Che opera d’arte è l’uomo!?

Scritto da MARIA NISII.

 

Mentre combatte contro il desiderio autodistruttivo e la richiesta di vendetta che gli proviene dal fantasma del padre (morto nel sonno per mano del fratello), il principe Amleto esprime i propri dilemmi nei monologhi che hanno reso celebre la tragedia e il suo personaggio, assunto a simbolo dell’uomo moderno a cui contribuisce ad aprire la strada. All’inizio del 1600 Amleto sottopone al dubbio l’eredità del passato, offrendo un’immagine drammatica della coscienza moderna che solleva le grandi domande sull’uomo, sul mondo, su Dio:

“Che opera d’arte è l’uomo, quanto nobile nella sua ragione, quanto infinito nelle sue facoltà, nella forma e nel movimento, quanto appropriato e ammirevole nell’azione, quanto simile a un angelo nell’intendimento, quanto simile a un dio: la bellezza del mondo, il paragone degli animali. E tuttavia, per me, cos’è questa quintessenza di polvere?” (Atto II, scena 2).

In questo passaggio del monologo possiamo scorgere un rimando al Salmo 8 – a sua volta una riscrittura dei racconti della creazione:

4 Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
5 che cosa è l’uomo perché te ne ricordi
e il figlio dell’uomo perché te ne curi?
6 Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
7 gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi;
8 tutti i greggi e gli armenti,
tutte le bestie della campagna;
9 Gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
che percorrono le vie del mare.

(Salmo 8)

In questo gioco di rimandi ci diverte ritrovare il monologo shakesperiano, tagliato e ricomposto, ma facilmente riconoscibile, in uno dei testi del soundtrack di un celebre film degli anni Settanta – Hairdi Milos Forman -, che evidentemente ha altre preoccupazioni e un’altra visione di uomo (un’opera d’arte?), ma che ad Amleto rimanda e indirettamente quindi pure alla Bibbia, dalla quale – supponiamo – non vorrebbe essere più lontano.

https://www.youtube.com/watch?v=JshdUZ5KRpo

 

hair

Ma infine il potere del testo biblico sembra andare oltre le intenzioni di tanti autori, capace com’è di aprire a letture quasi inaudite: dall’uomo creato poco meno degli angeli all’uomo opera d’arte. Questa terza matrioska aperta, che voleva inevitabilmente assumere il volto del dubbio in quel questionare sulla bontà della tradizione passata, porta però con sé pure la fede nell’uomo creatura di Dio. Ci crede? Difficile e anzi molto improbabile. Ma le riscritture sono anche questo: incastrate una dentro l’altra, una che rimanda a un’altra come in un gioco di specchi. Quasi non si riesce a scorgerne l’origine. La Fonte però non è andata perduta, dall’ennesima matrioska è sempre possibile risalire: ricomponi il gioco e la troverai!

 

  • In copertina: Laurence Olivier in Hamlet

Riscrivere: due diverse traiettorie (2)

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

Se usciamo dai confini della Bibbia canonica, ci accorgiamo che entrambi gli approcci di intervento furono operativi fin dai primi secoli. I cosiddetti Vangeli apocrifi rappresentano molto spesso una concessione alla curiosità dei lettori devoti e inventano dettagli che vanno a coprire alcuni spazi vuoti lasciati dalla trama dei Vangeli canonici. Per questo si concentrano soprattutto sull’infanzia di Gesù e su personaggi minori che consentono un ampio margine di discrezionalità senza entrare in conflitto con la tradizione assodata. Altre volte, però, questi testi intendono modificare le idee dei Vangeli canonici intervenendo in maniera più sostanziale, a volte enfatizzando la natura umana di Gesù (soprattutto nei vangeli dell’infanzia) e altre volte azzerandola quasi del tutto (Vangeli gnostici). Perciò è possibile che in uno stesso testo la riscrittura operi sotto più profili.

 

apocrifi

 

Le riscritture moderne, che nella quasi totalità sono aliene da interessi religiosi, si orientano in prevalenza sulla direttrice integrativa. La narrazione biblica è di solito molto asciutta, si limita a descrivere i fatti in maniera oggettiva lasciando al lettore il compito di indagare sulle motivazioni. Agli scrittori contemporanei piace, invece, indagare sulla psicologia dei personaggi e possono tentativamente cercare di ricostruire le intenzioni che hanno mosso ad agire le figure bibliche.

Ci si pone davanti a degli «spazi bianchi», come li ha definiti Elena Loewenthal presentando il suo lavoro su Sara durante la visita divina di Genesi 18, e si rimpolpa un episodio con degli elementi nuovi che sono convenzionalmente fittizi (il romanziere non ha accesso a fonti nuove come lo scrittore sacro) per conferire un realismo di situazioni che giova all’immaginazione del lettore. Per certi aspetti, è la storia originale che ci invita intenzionalmente a questo in alcune situazioni: il silenzio tra Abramo e Isacco mentre salgono sul monte Moria obbliga quasi il lettore a immaginare cosa passi per la testa ai due personaggi ed è quanto ricorda retroattivamente l’Isacco di «Amen» creato da Margherita Oggero.

