Essere padre per sopravvivere alla fine del mondo.

Scritto da MARIA NISII.

“penso la paternità, ritenendo sia sempre adottiva. Non c’è paternità biologica nella vita umana: il padre non è lo spermatozoo; la paternità è dire: ‘sì, tu, sei mio figlio’, al di là del sangue, al di là della stirpe, al di là della biologia. Dove c’è questa assunzione di responsabilità: ‘Sì, tu sei mio figlio’, c’è adozione della vita, dunque c’è paternità. È per questo che Dolto diceva che noi abbiamo nel vangelo la figura più radicale di paternità in san Giuseppe, che dice sì al di là della biologia, che adotta la vita al di là della continuità di sangue” (Massimo Recalcati, La forza del desiderio, Ed. Qiqajon, Bose, 2014, p. 15)

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Un uomo e un bambino sulla strada. Un padre e un figlio. Di nessuno dei due è detto il nome, né altri nomi compariranno, neppure delle tante località attraversate. Le identità di luoghi e persone sono rarefatte, quasi irrilevanti. Ciò che conta è muoversi, spostarsi continuamente e proseguire il cammino, per non perdere la speranza, perché in gioco c’è la vita stessa.

Il mondo de La strada (romanzo del 2006 di Corman McCarthy) sopravvive alla fine del mondo che si è verificata qualche anno prima, quando una notte gli orologi si sono fermati per sempre. Una luce improvvisa e movimenti terrestri erano stati i primi segni; a seguire il fermo della corrente elettrica – prima conseguenza della fine e prima dipendenza da spezzare. Di lì a poco tutte le riserve di cibo sarebbero esaurite, “in breve tempo il mondo sarebbe stato popolato da gente pronta a mangiarti i figli sotto gli occhi, e le città dominate da manipoli di predoni anneriti che scavavano gallerie in mezzo alle rovine e strisciavano fuori dalle macerie in un biancheggiare di occhi e denti, reggendo reti di nylon piene di scatolame bruciacchiato, come avventori negli spacci dell’inferno” (137-8).

Il sole si è spento e la natura è morta, incenerita in seguito all’esplosione che ha messo fine – come già aveva dato inizio – alla vita sul pianeta. Le descrizioni della devastazione incontrata sulla strada dai due protagonisti ne cadenzano la storia, che narra il tentativo disperato di cercare qualcosa da mangiare e soprattutto un luogo più ospitale dove stare, meno freddo e possibilmente meno colpito dalle razzie degli uomini.

 

desolazione

Gli accarezzò i capelli chiari e aggrovigliati. Calice d’oro, buono per ospitare un dio (58): i capelli dorati del bambino, ultimo angelo di un mondo altrimenti senza dio, è l’unico spazio luminoso in un mondo invaso dal grigiore della cenere. Quando trova scampoli di stoffa l’uomo ritaglia delle mascherine per sé e il bambino, per proteggere entrambi da questa cenere invasiva che, quando piove, riga i loro volti di nero. La cenere è onnipresente e costantemente richiamata: è un mondo defunto quello che stanno attraversando. Lo stesso vento che la sparge nel nulla è lugubre – la morte si sta prendendo tutto lo spazio.

È così che fanno i buoni. Continuano a provarci. Non si arrendono mai (105): contro la legge spietata dell’homo homini lupus, il padre trasmette al figlio un’altra legge per reagire alla paura e alla disperazione che li paralizzerebbe, impedendo loro ogni movimento. Sulla strada infatti non si fanno begli incontri, sulla strada bisogna stare all’erta tutto il tempo e diffidare di tutto e tutti – ma, anche noi siamo sulla strada (115), gli ricorda il bambino, invitando il padre a una speranza di cui egli stesso è l’ultimo depositario della storia. Sperare e continuare il cammino, qui letteralmente e fuor di metafora, sono quindi un tutt’uno. E quando infine l’uomo è costretto a fermarsi, invaso dalla cancrena e dalla bronchite, consapevole che si tratta della sua ultima sosta, spinge il bambino a proseguire da solo: Devi andare avanti, disse. Io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare. Chissà cosa incontrerai lungo la strada. Siamo sempre stati fortunati. Vedrai che lo sarai ancora. Adesso vai. Non ti preoccupare (211).

L’uomo e il bambino sono l’uno il mondo intero dell’altro (5): l’uomo vive per il piccolo, la cui vita dà senso a quel continuo movimento in avanti. Il freddo li obbliga ancor più a stringersi l’uno all’altro, sotto le coperte di notte e i teli di plastica quando piove. E se non è possibile trovare un posto nascosto e non si può accendere neppure il fuoco per riscaldarsi nel freddo della notte, non resta che raccogliersi nel calore che i loro corpi malconci sono ancora capaci di trasmettersi vicendevolmente. La fragilità della vita in questo mondo devastato è percepibile al suo massimo grado nel bambino, magro ed esposto a ogni orrore. Ancor più scoperto per la possibilità non remota di restare orfano e solo un giorno o l’altro. Una possibilità che sembra farsi più reale quando rimangono senza scorte alimentari e, indeboliti, faticano a spostarsi.

