che catechistico. Tra i suoi pregi c’è l’empatia suscitata nei lettori, utile per l’interiorizzazione della Parola. Questo infatti è un punto su cui tutti facciamo difficoltà: come arrivare a fare una lettura esistenziale della Bibbia? Come passare dal “cosa dice il brano” al “cosa mi dice il brano”?

Il nome di Dio

Scritto da Maria NISII.

 

“Per essere chiamato con molti nomi Dio disfece la torre, la grandezza posticcia di uomini ridotti a maestranze. Scelse di essere nominato in mille lingue perché non si esaurisse la ricerca. È ancora lì, alla superficie del caos” (Erri De Luca, Una nuvola come tappeto, Feltrinelli, ed. 2014, p. 18)

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Christian Bobin, poeta e narratore francese, ha composto una sequenza di 99 testi brevi (o se si preferisce versi o aforismi o riflessioni o, perché no?, preghiere), non a caso richiamando il numero dei “Bellissimi nomi di Allah” della preghiera mussulmana recitata con l’uso di un rosario (tasbiha, a 99 o 33 grani). Il Cristo dei papaveri (Editrice La Scuola, 2013) li raccoglie in un libretto, che scandisce ogni testo con il ritmo dell’impaginazione. Ogni pagina un pensiero, una domanda, la recitazione di un nome. Lo spazio vuoto attorno al verso diventa così pausa, il tempo lento del respiro che si addice a chi legge senza fretta, senza il bisogno di arrivare all’ultima pagina. Il Cristo dei papaveri si apre e si chiude, lasciandoci ogni volta con lo stesso stupore.

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Il nome è qui pregato in un canto d’amore: “Ti amo da far paura alle stelle” (V), “Ti amo più delle mie parole, più di tutte le mie parole: un nutrimento d’angeli è la tua parola (le pain des anges, il pane degli angeli, il pane eucaristico” (VII). Ma si tratta di un canto duro da ascoltare per gli uomini: “Quando ho detto loro che t’amavo, mi hanno risposto: ‘Chi credi di essere?’” (X). L’amante vive in mezzo a uomini dell’era degli occhi vuoti (XIII), perchè il loro non è più un vedere. L’amore invece attinge a una visione esclusiva: “Mi è capitato in vita ciò che accade solamente dopo la morte: ho aperto gli occhi, ho visto i visi oscurarsi e il tuo sole sorgere” (XXIII).

La mistica, si sa, non è mai andata a braccetto con le istituzioni religiose: “Quanto a quelli che ti festeggiano e ti incensano, non trascorrerebbero nemmeno un’ora di vita con te” (XXXV). Ma s’infiamma d’amore per l’amato, come preso dalla febbre di una passione: “Resuscitato dal tuo soffio, il mio cuore avverte una febbre tale da render gelose le foglie degli alberi, come se il tempo non fosse che una scottatura dell’anima” (XL). Per cui la felicità è segno della presenza che ormai abita in lui: “Quando sono felice, immediatamente so che sei tu…” (XLVIII) e che diventa apertura del cuore al mondo nello: “sfavillio dei papaveri” (LXIII) che siamo noi, lucenti e fragili, “che crescono… imprevedibili… nel bel mezzo dei giorni” (LXIV) e che è Dio stesso, “tanto fragile quanto questi papaveri che gli uomini, per il loro profitto, vogliono strappare dalla terra” (LXVI).

La fragilità espone Dio e l’uomo alla sofferenza e alla morte – “Ti uccido ogni volta che faccio gli occhi dolci al mondo. Spero di non renderti la vita troppo dura” (LI) – e non si trova “Nessuna parola al mondo che sia, in quel momento, all’altezza del nostro dolore” (LXXIX). Ma il rossore del papavero è il tocco della grazia allo “spirito del nostro cuore spento” (LXXXV) e fiamma d’amore (XCVII), come nel Cantico dei Cantici (8,6). Un amore esposto (al ludibrio degli uomini, alle nostre infedeltà) e perciò vulnerabile – proprio come il papavero:

“Hanno fatto di te un’immagine, hanno fatto di te un idolo, hanno fatto di te una Chiesa. Io, invece, faccio di te un papavero, il minuscolo stendardo dell’eterno, che fiorisce inaspettatamente e stupisce” (XCIII).