Gustav Doré, Abramo conduce Isacco al monte
Gustav Doré, Abramo conduce Isacco al monte

Il modo in cui ci si pone di fronte al testo da rinarrare non è mai competitivo, non più cioè di quanto lo fossero le Heroides di Ovidio nei confronti dell’epica greca e latina. Ma proprio come tutta la letteratura di questo genere (la citazione dotta, la parodia, il sequel, ecc.) l’efficacia del risultato dipende molto dal grado di familiarità dell’autore e dei destinatari con il testo originale. «I giorni sulla terra» è un bellissimo racconto di Elena Varvello che può essere goduto anche da chi non ha mai sentito parlare di Giobbe, ma è chiaro che si aprono nuovi orizzonti di comprensione se si coglie in filigrana il rimando alla storia biblica.

Il bacino di potenziali interessati alla riscrittura biblica nel nostro Paese è fatalmente esiguo per la scarsa conoscenza della Scrittura, un problema che mescola la tradizionale diffidenza cattolica verso la lettura personale della Bibbia con la scarsa propensione alla lettura della nostra popolazione. Eppure la vera sfida delle riscritture, a mio avviso, è proprio questa: cercare di attrarre nuovi lettori al testo sacro attraverso opere che lo presuppongono. Ho cominciato a leggere Flannery O’Connor quando mi hanno spiegato che molti testi delle canzoni di Bruce Springsteen erano ispirati ai suoi racconti. Oggi continuo ad avere una venerazione particolare per il Boss, ma si è accesa anche la passione per la scrittrice di Savannah. Per dire come le vie del Signore sono infinite e si possa trovare una strada per la Parola anche attraverso i sentieri accidentati della letteratura.

Flannery O'Connor nel 1947

Flannery O’Connor nel 1947

  • Tratto dall’articolo  Scrivere e riscrivere la Bibbia  – su ” La Voce e il Tempo ” del 28/9/2017. La prima parte del post è stata pubblicata sul blog il 7/10/17.

Riscrivere : due diverse traiettorie

 

 

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

 

La riscrittura biblica non può essere una minaccia per il testo sacro perché è nata prima ancora della Bibbia. Sembra assurdo, vero? Eppure è così, si è cominciato a riformulare i testi che compongono la Bibbia prima ancora che venissero riconosciuti formalmente come canonici, per questo la riscrittura è un processo che non viene dopo la Bibbia, ma è inerente al suo stesso processo di formazione.

 

Per semplificare al massimo la questione, dirò che l’intervento di rifacimento di testi esistenti si basa essenzialmente su due traiettorie, quella correttiva e quella integrativa. Nel primo caso si opera su un testo per modificarlo secondo un punto di vista diverso perché non si condivide quello dell’autore.

 

Cronache

 

Nell’Antico Testamento un buon esempio è fornito dai libri delle Cronache, che riportano la storia dei re di Israele intervenendo sulle parti più scomode. Così laddove in principio era Dio stesso a suggerire a Davide di fare quel censimento del popolo che avrebbe portato delle sciagure (2Sam 24,1) diventa invece Satana a prendere questa iniziativa (1Cr 21,1). L’intento di scagionare il Signore dalla responsabilità di una azione meschina è evidente.

 

Qualcosa di simile avviene nel Nuovo Testamento con i vangeli sinottici. Se la «teoria delle due fonti» è corretta, sia Matteo che Luca si servirono di Marco per redigere i loro Vangeli, ma censurarono alcuni passaggi ritenuti scomodi: della notizia che i parenti di Gesù lo ritenevano pazzo (Mc 3,21) non c’è più traccia, così come vengono edulcorate le varie situazioni in cui i discepoli sembravano rivolgersi a Gesù senza il dovuto rispetto.

 

Marco

 

Diverso, invece, è il programma degli interventi integrativi, che intendono completare la ricchezza del racconto con delle informazioni aggiuntive. Per restare all’ambito dei Vangeli sinottici, è evidente che il passaggio dai 661 versetti di Marco ai 1071 di Matteo e ai 1151 di Luca implica il ricorso ad altre fonti e non solo la riformulazione del materiale esistente. Il Vangelo di Marco terminava, nella sua forma più antica, con le donne impaurite dall’apparizione di un giovane nella tomba vuota (Mc 16,8). Matteo e Luca, invece, riportano delle apparizioni del Risorto che servono a confermare il lettore nella convinzione che Gesù è davvero risuscitato.

 

 

  • Tratto dall’articolo  Scrivere e riscrivere la Bibbia  – su ” La Voce e il Tempo ” del 28/9/2017.