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Dopo i tanti silenzi del bambino di fronte all’orrore incontrato o alle scelte dure del padre nel disperato tentativo di salvarlo, l’ultima richiesta dell’uomo prima di morire sarà di continuare a parlare con lui quando non ci sarà più (212). E il bambino non dimenticherà la promessa quando troverà accoglienza in una comune di buoni (217). Tra i lunghi silenzi, interrotti solo da dialoghi scarni ed essenziali, il romanzo si chiude sulla parola mistero: la rivelazione di quest’apocalisse non ha sollevato il velo neppure questa volta, ma conclude con una possibilità di futuro a dispetto di tutta la devastazione e l’orrore. Un nuovo immaginario della fine, mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti (217), in cui muoversi e mai smettere di camminare per capire e ripensare a Dio e all’uomo.

The Road

 

  • Corman McCarthy, La strada, Einaudi, Torino, 2010 [2006]
  • Versione cinematografica: The Road diretto da John Hillcoat, 2009
  • In copertina:Caravaggio, Riposo durante la fuga in Egitto, 1595-6

 

Sviste evangeliche.

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

Quandoque bonus dormitat Homerus dice il poeta latino Orazio nella sua Ars poetica. Se persino il pur bravo Omero ogni tanto si fa una dormitina, non c’è da stupirsi che anche gli evangelisti talvolta si distraggano e cadano in errore. Qualche volta lo sbaglio fa capolino a causa di una memoria storica imprecisa. È il caso abbastanza celebre di Mc 2,26, dove Gesù difende l’operato dei suoi discepoli rifacendosi a come agì il re Davide, collocando erroneamente l’episodio al tempo del sacerdote Abiatar invece che Abimelech. Un lapsus comprensibile, ma che non fa certo fare bella figura a Gesù nel corso di una disputa con esperti di Scrittura.

 

Eppure con Marco ci sentiamo di essere più indulgenti, perché sappiamo che i suoi mezzi espressivi sono piuttosto limitati e forse anche la sua cultura biblica. Ma con Luca, che si picca di essere uno scriba serio nel prologo del suo vangelo, ci aspetteremmo una maggiore precisione e invece anche lui si concede qualche libertà di troppo. Qui l’ambito non è tanto l’informazione errata, quanto l’incoerenza nella disposizione degli eventi o l’ambiguità nella sintassi. Presentando la figura di Giovanni Battista, Luca ci informa sul grande successo che ottiene presso il popolo con il suo battesimo e ci comunica che a causa della sua schiettezza viene incarcerato da Erode Antipa (Lc 3,20). Al versetto successivo ecco la notizia che tutto il popolo veniva battezzato e Gesù è tra questi: ma se Giovanni è in prigione, chi lo battezza?

 

Una curiosa ambiguità si genera anche durante la Passione. Pilato cede all’insistenza della folla che vuole la crocifissione di Gesù e lo consegna al loro volere. In Lc 23,26 viene quindi riportato che, mentre lo portavano via, fermarono un certo Simone di Cirene per obbligarlo a portare la croce di Gesù. Il soggetto non viene espresso e, secondo logica, dovrebbe essere l’ultimo di cui si è parlato, cioè la folla. Ma sappiamo bene che furono le milizie romane a svolgere questo compito, non la folla che agisce di sua iniziativa. Questa confusione poteva benissimo essere evitata aggiungendo il soggetto “i soldati”.

 

Concludiamo con l’evangelista Giovanni, a cui spetta la palma della svista più clamorosa. Il capitolo 11 è occupato per la maggior parte dall’episodio del risuscitamento di Lazzaro, che viene presentato come il fratello di Marta e di Maria, “quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi coi suoi capelli” (Gv 11,2). Colui che legge il testo per la prima volta trasale e si domanda se per caso abbia saltato delle pagine. Perché il fatto sarà narrato solo al capitolo successivo (Gv 12,1-8). Qui Giovanni dà per scontato che conosciamo qualcosa che racconterà solo in seguito e questo è certamente un errore nella costruzione della trama. Non possiamo essere sicuri di come si produsse questa svista, ma pare abbastanza certo che la trama di questo vangelo ebbe una storia piuttosto complicata, come rivela anche il fatto che Gv 14,31 ritiene concluso il discorso di addio di Gesù con l’invito a uscire dalla stanza, mentre in 15,1 il discorso prosegue come se nulla fosse cambiato rispetto a prima.

A SERIOUS MAN .

Scritto da DAVIDE BRACCO.

A SERIOUS MAN di Joel&Ethan Coen – Una rivisitazione nichilista de Il libro di Giobbe.