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I 99 (o 33) nomi di Allah

 

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Una “coroncina” di trentatré nomi nella forma poetica scarna, affine agli haiku, compone Marguerite Yourcenar – per un Dio colto nell’istante delle piccole grandi cose di ogni giorno…

1. Mare al mattino
2. Rumore dalla
sorgente nelle
rocce sulle pareti di
pietra
3. Vento di mare
a notte
su un’isola
4. Ape
5. Volo triangolare
dei cigni
6. Agnello appena nato
bell’ariete
pecora.
7. Il tenero muso
della vacca
il muso selvaggio
del toro
8. Il muso
paziente
del bue
9. La fiamma rossa
nel focolare.
10. Il cammello
zoppo
che attraversò
la grande città
affollata
andando verso la morte.
11. L’erba
L’odore dell’erba.
12. (disegno suo, come tanti asterischi, stelline)
13. La buona terra
La sabbia e
la cenere
14. L’airone che ha
atteso tutta
la notte, intirizzito,
e che trova
di che placare la sua
fame all’aurora
15. Il piccolo pesce
che agonizza nella gola dell’airone
16. La mano
che entra in
contatto
con le cose
17. La pelle – tutta la superficie del corpo
18. Lo sguardo
e quello che guarda
19. Le nove porte
della
percezione
20. Il torso
umano
21. Il suono di una viola o di un lauto indigeno
22. Un sorso
di una bevanda
fredda
o calda
23. Il pane
24. I fiori
che spuntano
dalla terra
a primavera
25. Sonno in un letto
26. Un cieco che canta
e un bambino invalido
27. Cavallo che
corre
libero
28. La donna
– dei –
cani
29. I cammelli
che si abbeverano
con i loro piccoli
nel difficile wadi
30. Sole nascente
sopra un lago
ancora mezzo
ghiacciato
31. Il lampo
silenzioso
Il tuono
fragoroso
32. Il silenzio
fra due amici
33. La voce che viene
da est,
entra dall’orecchio
destro
e insegna una canto.

 

Marguerite Yourcenar, I trentatré nomi di Dio

https://www.youtube.com/watch?v=VkPqqziaqLc

 

  • In copertina : Bruegel, Torre di Babele

Vestire i nudi

Scritto da Maria NISII

 

“Aveva qualcosa da dire: di perdonare loro, non i due condannati, ma tutti gli altri. Chiedeva alla divinità di assolvere gli assassini. E lui? Li aveva assolti ma non gli bastava. Doveva ottenere il perdono supremo… Dopo le parole del crocifisso il palo diventa una rampa di lancio alle generazioni. Dovevano essere dette da quella posizione. Non funzionano da una cattedra, da un palco. Si deve salire su un patibolo per dirle” (Erri De Luca, La natura esposta, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 32-33).

Quando l’anno liturgico dedicato al tema della misericordia è in gran parte alle nostre spalle, gradito sollievo da una certa ripetitività linguistica, è un romanzo a ridonare freschezza e aprire nuovi significati al termine. 

“La nudità agita le fibre più antiche della compassione… Cos’è la misericordia che provo davanti a questa figura? È una spinta improvvisa dentro il sangue… Non la conoscevo prima di ora. La imparo in questo momento… Davanti a questo moribondo nudo si sono commosse le mie viscere. Mi sento un vuoto in petto, una confusione di tenerezza, uno spasmo di compassione. Ho messo la mano sui suoi piedi, per riscaldarli.” (33-35)

Caravaggio, Opere di misericordia
Caravaggio, Opere di misericordia

 

Il protagonista che pronuncia queste parole di commozione di fronte a una statua è un artigiano che intaglia e scolpisce su legno e pietra e che per il fatto di abitare in un sito montano di frontiera si è trovato ad aiutare i clandestini che cercavano di oltrepassare il confine. Da questi ha preso il denaro pattuito, li ha accompagnati e poi ha restituito loro il maltolto. La sua vita semplice non ha bisogno di altri guadagni, come non cerca gli onori che la donna amata avrebbe voluto gli venissero riconosciuti per le sue doti artistiche. Per questa duplice ritrosia perde prima la donna e poi il villaggio di origine quando, divenuta nota la sua liberalità grazie al successo editoriale del romanzo autobiografico di un ex clandestino, entra in rotta con gli altri due che rendevano lo stesso servigio senza restituzione.