Simone il mago

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

 

Simone il Mago è un personaggio poco conosciuto ai più, ma nell’arte è stato rappresentato spesso, soprattutto dal medioevo in poi. L’unico testo canonico che ne parla è gli Atti degli apostoli At 8,9-24, dove è citato un “tale di nome Simone, dedito alla magia, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samaria, spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando: «Questi è la potenza di Dio, quella che è chiamata Grande». Gli davano ascolto, perché per molto tempo li aveva fatti strabiliare con le sue magie. Ma quando cominciarono a credere a Filippo, che recava la buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo, uomini e donne si facevano battezzare. Anche Simone credette, fu battezzato e non si staccava più da Filippo. Era fuori di sé nel vedere i segni e i grandi prodigi che avvenivano. Allora gli apostoli, che erano a Gerusalemme, saputo che la Samaria aveva accolto la Parola di Dio, mandarono da loro Pietro e Giovanni. Essi andarono e pregarono per loro affinché ricevessero lo Spirito Santo; infatti non era ancora disceso su alcuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Quindi imposero loro le mani, ed essi ricevettero lo Spirito Santo. Simone, vedendo che per l’imposizione delle mani degli apostoli veniva dato lo Spirito Santo, offrì loro del denaro, dicendo:«Date anche a me questo potere, affinché colui al quale imporrò le mani riceva lo Spirito Santo».Ma Pietro gli disse: «Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai creduto di poter acquistare con denaro il dono di Dio. Tu, in questo, non hai parte né sorte alcuna; perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Ravvediti dunque di questa tua malvagità; e prega il Signore affinché, se è possibile, ti perdoni il pensiero del tuo cuore. Vedo infatti che tu sei pieno d’amarezza e prigioniero d’iniquità».Simone rispose: «Pregate voi il Signore per me affinché nulla di ciò che avete detto mi accada».

 

Da questo fatto derivò il termine “simonia” cioè la compravendita di beni sacri spirituali, che caratterizzerà i costumi di alte sfere ecclesiali per molti secoli. Vari tentativi di riforma cattolica tra il Quattrocento e il Cinquecento, la riforma protestante, la controriforma cattolica, affrontarono, da vari punti di vista (morale, canonico, politico) il problema diffuso in quei periodi, finché il Concilio di Trento iniziò ad occuparsi del fenomeno e nei secoli successivi emanò diversi provvedimenti in proposito.

Anche le immagini nelle chiese colsero questa problematica inserendo nei cicli della vita di Pietro il racconto leggendario di Simone il Mago, emblematico della vittoria dell’ortodossia della quale è consegnataria la Cattedra di Pietro.

Proprio per coinvolgere il fedele nei dipinti, la maggioranza degli artisti rappresenta l’attimo della caduta, non attenendosi letteralmente agli Atti degli Apostoli ma agli  apocrifi Atti di Pietro e Paolo. In questi si narra che Simone, per convincere Nerone, si offre di ascendere verso il cielo nel Foro Romano e con le sue arti magiche riesce a volare, ma le preghiere di Pietro annullano l’efficacia della sua magia ed egli precipita.

 

 

Monreale - Duomo - abside laterale destra mosaici di fine XII secolo
Monreale – Duomo – abside laterale destra mosaici di fine XII secolo

 

 

Nel duomo di Monreale i mosaici risalenti alla fine del XII secolo nell’abside laterale sinistra, illustrano le due scene della vita di San Pietro: la sfida avvenuta dinanzi all’imperatore Nerone in presenza anche di San Paolo e la fallita dimostrazione di potenza spirituale da parte di Simon Mago con la sua caduta.

 

 

Assisi – Basilica Superiore di San Francesco – transetto destro -Cimabue e aiuti 1277-1283
Assisi – Basilica Superiore di San Francesco – transetto destro -Cimabue e aiuti
1277-1283

 

 

Ad Assisi, nel transetto destro della basilica superiore di San Francesco, in un unico riquadro Cimabue dipinge le due scene: una che mostra Simon Mago su un’alta impalcatura lignea afferrato dai diavoli e fatto volare, l’altra a destra – San Pietro e Simon Mago da Nerone che si sfidano – e all’estrema sinistra San Paolo inginocchiato.

 

 

Firenze –Chiesa di Santa Maria del Carmine – Cappella Brancacci - Filippino Lippi (1482-1485 circa).
Firenze –Chiesa di Santa Maria del Carmine –
Cappella Brancacci – Filippino Lippi (1482-1485 circa).

 

 

Singolare è l’affresco di Filippino Lippi, nella Cappella Brancacci della Chiesa di Santa Maria del Carmine, a Firenze , in periodo rinascimentale: al posto della scena della caduta, inserisce la crocifissione di Pietro, mentre si sofferma sull’episodio davanti a Nerone di San Pietro e Simon Mago in presenza anche di San Paolo, e l’idolo pagano abbattuto a terra che testimonia la sconfitta di Simone.