I fratelli Coen (produttori, sceneggiatori e registi dei propri lavori) da ormai più di trent’anni analizzano da sempre la miseria dell’uomo di fronte alla logica inafferrabile della realtà, nella consapevolezza dell’inutilità del raziocinio. Lo svuotamento di senso non è solo un tema astratto per i fratelli ma anche una connotazione stilistica forte, che li porta ad utilizzare i generi classici del cinema (il noir, la commedia) ma svuotandoli dei clichè, fino a renderli gusci vuoti dove innestare la propria visione del mondo.

Inevitabile appare quindi l’incontro dei Coen con il libro di Giobbe, capolavoro della letteratura universale e summa sulla ricerca di senso nelle azioni umane, in A serious man del 2009. Un film che fino dalla ambientazione si connota subito come personale e sincero per i due registi, ambientato nei luoghi della loro giovinezza nell’America del MidWest (Minnesota) della fine degli anni sessanta del secolo scorso.

Larry è un professore ebreo di fisica, la cui esistenza divisa tra scuola e lavoro precipita dopo una serie di accidenti che coinvolgono il suo mestiere (diffamato da anonimi), i suoi familiari (un fratello giocatore d’azzardo e pedofilo), i figli (indolenti e distratti) e una moglie infedele.  A queste disgrazie Larry oppone dapprima la sua condotta integerrima da serious man, ma la situazione precipita e non gli vengono più in sostegno la scienza (agli studenti insegna in una scena il principio di indeterminazione che disvela i limiti di conoscenza) né la religione, dopo aver inutilmente chiesto aiuto a tre rabbini della comunità.

Il film, fedele alla loro maniera, è piacevole nel suo svolgersi tra situazioni ridicole e farsesche in ossequio alla più classica comicità jewish, ma non concede spazio alla speranza finale quando morte e fine sembrano coincidere nell’approssimarsi di una grave malattia per Larry e di un violento tornado destinato ad imbattersi in paese.

Manca davvero una speranza in questo lavoro dove, diversamente dal testo biblico, non ha dimora la presenza di Dio, mai richiamato dagli stessi rabbini, incapaci di risposte chiare e bloccati dalla mera pratica rituale. Alla mancanza del prologo a Giobbe con la presenza di Satana, il film sostituisce uno squisito episodio iniziale recitato in yiddish da una coppia ashkenazita alle prese con un ipotetico dybbuk (uno spirito maligno). Dieci minuti di cinema nonsense che valgono da soli lo spettacolo.

Neverending stories.

Scritto da GIAN LUCA CARREGA

 

Le parabole che Gesù racconta nei vangeli sinottici sono un ottimo esempio di comunicazione interattiva con il suo uditorio.

Alcune di esse cominciano con una provocazione, con un appello che rivolge al suo pubblico. “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine?” (Lc 14,28). Altre volte l’invito ad intervenire fatto agli uditori è posto verso la conclusione della storia. Cosa farà il padrone della vigna con quei lavoranti che hanno bastonato i servi mandati a raccoglierne i frutti e per giunta gli hanno ammazzato il figlio? La risposta dei presenti è corale: “Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo” (Mt 21,41). Questa parabola è poi particolarmente efficace perché raggiunge esplicitamente i diretti interessati. Il commento conclusivo dell’evangelista è che “udite queste parabole, i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro” (Mt 21,45).

Accanto all’interazione con le persone in carne e ossa che ascoltano le parole pronunciate da Gesù, c’è un secondo piano narrativo, costituito dai lettori dei vangeli. Il loro coinvolgimento è soltanto parzialmente associabile a quello dei referenti diretti, ma avviene anche attraverso altri mezzi. Una di queste tecniche è il cosiddetto finale aperto, che consiste nel non dare la soluzione all’evento che è stato raccontato nella parabola. Il caso più famoso è probabilmente quello del figliol prodigo (Lc 15,11-32).

Qui abbiamo a che fare con una trama piuttosto elaborata, dove si intrecciano la storia del figlio ribelle, protagonista della prima parte, e quella del fratello disciplinato, descritto nella seconda. Il padre è il personaggio che fa da mediatore tra queste due figure che non si incontrano. Il figlio lavoratore si dichiara totalmente refrattario all’idea di prendere parte ai festeggiamenti che il padre ha imbandito per il ritorno a casa dell’altro figlio. Per questo il genitore gli esce incontro (come aveva fatto con quell’altro ) e lo supplica di entrare. Ma la narrazione si chiude qui. Alla fine, entra o non entra? L’evangelista tace deliberatamente sulla questione. Farlo entrare o meno è una scelta del lettore, che, a seconda dell’opzione di finale che sceglie, prende personalmente posizione sulla vicenda.

Anche questo rientra nelle tecniche di coinvolgimento diretto tipiche del racconto in forma di parabola. Un altro esempio simile potrebbe essere la parabola del fico improduttivo di Lc 13,6-9 (alla fine darà frutto o sarà tagliato?). E laddove il finale lascia l’amaro in bocca, come nel caso delle cinque vergini che trovano la porta chiusa quando tornano dall’acquisto dell’olio per le loro fiaccole (Mt 25,10-12), interviene la pietà popolare che fa aprire la porta anche a queste per la misericordia e la compassione dello Sposo.