È un uomo in esilio – dal suo paese e dai monti che sono la sua casa – quello che,per mantenersi in un paese di mare dove si è infine fermato, viene incaricato del restauro di un crocifisso in marmo. Pur non essendo credente, vive questo lavoro in un vero e proprio atto di identificazione con quel corpo che gli ha suscitato un’immediata compassione. Così spegne il riscaldamento nella stanza di lavoro per sentire sul suo corpo il freddo che quel crocifisso nudo deve aver provato nella primavera palestinese di duemila anni fa – “anche questo contribuisce al desiderio di scaldarlo” (42).I colpi sul marmo rintronano nel suo corpo – “come se scalpellassi il mio bacino” (35): “la piccola opera da eseguire si va impossessando dei miei sensi. Vedo le cose attorno attraverso la sua feritoia… Strofino attorno ai fianchi, ore di attrito muto, mi avvinghio al suo corpo come un rampicante” (47). Si fa persino circoncidere per tentare un ulteriore avvicinamento – “un metodo Stanislavskij estremizzato” (65), commenta infatti un rabbino. Applica per sé la metafora della croce, dicendo di sentirsi “inchiodato” (83) quando si riconosce inadeguato di fronte alla richiesta di aiuto di un ragazzino. Come Gesù da Giuda, anche lui viene tradito, ma fino all’ultimo non riesce a guardar male la donna, pur nella consapevolezza del pericolo in cui lei l’ha cacciato e che per poco non gli è costato la vita.

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Nei tempi di pausa dal lavoro s’incontra con un rabbino, si ritrova a mangiare in taverna con un operaio algerino mussulmano e si confronta spesso con il prete che gli ha affidato l’incarico. L’artista si muove rispettoso e a equa distanza dai tre, un po’ come punto di intersezione e un po’ assumendo il meglio della saggezza delle loro fedi:“Siamo fatti per splendere come fanno i bambini. Dobbiamo manifestare con gratitudine i doni ricevuti” (81) è l’invito dell’operaio-predicatore a fare del restauro il suo capolavoro;“Facciamo così anche noi, quando leggiamo le pagine sacre. Seguiamo lenti, poi ci buttiamo su una parola per approfondirla, non sapendo perché proprio quella. Facciamo i gabbiani, andiamo sulla scia a racimolare” (95) spiega il rabbino, affascinato e meravigliato dall’attenzione all’opera che l‘uomo gli racconta.

L’immagine del crocifisso resta al centro delle discussioni che l’artista intrattiene con i tre e che inevitabilmente per il prete (originario dell’America Latina) implica parlare soprattutto di sé:“Credo nella verità di questa storia perché non poteva essere inventata. Credo alla sua verità che nel culmine è inverosimile e non fa compromessi con l’accettabile. Leggo i massimi scrittori e nessuno arriva alla temperatura della rivelazione. Per accoglierla non basta un lettore, ci vuole una catapulta di amore che va incontro. A quel punto si sperimenta anche il massimo timore” (63-4). Che cosa c’entri il timore con l’amore il protagonista qui sembra non capirlo. Ci arriverà alla fine, quando si avvicinerà alla statua prima togliendosi le scarpe, come Mosé nel roveto ardente, e poi il resto dei vestiti per raggiungere il massimo della mimesi con l’uomo della croce.Ma ora i brividi della nudità non sono più solo il segno della volontà mimetica, bensì del timore e tremore oramai raggiunto, l’unico atteggiamento necessario per accostarsi e compiere l’atto conclusivo. Il capolavoro a cui era stato chiamato e che l’ha segnato fin nella carne ha avuto bisogno di quest’ultimo gesto di compassione, la venerazione del non credente per quell’umanità denudata.

  • In copertina: Salvador Dalì, Le Christ de Saint Jean de la Croix ,1951.