 

A Milano, nella Chiesa di San Marco all’interno della  Cappella Foppa , si trova questa rappresentazione, opera di Giovanni Paolo Lomazzo:
Cappella Foppa

Milano – Chiesa di San Marco – Cappella Foppa – Giovanni Paolo Lomazzo (1571)

 

Particolare attenzione è dedicata alla resa prospettica del corpo del mago, sospeso in alto, colto nell’attimo in cui sta per precipitare, così come alla resa delle espressioni di stupore e sconcerto degli osservatori della scena, allineati in primo piano.

Il massimo dell’importanza del significato di questo episodio è nella chiesa dei Santi apostoli Pietro e Paolo a Mondovì, dove la scena della caduta, oggi non più facilmente leggibile, viene rappresentata da Luigi Morgari nel 1900 in facciata.

 

mondovi

  • In copertinaMorte di Simon Mago, illustrazione di un anonimo presente nelle Cronache di Norimberga del 1493

Impacciato di bocca e di lingua

Scritto da MARIA NISII.

 

Quando Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente ha grandi progetti: liberare il popolo dalla schiavitù d’Egitto e condurlo nella terra promessa. Per fare tutto questo, Mosè dovrà rivolgersi al faraone e ottenerne il consenso. Ma al sentire questo, nascono le riserve di colui che era arrivato fin lì solo per pascolare il gregge del suocero: chi sono io per andare dal faraone…qual è il nome di Colui che mi vuole inviare… E poi: non mi ascolteranno… non mi crederanno…

A tutte le obiezioni Dio offre ogni genere di rassicurazione, fino al potere del miracolo: il bastone con cui Mosè potrà compiere grandi segni e prodigi nel nome del Signore. Non sapendo più che cosa obiettare ed evidentemente preoccupato, Mosè tenta l’ultima carta: “non so parlare”. Letteralmente il testo ebraico dice: “per cortesia, io non sono un uomo di parole, non lo sono stato, né ieri, né avanti ieri, né adesso che mi parli, pesante di bocca e di lingua sono io”. L’alibi di Mosè assomiglia molto a quello di Geremia: «Ahimè, Signore Dio!Ecco, io non so parlare, perché sono giovane»(Ger 1,6).

Marc Chagall, Mosè davanti al roveto ardente
Marc Chagall, Mosè davanti al roveto ardente

La vocazione profetica suscita sempre resistenze. Ma quanto al parlare, Dio offre la più grande delle rassicurazioni e si fa addirittura “suggeritore”: «Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire» (Es 4,12), dice a Mosè; «io metto le mie parole sulla tua bocca» (Ger 1,9), dice al giovane Geremia. Il profeta diventa così la “bocca” di Dio!

Che cosa possano diventare le obiezioni di Mosè nella penna dei riscrittori apre a tutto un gioco di interpretazioni, di cui Deserto. Il romanzo di Mosè (1977) di Ian Dobraczyńskisembra proprio la più “impacciata”.

Nel romanzo la vicenda biblica riscritta prende avvio dalla contrattazione con il faraone: quattro uomini escono dal suo palazzo, turbati per quanto appena accaduto. Solo dopo qualche istante uno di loro spezza il silenzio ed esprime i propri dubbi a un altro, che viene ampiamente descritto come qualcuno dall’età indefinibile, fronte spaziosa, bocca grande ma timida come quella di un ragazzo. Il primo tratto con cui si caratterizza l’identità del protagonista è infatti la “timidezza” della parola. In risposta l’uomo sembra muovere le labbra, ma di fatto non emette suono e di fronte all’impazienza dei due accompagnatori è un terzo a difenderne il silenzio, precisamente il fratello Aronne, come il Dio biblico aveva suggerito:«Non vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi, sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo. Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: egli sarà la tua bocca e tu farai per lui le veci di Dio» (Es 4,14-16). E tuttavia, quando infine Mosè prenderà la parola, il suo sarà quel balbettio che nella Bibbia ha esitato ad assumere forma esplicita: “Jjjavé Dddio d’Aaabramo cccossì hha dddetto” (15).

L’ampiezza del romanzo (oltre 400 pagine) è indicativa del tentativo compiuto: dare corpo e vita a quanto è rimasto in ombra nel testo biblico. E il realismo narrativo di questo autore polacco (molto letto e ben recensito dal mondo cattolico) impone quindi di far balbettare Mosè, già che egli è “impacciato di parola”, e di ricorrere in soccorso alla voce di Aronne. La lettura dei balbettii che all’inizio risulta spiazzante, dopo un po’ infastidisce fino ad apparire ridicola. Se infatti gli spazi bianchi aprono alla creatività dell’artista, talvolta dobbiamo proprio ammettere che l’ellitticità biblica sia di gran lunga più evocativa. Interpretare quell’ “impaccio” come balbuzie è indubbiamente un’ipotesi possibile, ma se diventa l’unica chiude il testo a un iperletteralismo esasperato che fa male prima alla Bibbia e poi alla letteratura.