Apocalisse: un tempo contro il tempo

Scritto da MARIA NISII.

 

Non vi sarà più tempo! (Ap 10,6)

Nel secondo grande romanzo di Dostoevskij, L’Idiota (1869), la maggior parte delle citazioni bibliche sono tratte dal libro dell’Apocalisse. Eppure, nonostante i tanti riferimenti, è tutt’altro che immediato acquisirne la suggestione. L’atmosfera dell’ultimo libro della Bibbia è presente nei rimandi espliciti disseminati lungo il testo, ma ancor più contribuisce a delineare il mondo ritratto, di cui diventa chiave di lettura.

La vicenda ruota attorno a un’intuizione di partenza: dar vita a un personaggio che incarni il carattere ideale della bellezza, che l’autore attribuirà non senza una vena ironica al protagonista, il principe Myskin. L’appellativo che dà il titolo al romanzo gli deriva dalla malattia mentale che lo ha colpito sin da bambino e da cui, dopo il lungo soggiorno in una casa di cura in Svizzera, sembra essere guarito. Il suo arrivo a Pietroburgo direttamente dall’Europa darà inizio al racconto.

Il coinvolgimento nelle vicende dei personaggi ai quali il principe si lega, il suo sentirsi diviso tra due donne e l’immersione nella rete di male esemplificata – tra gli altri – dal giovane Ippolit, gravemente ammalato di tisi, causano la ricaduta nella malattia epilettica. È appena prima della nuova crisi che Myskin esprime il cambiamento della percezione di sé con una citazione esplicita di Apocalisse – Non vi sarà più tempo (Ap 10,6), mentre era arrivato in Russia dicendosi “ho tutto il tempo che voglio”.

Gustave Courbet L'uomo ferito 1844-1854
Gustave Courbet, L’uomo ferito (1844-1854)

In questa fase pre-epilettica il protagonista sperimenta barlumi di ipervisione quasi beatifica, che acuiscono la sua separazione dal mondo, in cui sta sempre e ancora tentando di far parte. L’armonia che intravede in questi istanti lo proietta in una dimensione di bellezza atemporale, che lega l’ideale edenico (rappresentato dal paradiso genesiaco, che è stato per lui il tempo di degenza in Svizzera e da cui esce con grandi aspettative in termini di tempo a disposizione) e lo sguardo escatologico (più tipico di Apocalisse, in cui il tempo è vicino – Ap 1,3c). Inizio e fine, come l’alfa e l’omega, che fanno del personaggio di Myskin qualcosa di più di un ideale cristico malriuscito, come tanti critici hanno sostenuto.

È ancora con la citazione di Ap 10,6 che il giovane Ippolit mostra agli amici un rotolo sigillato (altro riferimento ad Apocalisse) contenente la propria confessione. Ma nella generale atmosfera di sovreccitazione della festa, la narrazione si fa carica di ironia e fraintendimento, anche nel suggerimento di mangiare il rotolo piuttosto che leggerlo (richiamo a 10,9: Prendi e mangialo). Ma quel non vi sarà più tempo è per il giovane tisico segno del proprio dramma, nella consapevolezza di un tempo che si rende indisponibile. L’ossessione del tempo da parte di Ippolit torna anche nell’uso dell’espressione giovannea sull’ora – a cui il Gesù del quarto vangelo fa ripetutamente riferimento per parlare della croce -: “Non berrò più. Che ore sono? No, non serve, so che ora è. L’ora è arrivata!”.

Il tempo di crisi ritratto nell’Idiota, che pure connota l’epoca di persecuzione delle chiese a cui si rivolge Giovanni da Patmos, è dunque segnato dalla percezione temporale di un giovane tisico che si vede precocemente strappato alla vita e da quella di un altro giovane che, tornato in patria guarito, ripiomba presto nella malattia psichiatrica quasi come rifugio dal mondo corrotto in cui non sa integrarsi.

L’apocalisse di Dostoevskij parla dunque della crisi del tempo presente così com’è percepita dai giovani.Sarà ancora così per i nostri Millenials?

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  • In copertina: A. Dürer, I quattro cavalieri dell’Apocalisse

 

Il battesimo di Gesù .

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

Le iconografie sacre nascono a partire da testi come le sacre scritture, le riflessioni esegetiche, gli scritti teologici e pastorali, i testi liturgici e devozionali, i testi canonici o apocrifi, le leggende e i racconti, i testi letterari e poetici di argomento religioso. Raffigurare è inevitabilmente interpretare: qualsiasi elemento inserito o escluso ha il suo peso sul significato dell’immagine.

Il tema del Battesimo di Gesù è molto diffuso nell’arte ed è una delle poche immagini che non viene relegata a un momento, a una fase storica e artistica e giunge fino all’epoca moderna rimanendo praticamente fedele allo schema originario. Questa scena, nei dipinti del periodo medioevale, è inserita tra i momenti salienti della vita di Gesù nei cicli della passione, oppure come icona propria nelle cappelle battesimali.