Mosè di Michelangelo, basilica di san Pietro in Vincoli, RomaMosè di Michelangelo, basilica di san Pietro in Vincoli, Roma.

  • In copertina: Michelangelo, Mosè, ( particolare del volto)

Trappole per volpi

Scritto da GIAN LUCA CARREGA.

 

Il linguaggio metaforico è un lusso che ci possiamo permettere facilmente perché non è troppo dispendioso. Puoi dire a qualcuno: “Sei un asino!” e quello capisce bene che non deve correre davanti a uno specchio per vedere se gli son cresciute le orecchie, ma pensa che alludiamo alla sua stupidità.Questo, purtroppo, a scapito di un animale per nulla stupido e assai prezioso.Ma l’efficacia di una metafora è condizionata dal contesto culturale: il mittente e il destinatario devono condividere lo stesso codice altrimenti l’immagine va persa o viene fraintesa.

 

Quando leggiamo i vangeli gli incroci culturali sono più complessi di uno svincolo autostradale, per restare nell’ambito della metafora. Anzitutto c’è la mescolanza di culture nel territorio palestinese, in cui Gesù vive e opera, dove la tradizionale cultura ebraica è permeata di suggestioni provenienti dal mondo ellenistico e dal retaggio dei popoli mesopotamici e cananaici. In secondo luogo c’è il gap cronologico tra quell’epoca e la nostra, per cui il medesimo concetto si carica di significati che possono allontanarsi da quello originario. Vediamo un esempio pratico per chiarirci le idee.

 

Verso la metà del vangelo di Luca Gesù viene informato dai farisei (che sarebbero i suoi nemici, ma si sa che a volte i nemici ti si affezionano più dei tuoi cari) che il tetrarca Erode ha intenzione di fargli la festa, perciò è bene che se la dia a gambe fin che è in tempo.Gesù li rimanda indietro con un’ambasciata per Erode che inizia così: “Andate a dire a quella volpe…” (Lc 13,32). Quale idea o valore si cela qui dietro alla metafora animalesca? Nel nostro contesto non avremmo dubbi: Gesù intende riferirsi all’astuzia del tetrarca che viene associata a quella di un animale che ne è simbolo. Questa connessione esiste anche nel mondo antico, non solo in ambito greco, ma anche giudaico. Un testo di qualche secolo dopo, ma attribuito a Rabbi Akibà che visse nel secondo secolo d.C., racconta la storia di una volpe che vedeva i pesci del fiume saltare di qua e di là. Si fermò a domandare: “Da cosa scappate?”. Quelli risposero: “Dalle reti degli uomini”. Allora la volpe fece loro una proposta: “Perché non venite qui all’asciutto? Potremmo vivere fianco a fianco come i nostri antenati”. Quelli risposero: “E tu sei quello che chiamano il più astuto degli animali? Ma va’ là, tu sei pazzo, non sei astuto. Se abbiamo paura qui che siamo nel nostro elemento, pensa quanta ne avremmo una volta fuori!” (bBerakot 61b).

 

Ma il mondo giudaico conosce anche un’altra caratteristica legata alla volpe, quella di un animale la cui ferocia non può essere paragonata a quella del leone e per questo viene temuta assai meno. Anche qui un breve aneddoto ci è d’aiuto.Uno studioso godeva sulle prime di grande considerazione, ma ad un esame più approfondito si rivelò una persona totalmente incapace. La gente, allora, diceva: “Quello che dicevano essere un leone si è rivelato una semplice volpe” (bBaba K. 117a). Perciò una volpe appare come un leone di serie B. Se consideriamo il contesto dell’episodio evangelico le conseguenze sono interessanti. Erode è un tetrarca, cioè sta un gradino sotto il re come la volpe sta un gradino sotto il leone. Vuoi vedere che Gesù ironizza su quest’uomo che ambiva alla corona ma non riuscì mai a ottenerla?

Come la volpe e l’uva, ma questa è un’altra storia e un’altra metafora!

C’è ricco e ricco

Scritto da GIAN LUCA CARREGA

 

Nelle mani del narratore onnisciente c’è un patrimonio illimitato di informazioni di cui può disporre a piacimento, ma non è sempre utile sciorinarle al lettore ed anzi qualche volta può diventare addirittura controproducente. Quando Luca offre ai lettori del suo vangelo uno dei pezzi forti del suo testo, la parabola del figliol prodigo, dobbiamo tenere presente che ci troviamo oltre la metà del racconto evangelico e che questa storia va integrata in un contesto più ampio. Questo forse ci aiuta a capire il motivo di un esordio estremamente asciutto nel presentare i personaggi della parabola: “Un uomo aveva due figli” (Lc 15,11). Difficile immaginare qualcosa di più sintetico!

 

Da un lato si può osservare l’estrema efficacia nel riferire tutto ciò che è necessario sapere per inquadrare la vicenda con il numero minimo di parole. Qualcuno si domanda se il silenzio circa la moglie/madre sia stato intenzionale: l’uomo era vedovo? Oppure la figura della donna non viene ritenuta essenziale in questioni che riguardano il potere e l’eredità, notoriamente appannaggio del versante maschile della famiglia? Per inciso va detto che le uniche figure femminili che compaiono in questa parabola sono le prostitute evocate dal fratello maggiore come causa di dilapidazione del patrimonio… Inutile speculare su altre figure che realisticamente possono essere state presenti sulla scena, ma che nella prospettiva del narratore distraggono l’attenzione dal triangolo che domina il racconto, costituito dal padre e dai suoi due figli.

 

Dall’altro lato si può ipotizzare che alcune informazioni, pur essendo vere, avrebbero orientato in maniera errata il giudizio del lettore. Il padre della parabola è chiaramente un uomo benestante, che dispone di un patrimonio da lasciare ai figli, una parte del quale può essere trasformato in moneta sonante e assegnato al giovane scapestrato che non vede l’ora di darsi alla pazza gioia. Poiché a casa non vanno in miseria, c’è da pensare che ne restasse una parte cospicua. Anche i lauti festeggiamenti e l’uccisione del vitello grasso rimandano senza dubbio ad una condizione agiata, che il lettore percepisce, ma che il narratore non esplicita. Perché? La storia poteva benissimo incominciare così: “Un uomo ricco aveva due figli”. Ma per il lettore di Luca è troppo fresco il ricordo di un’altra parabola narrata in Lc 12,16-21 dove un uomo ricco pensa di potersi garantire lunghi anni di felicità grazie all’opulenza dei suoi raccolti e invece deve improvvisamente rendere l’anima a Dio. Un ricco stolto, capita. Ma dopo la parabola del prodigo avremo un altro uomo ricco che passa la vita a banchettare fino a quando viene anche per lui il momento di compiere il viaggio per l’aldilà e allora si trova nella situazione opposta in mezzo ai tormenti (Lc 16,19-31).

 

Ce n’è abbastanza per rendersi conto che i ricchi delle parabole non sono personaggi positivi, anzi si attirano il disprezzo dell’uditorio per il loro comportamento gretto e superbo. Il padre del prodigo è ricco, ma non è così. Luca non pensa affatto che sia una figura negativa (ci mancherebbe, è metafora del comportamento di Dio Padre) e non vuole che questo dubbio sfiori il suo lettore, perciò non può introdurlo come gli altri ricchi negativi. Lui è ricco, ma non esita dividere le sue sostanze con i figli, perché la sua identità non è legata alla sua ricchezza. Forse è il vero ricco, mentre gli altri credono solo di esserlo.

La moltiplicazione e la “divisione” dei pani e dei pesci

Scritto da NORMA ALESSIO.

 

L’unico miracolo narrato da tutti i quattro evangelisti è la “moltiplicazione” dei pani e dei pesci, “divisi” tra cinquemila uomini (Mt.14,13-21; Mc. 6,32-44; Lc. 9,10b-17; Gv.6,1-13). Matteo e Marco raccontano anche di un secondo pasto per quattromila persone (Mt. 15,32-38; Mc. 8,1-9).

Il primo è uno dei miracoli di Gesù descritto in modo piuttosto minuzioso, con diversi particolari comuni per i quattro evangelisti, come il numero di uomini che sono stati sfamati, che Matteo però precisa ad esclusione di donne e bambini; il numero dei pani, che Giovanni specifica di orzo, e dei pesci, distribuiti con indicazione della quantità e il numero di ceste di cibo avanzato.

Analizzando alcune delle opere risalenti ai periodi che vanno dal IV al XVII secolo, si può notare che a questo miracolo sono state date letture diverse così come anche la loro iconografia, ricorrendo prevalentemente alla simbologia più che alla narrazione del fatto.

Una è la relazione dell’eucaristia con la vita oltre la morte, che ricorre con una certa frequenza nella letteratura paleocristiana; l’altra viene collegata a di Gesù e all’anticipazione del dono di sé stesso.

pesce

Gli artisti hanno rappresentato questo miracolo sin dagli inizi del Cristianesimo: dapprima nelle catacombe e sui sarcofagi, poi nei refettori di conventi o luoghi religiosi; raramente nelle chiese. A partire dall’inizio del IV secolo e per l’intero corso dello stesso, l’episodio viene rappresentato con pochi elementi, quelli essenziali per rammentare il simbolo dell’Eucaristia, la fede e la speranza in Cristo nel banchetto celeste dopo la morte e/o la comunione con Dio grazie alla forza salvifica di Cristo.