Tutti e quattro gli evangelisti citano questo episodio anche se in modo tra loro differente. Le opere fanno riferimento soprattutto ai vangeli di Marco e di Matteo.

(Mc 1,9-11) Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento“.

(Mt 3,13-17) In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?». Ma Gesù gli disse: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia». Allora Giovanni acconsentì. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».

Nei passi evangelici citati è riferito il momento in cui Gesù esce dall’acqua dopo essere stato battezzato, mentre nelle raffigurazioni generalmente è rappresentato l’atto in cui avviene il battesimo da parte di Giovanni Battista che alza la mano sulla testa di Gesù; lo Spirito sotto forma di colomba; la “voce” resa spesso visibile, simbolicamente, dalla mano paterna che esce da una nube luminosa, oppure l’effige del padre con sembianze umane e, nella riva, degli angeli che tengono le vesti di Gesù.

Nella chiesa della SS. Trinità di Momo nella provincia di Novara, nel Battesimo di Gesù di Francesco Cagnola risalente al 1512, ci sono solo gli elementi essenziali: la figura di Gesù, centro logico e composizionale dell’icona in asse verticale con la colomba, spogliato, mentre riceve il battesimo, Giovanni Battista vestito con una tunica di pelli, fedele al racconto di Mt 3,4, e l’acqua del Giordano messa in risalto che investe in modo impetuoso il corpo di Gesù e la mano di Giovanni che la versa in abbondanza sulla testa. In questo caso l’artista ha dato importanza all’acqua nel suo significato simbolico di purificazione.

Francesco Cagnola – 1512, Chiesa della SS. Trinità di Momo (NO)
Francesco Cagnola – 1512, Chiesa della SS. Trinità di Momo (NO)
Santa Caterina a Villanova Mondovì di Rufino di Alessandria dipinto tra il 1410 e il 1415
Santa Caterina a Villanova Mondovì di Rufino di Alessandria dipinto tra il 1410 e il 1415

Nella parete del battistero della Chiesa di Santa Caterina di Villanova Mondovì un frammento di affresco, dipinto da Rufino di Alessandria, rappresenta il Battesimo di Gesù e il Giordano sembra fermarsi prima dei suoi piedi: non soltanto il Battista riconosce la grandezza di Gesù, ma anche il fiume e ricorda le parole del Salmo 114,3: “Il mare vide e si ritrasse, il Giordano si volse indietro“. Particolare è la presenza di un airone cinerino che nel Medioevo veniva indicato come simbolo della penitenza, qui a suggellare il valore del battesimo come rinuncia al male e acquisizione della salvezza, cioè la remissione di tutti i peccati e il dono della vita nuova.

Varallo Sesia (VC) – Gaudenzio Ferrari 1513
Varallo Sesia (VC) – Gaudenzio Ferrari 1513

Per rimarcare questo aspetto Gaudenzio Ferrari, nel 1513, nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia, alla scena principale ne introduce un’altra in alto a destra tra le rocce che rappresenta le tentazioni di Gesù nel deserto, come racconta, ad esempio, l’evangelista Matteo: Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane». (Mt 4-1,3)

L’episodio delle tentazioni di Gesù è situato unanimemente dai tre Sinottici subito dopo il battesimo e tutti e tre i Vangeli mettono questa permanenza di Gesù nel deserto in rapporto con il dono dello Spirito Santo, ricevuto da lui immediatamente prima, nel battesimo.

In ognuna di queste raffigurazioni gli artisti hanno illustrato l’episodio con il sistema ritenuto più efficace per veicolare dei contenuti che venivano loro forniti da ecclesiastici che seguivano da vicino l’esecuzione delle opere, scegliendo i soggetti e facendo in modo che ogni episodio fosse fedele ai testi evangelici. Il controllo ecclesiastico fu fondamentale per secoli proprio perché le immagini sono state ritenute utili per evangelizzare, persuadere, far ricordare e memorizzare degli eventi e dei personaggi; illustrare una storia e attestarne la veridicità, tramandare un sistema di significati, di dogmi, di insegnamenti morali, suggerire e guidare delle pratiche devozionali, coinvolgere emotivamente chi le guarda.

  • In copertina: Chiesa della Santa Trinità di Momo ( No) – Affreschi interni

DODICI UOMINI IN BARCA

Scritto da  GIAN LUCA CARREGA.

Per costruire le loro trame, gli evangelisti ricorrono spesso ad elementi unificatori che possono essere di diverso tipo: geografico, cronologico, permanenza di personaggi, ecc. A volte capita che un elemento della vita reale assuma un significato simbolico che trasporta il lettore da un piano puramente descrittivo ad uno più propriamente teologico.