Infatti in questi Cristo appare per lo più da solo e indirizza la virga, il segno del suo potere divino, verso la cesta dei pani. Solo in un cubicolo della catacomba di San Callisto, probabilmente databile alla metà o alla seconda metà del IV secolo, Cristo appare in compagnia di sette persone, numero simbolico, che indica che tutti sono da Dio chiamati alla salvezza, che siedono attorno a una mensa dove sono posti due piatti con pani e pesci e ai lati della tavola ci sono i cesti di pane.

Roma -catacomba di San Callisto –IV secolo
Roma -catacomba di San Callisto –IV secolo

 

Un mosaico del V secolo raffigurante questo episodio, che sottolinea ancora la valenza eucaristica dell’immagine, è a Ravenna in Sant’Apollinare Nuovo. Al centro della composizione c’è Cristo nell’atto di stendere le braccia per dare i pani e i pesci agli apostoli che li distribuiranno alla folla. I particolari simbolici sono originali: Cristo veste una toga purpurea, ha le braccia aperte in atto di benedire i “cinque pani e due pesci”, benedice, sì, due pesci, ma solo quattro pani, perché il quinto pane è la mano di Gesù.

Ravenna – Chiesa di Sant’Apollinare Nuovo – mosaico V secolo

Ravenna – Chiesa di Sant’Apollinare Nuovo – mosaico V secolo

 

Firenze - Chiesa di Sant’Antonino - Raffaellino del Garbo – 1503
Firenze – Chiesa di Sant’Antonino – Raffaellino del Garbo – 1503

Più tardi, nel XVI secolo, l’affresco staccato, oggi nella chiesa di Sant’Antonino a Firenze ma originariamente nel refettorio del convento di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi (1503), nel luogo normalmente occupata dall’ultima cena, vi è Gesù circondato dagli apostoli a cui vengono presentati i pani e i pesci da un bambino come descritto da S. Giovanni “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci”. La scelta nel rappresentare questo episodio evangelico è riassunto nel gesto del dono: i pani e i pesci si ricollegano all’offertorio nella liturgia eucaristica e al dono che Cristo fa di sé.

Pienza (Siena)-Giovanni Antonio Bazzi detto Sodoma - Monastero di Sant'Anna in Camprena -1503-04.
Pienza (Siena)-Giovanni Antonio Bazzi detto Sodoma – Monastero di Sant’Anna in Camprena -1503-04.

Giovanni Antonio Bazzi detto Sodoma, nel 1503, nell’affresco per il refettorio del convento di Sant’Anna in Camprena a Pienza, dà un’altra interpretazione dello stesso miracolo. Qui si evidenzia il concetto della carità: in una delle edicole le ceste sono vuote in attesa di essere riempite dalla sovrabbondante carità del miracolo di Gesù.

Venezia - Jacopo Tintoretto - Scuola grande di San Rocco -1578-81
Venezia – Jacopo Tintoretto – Scuola grande di San Rocco -1578-81

Jacopo Tintoretto, invece, nella sala superiore della Scuola Grande di San Rocco a Venezia, ci offre una suggestiva rilettura del miracolo, collocato – proprio come nel Vangelo di Marco – entro la cornice della Pasqua, probabilmente su suggerimenti di teologi. Egli dipinge su diverse tele scene che si collegano tra loro evidenziando i significati simbolici del pane come cibo divino. Una rimanda a quella accanto o a quella di fronte, come un discorso ininterrotto. Sulle pareti, in perfetta corrispondenza, stanno una di fronte all’altra “L’ultima cena” e “La moltiplicazione dei pani e dei pesci”; sui lati del soffitto la “Caduta e raccolta della manna”, negli ovali “Eliseo che moltiplica e distribuisce i pani” ed “Elia che riceve dall’angelo i pani e l’acqua”. Il tema del pane ricorre ancora nella “Natività con i pastori” che offrono un pane buono e di fronte la scena della “Tentazione nel deserto” in cui un demonio offre a Gesù due pietre affinché le tramuti in pane.

Ancora su Giobbe: una doppia riscrittura. (1)

Su LA STAMPA del 24 maggio 2007, alla pagina Cultura, comparve una recensione della traduzione dell’opera dell’autore latino Marziale  per mano di Guido Ceronetti , riedita a quarant’anni di distanza dalla sua  prima edizione.

Il titolo dell’ articolo, letto oggi,  rimanda curiosamente al tema del nostro blog:

Se il traduttore è un riscrittore

e allude alla possibilità di un lavoro su un testo in lingua originale che, più che badare a una traduzione letterale e il più possibile terminologicamente fedele, si preoccupi piuttosto di restituire  lo spirito, il carattere, l’atmosfera della pagina tradotta. Ceronetti stesso, si legge nell’articolo, si autoritrasse in questo compito “fotografandosi” come  inginocchiato sulla pietra dura dei linguaggi morti.