Uno di questi casi è il tema della barca all’interno del vangelo di Marco. Partiamo da un dato oggettivo: Marco usa il termine barca al singolare 18 volte nel suo vangelo, contro le 14 di Matteo, 8 di Giovanni e 4 di Luca, tutti testi di gran lunga più estesi del suo. Ma ciò che colpisce di più è la concentrazione della presenza: tra 4,1 e 8,21 si assommano 15 delle 18 occorrenze totali. La cosa non stupisce affatto perché con il capitolo quarto assistiamo ad un progressivo concentramento di interesse sul gruppo dei discepoli e la barca diventa il simbolo del discepolato. In un certo senso, quelli che sono sulla barca con Gesù sono quelli dentro mentre tutti gli altri sono quelli fuori. Si tenga presente che diversi dei discepoli che accompagnano Gesù nei suoi viaggi sono ex-pescatori che Gesù ha chiamato a diventare “pescatori di uomini” (Mc 1,17). Per questi, dunque, la sequela consisteva nello scendere da una barca per salire su un’altra.

Gesù può utilizzare la barca come pulpito per ammaestrare le folle (3,9 e 4,1) o come mezzo rapido di spostamento. In ogni caso è la sua presenza a bordo che fa la differenza: quando si scatena la tempesta, ciò avviene durante il suo sonno, ma basta che Gesù si svegli per mettere a tacere i flutti (4,37-39) e quando i discepoli remano disperatamente lottando con i venti contrari basta che Gesù salga a bordo perché il vento si plachi. Ma Gesù sulla barca non è mai solo e la compagnia è sempre la stessa, quella dei discepoli. Ciò non significa affatto che essi siano docili ai suoi insegnamenti e in sintonia con lui, anzi proprio sulla barca Gesù li rimprovera aspramente di avere anch’essi il cuore indurito (8,17).

Da qui emerge, dunque, la vera funzione della barca, che non rappresenta il campo di azione di Gesù e dei discepoli, ma il luogo in cui Gesù li forma e li allena con le sue parole e il suo esempio. Lontano da occhi indiscreti, Gesù li esorta ad avere più fede e a guardarsi dall’ipocrisia delle autorità religiose.

Apocalisse, rivelazione del disordine

Scritto da MARIA NISII.

Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve. Ed egli la manifestò, inviandola per mezzo del suo angelo al suo servo Giovanni, 2il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. 3Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino.(Ap 1,1-3)

Quella rivelazione che è Apocalisse (dal verbo greco apokalypto, rivelare, svelare)consiste in scenari da penultimi e ultimi tempi, che Giovanni da Patmos riceve in visione mentre si trova in esilio, dunque quale rappresentante dei cristiani perseguitati. Le immagini di giudizio mostrate vogliono essere consolazione e interpretazione del presente vissuto per tutti coloro che si trovano in quella medesima situazione di tribolazione. Ma che cosa è diventato questo libro nel corso della storia?

A causa del ricco immaginario lì contenuto, l’ultimo libro della Bibbia si è prestato a una notevole proliferazione di produzioni letterarie e culturali di vario genere. E la prima riscrittura su cui ci si potrebbe soffermare è proprio la comprensione comune del termine “apocalisse” come fine dei tempi, dal quale sarebbe stato obliato il significato originale proveniente dal greco. Non più rivelazione, Apocalisse è quindi diventata sinonimo di distruzione, devastazione e fine tragica di mondo e umanità, nelle varie declinazioni che la storia ha visto realizzarsi già sulla terra.Un breve saggio di Claudio Magris (“Le consolazioni dell’Apocalisse” in Utopia e disincanto, Garzanti, Milano, 1999) ne tratteggia efficacemente lo spostamento di senso: se l’apocalisse biblica vuole suscitare sentimenti di consolazione con la vittoria finale del cavaliere dal cavallo bianco sul drago e sui malvagi, con cieli e terra nuova donati ai beati e l’avvento radioso del Regno di Dio nella Gerusalemme celeste, di fatto nella fantasia del lettore s’imprimono maggiormente le immagini fosche delle catastrofi che precedono. La suggestione di questo libro della Bibbia è più dovuta al terrore che alla speranza, più agli scenari di scatenamento del male che di trionfo del bene. La visionaria grandezza poetica è infatti affidata alla rappresentazione della potenza del male e della sua rovina. Nel sentire comune dunque l’aggettivo “apocalittico” evoca cataclismi, con i quali il linguaggio veicola l’idea di un tempo di crisi e transizione, in cui l’uomo è sempre convinto di vivere.

In Macbeth Shakespeare recupera la simbologia del disordine, della devitalizzazione e del dissesto naturale di matrice apocalittica, non solo biblica, per descrivere le distorsioni del potere. La follia in cui verserà infine Lady Macbeth si gioca infatti su questo piano, come appare nella descrizione del medico che parla di “perturbamento della natura” (V.i.).

 

Ellen Terry nella parte di Lady Macbeth, ritratta da John Singer Sargent nel 1889.
Ellen Terry nella parte di Lady Macbeth, ritratta da John Singer Sargent nel 1889.

Se “gli atti contro natura generano turbamenti innaturali”(V.i.), il sovvertimento dei segni naturali ha contribuito a sottolineare la follia distruttiva della coppia. Nel momento dell’uccisione del re, il paesaggio è quindi segnato da impressioni di lutto incombente: si tratta di una notte inquieta, piena di vento, con terremoti e lamenti di morte: “La notte è stata inquieta… si sono uditi nell’aria dei lamenti, strane grida di morte e voci che profetizzavano con terribili accenti di un’aspra conflagrazione e di confusi avvenimenti pronti a nascere in questi tempi di ferro. L’uccello dell’oscurità gridò l’intera notte: alcuni dicono che la terra tremò per la febbre” (II.iii). La vista del corpo assassinato di Duncan evoca il giorno del Giudizio: “scuotetevi di dosso questo torpido sonno, contraffazione della morte, e contemplate la morte vera! – Su, su, venite a vedere l’immagine del giudizio… Sorgete come dalle tombe, e avanzate come spettri per affrontare questo orrore!” (II.iii.).

Michilini,APOCALISSE DI S.GIOVANNI, 1980
Michilini,APOCALISSE DI S.GIOVANNI, 1980

Le visioni allucinate che prima hanno creato le condizioni del misfatto e dopo tornano come ossessioni sono presentate come creazioni della mente: “o sei soltanto un pugnale della mente, una creazione falsa che nasce dal cervello oppresso dalla febbre?… i miei occhi sono diventati i buffoni degli altri sensi oppure valgono quanto il resto… gocce di sangue, che prima non c’erano” (II.i.).

Per Macbeth poi, dopo l’omicidio di Duncan, la piaga apocalittica degli scorpioni diventa un incubo, una figura dell’immaginazione: oh! La mia mente è piena di scorpioni, moglie cara! (III.ii). Una simbologia, quella degli scorpioni della mente, che compare anche nella gelosia disturbata di Otello.

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Lucilla Giagnoni recita il primo monologo di Lady Macbeth all’interno del suo lavoro teatrale “Big Bang”:

https://www.youtube.com/watch?v=5RpfGQT4JDs

Il mito di Sansone: forza e dolcezza

Scritto da MARIA NISII.

“La mia anima si rifugia sempre nel Vecchio Testamento ed in Shakespeare. Là almeno si sente qualche cosa: là son uomini che parlano. Là si odia! là si ama, si uccide il nemico, si maledice ai posteri per tutte le generazioni; là si pecca.” (Søren Kierkegaard)

Hayez, Sansone e il leone (1842)
Hayez, Sansone e il leone (1842)

Non in pochi si sono chiesti che cosa ci faccia un personaggio come Sansone tra i giudici biblici della storia di Israele (Gdc 13-16), nel periodo di mezzo tra l’insediamento nella terra promessa (Gs) e l’era monarchica (da 1 Sam). Ambiguo eroe dalla forza sovrumana e dalle passioni incontrollabili, personalità controversa che avrebbe dovuto salvare il popolo, nella sua tormentata vita Sansone compirà stragi più per vendetta personale che per questioni di identità nazionale. Parafrasando Kierkegaard, un uomo che parla – ma infrangendo l’assioma forza-brutalità, stupisce con il suo tono lirico (14,14 e 18; 15,16); un uomo che odia e uccide frotte di filistei, nemico per eccellenza del popolo; infine un uomo che ama – alla ricerca disperata di qualcuno che accetti e ami la sua diversità.

È questa l’interpretazione che ne Il miele del leone David Grossman (Rizzoli, 2005) propone, rileggendo interamente la vicenda dell’eroe biblico. La chiave di lettura sta tutta nel paradosso del titolo, che richiama uno dei primi episodi della giovinezza dell’eroe quando, recandosi dalla futura sposa filistea, squarta il leone che lo aveva assalito, per poi scoprire, nel viaggio seguente andando a sposarsi, che era diventato alloggio per un nido d’api che avevano riempito di miele parte della carcassa. In quel miele Sansone affonda le mani, ne mangia e ne prende per offrirlo ai genitori. Quella dolcezza di cui si riempie le mani e la bocca, donandola ai suoi mentre da loro si stava separando, dice la sensibilità di questo eroe, eccezionale come la sua forza e, come questa, ugualmente impenetrabile e misteriosa anzitutto a se stesso.

Sansone secondo Grossman è un uomo schiacciato e perseguitato dal peso di un destino deciso per lui “fin dal grembo materno” che ne fa un diverso, condannato alla solitudine nell’impossibilità di condividere con alcuno il suo segreto. È così che con Dalila succede l’imprevisto: lei infatti è “l’unica che abbia saputo chiedergli la cosa giusta, quasi lo esortasse ad affidare a lei il segreto che si porta dentro e per il quale le altre donne non avevano mostrato alcun interesse, o che forse temevano” (116).