Tra i testi tradotti citati nella recensione, compaiono anche testi biblici e, in particolare, il libro di Giobbe. A proposito del quale si legge:

“La fama di Ceronetti traduttore non ha bisogno di essere ricordata. Il suo lavoro in questo campo, uno dei tanti in cui si è cimentato con successo, è senza dubbio centrale. Riguardando autori latini come Giovenale, Catullo e Marziale e grandi testi biblici come Giobbe, i Salmi e Qohélet, detto lavoro ha la particolarità di unire in un arco voci lontane del mondo pagano antico e voci della tradizione ebraica. La lunga pratica di tradurre autori sia del passato che del presente come quelli contenuti in “Come un talismano” (Adelphi, 1986) ha inoltre liberato Ceronetti dall’angustia e dai limiti di avere un linguaggio. Ceronetti infatti non usa i termini di un sapere specifico. Confrontandosi con i suoi autori, egli usa parole, le parole della vita, e ogni volta che si misura con un testo nuovo è costretto a partire per il mare aperto. Così accade che invece di scrivere di Giobbe, Ceronetti imprechi come Giobbe.”

Il libro di Giobbe – versione e commento di Guido Ceronetti- fu infatti pubblicato  nel 1972 nella Collana Biblioteca Adelphi e, sul risvolto di copertina, così veniva presentato:

“Guido Ceronetti, con la sua versione e il suo commento, ha cercato, nell’oscurità e nell’enigma, di offrire in tutta la loro forza oscurità e enigmi, perché questo testo, che nessuna ragione potrà mai accettare, appaia nuovamente inaccettabile, arricchito dalla scomparsa di quelle tante mitigazioni esegetiche nelle quali secoli di devozione e di empietà lo hanno avvolto. “

Passano quasi quarant’anni, ed ecco :  qualcuno si trova a riscrivere – in musica questa volta – la riscrittura di Giobbe fatta da Ceronetti  molti anni prima. Si tratta di Vinicio Capossela che nel 2011, in occasione dei suoi vent’anni di carriera, esce con l’album Marinai, profeti e balene che contiene il brano Job, con un testo liberamente tratto dal Libro di Giobbe  proprio nella traduzione  di Ceronetti.

Così, come in una matrioska, la storia di Giobbe, scritta, riscritta e riscritta ancora giunge fino  noi con accenti e suggestioni sempre rinnovati.

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  • Vinicio Capossela , Job.

 Un uomo era in terra di Uz

un uomo di perfetta purità

temeva Dio e il male aborriva

tra tutti i figli dell’oriente, uomo più grande non c’era

e un giorno venne che i figli della terra

stettero davanti al Signore

e Satana tra loro.

Hai messo il tuo cuore sul mio servo Job?

È un uomo di perfetta purità

di un bastione lo hai circondato

ma stendi la tua mano e colpiscilo nel suo

sulla tua faccia ti maledirà.

E un giorno un messaggero venne a Job e disse:

“Fuoco di Dio dal cielo è sceso

greggi e mandriani ha divorato

sono venuto a dirlo io, il solo scampato”.

Parlava ancora e un altro arriva e dice:

“I figli tuoi sedevano e mangiavano

quando ecco dal deserto leva un vento

nella rovina sono morti”.

“Dal ventre di mia madre nudo sono uscito,

nudo tornerò

il Signore dà, il Signore toglie

sia benedetto il nome del Signore”.

E Satana disse: “La pelle per la pelle.

L’uomo dà tutto per la vita

ma stendi la tua mano nel suo osso,

sulla tua faccia ti maledirà”.

E piagò Job con l’ulcera del male dai piedi fino al cranio.

“Maledici il Signore e muori!”.

“Se accettiamo il bene, dobbiamo prendere anche il male

il Signore dà, il Signore toglie,

sia benedetto il nome del Signore”.

E infine Job apre la bocca e grida:

“Che tu sia maledetto giorno che mi hai partorito,

che sia un giorno di tenebra, il cielo lo ripudi

gli neghi il lume della luce.

Perché ginocchia venirmi incontro?

Perché mammelle vi ho succhiato?

Perché la luce è data a chi pena?

Perché la vita a una gola amara?

Ecco, i terrori che più ho temuto

ecco incarnarsi le mie paure non ho pace né tregua,

sono un cumulo di dolore.

Strepita pure, chi ti risponde?

Se cerchi Dio, se implori Shaddai

se rispondesse quando io grido

solo m’ingozza di pena amara

Dio stermina chi ha colpa

e chi non ha colpa

la terra è data in mano a chi fa il male

la faccia dei suoi giudici è coperta.

Tu che hai messo in me la grazia della vita,

Tu che fai dei miei giorni un’ombra

ecco che nascondi nel tuo cuore:

terra buia come la tenebra

dove non brilla che oscurità

e adesso che il mio occhio ti ha veduto

mi ripudio

e mi consolo

sulla polvere e sulla cenere”.

 

  • In copertina: Foto di Guido Ceronetti