Gustave Doré, Sansone uccide il leone (1866)
Gustave Doré, Sansone uccide il leone (1866)

Come Susanna e Betsabea, Dalila è una delle figure femminili che più ha solleticato la curiosità voyeuristica delle riscritture iconografiche. La bella traditrice sulle cui ginocchia l’eroe posa la testa in un atto di abbandono quasi infantile è modello di femme fatale e amante omicida, perfetta sintesi di eros e thanatos. Contro questa lettura tradizionale si scaglia Erri De Luca in Vita di Sansone (Feltrinelli, 2002), secondo cui Dalila non tradisce ma, al contrario, non potendo rifiutare di obbedire ai capi del popolo, predispone tacitamente con l’amante una “messinscena”, per cui “lui le rivelerà false notizie sul suo segreto, istruzioni sbagliate. Lei le eseguirà, ma non funzioneranno. Prenderanno così del tempo, ruberanno ancora giorni al loro amore” (12). A conferma di questa nuova e suggestiva ipotesi sarebbe il ritorno della forza durante la prigionia non appena gli ricrescono i capelli: i filistei certo non l’avrebbero consentito se Dalila avesse infranto il segreto. “La sentenza che fa di lui un ingenuo e di Dlilà traditrice sia pertanto derubricata a diceria e perciò annullata” (15).

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A.Van Dick, Sansone e Dalila, 

Dalila è l’unica donna di questa storia ad avere un nome. La madre è inizialmente detta la “sterile” (Gdc 13,2) e poi semplicemente “donna”, la sposa filistea è “onesta ai suoi occhi” (scelgo la traduzione di Grossman al tradizionale “mi piace”, 14,5 e 7) e quanto alla prostituta di Gaza è sufficiente che Sansone la “veda e vada da lei” (16,1).

Dalila è l’unica donna ad avere un nome e non a caso è l’unica che Sansone ami: l’amore fa uscire dall’anonimato, è atto di riconoscimento dell’Altro. Ma l’amore, appunto, è anche rischio, esposizione, sacrificio, dono di sé. La madre è stata colei che ha dato un nome al figlio (13,24) e Sansone è colui che ha dato nome immortale alla donna della valle di Sorek. E sul grembo di questa donna che ama riposa infine, fondendo l’immagine di figlio-amante, prima del sacrificio estremo.

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Samson di Haendel, oratorio in tre atti, 1741 (libretto tratto da Samson Agonistes di J. Milton)

 

Ah, la punteggiatura!

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

 

I manoscritti antichi erano ordinariamente privi dei segni di punteggiatura.

Di più, per risparmiare sullo spazio venivano compilati in scriptio continua, cioè senza spazi bianchi per separare una parola dall’altra. Questo non ostacolava più di tanto la lettura, perché un occhio abituato non ha grossi problemi a riconoscere e separare le singole parole con una discreta rapidità (provare per credere). Ma è pur vero che su una quantità di testo possono insorgere delle difficoltà e persino delle ambiguità sul modo in cui leggere e quindi sul modo in cui interpretare il testo che si ha di fronte.

Qualche esempio tratto dai vangeli ci può aiutare a capire. Un centurione si presenta davanti a Gesù per chiedere la guarigione del suo servo che è gravemente malato. La risposta di Gesù appare molto netta e determinata: “Verrò e lo guarirò” (Mt 8,7). E il centurione dirà che non è il caso che si disturbi tanto, basta una semplice parola da parte sua e sarà sufficiente a curarlo. La traduzione ecumenica della Bibbia in lingua francese ritiene invece che la risposta di Gesù sia da leggere in forma di domanda: “Moi, j’irai le guérir?”. Gesù pare provocare il suo interlocutore dicendo: “Io dovrei venire a guarirlo?”. E a quel punto il centurione spiega che la sua richiesta non arriva a tanto, eccetera eccetera. In questo caso la fede del centurione sarebbe stata sfidata da Gesù.

Un caso simile di ambiguità circa la domanda si trova in Gv 7,28. Gesù, tanto per cambiare, intesse una disputa con le autorità religiose. E a un certo punto osserva: “Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono”. La frase nelle intenzioni dell’evangelista ha un chiaro intento ironico perché gli avversari di Gesù non lo conoscono davvero e non sanno da dove viene realmente (cioè dal Padre). Questa nuance viene resa da alcune traduzioni moderne ponendo una domanda esplicita: “Certo, voi mi conoscete, ma (una possibile sfumatura avversativa della congiunzione kai in greco che è piuttosto frequente) sapete di dove sono?”.

E infine un caso che da secoli fa ammattire gli interpreti dei vangeli. Dopo la triplice preghiera nell’orto del Getsemani Gesù trova per la terza volta i suoi discepoli addormentati. A questo punto sbotta: “Dormite pure e riposatevi!” (Mt 26,45). Pare una gentile concessione di un Gesù che ormai è rassegnato circa l’incapacità di vegliare dei suoi discepoli. Ma è strano, allora, che al versetto dopo li inviti ad alzarsi e ad andare: nemmeno il tempo di chiudere le palpebre… Forse, invece, l’espressione andrebbe letta come un commento sarcastico: “Avete intenzione di dormire ancora e di riposarvi?!”. Solo chi era presente alla scena potrebbe darci l’interpretazione corretta…